LICINIO, Giulio
Nacque a Venezia nel 1527, figlio di Arrigo e Agnese. Il padre fu pittore, ma di qualità sicuramente molto modesta se per tutta la vita operò come assistente nella bottega del fratello Bernardino. Il più antico elemento documentario che riguarda il L. si ricava da un'incisione, datata 1544, dell'Annunciazione dipinta dal Pordenone (Giovanni Antonio de' Sacchis) nel 1537 per la chiesa di S. Maria degli Angeli a Murano.
Il disegno realizzato dal diciassettenne L. fu tradotto a stampa dal fratello maggiore Fabio, il quale godette di un certo prestigio oltreché come incisore anche come orafo. L'incisione recava l'iscrizione "Hanc Pordenon(is) J(iulius) Lycinius excud(it) Fabio Ve. fe(cit)", che, per quanto intendesse specificare i vari ruoli nell'impresa, si trasformò in una delle cause di quella secolare confusione nominale tra il Pordenone e Bernardino Licinio, che si trascinò nella letteratura storico-artistica sino al principio del XX secolo.
È pressoché certo che la formazione del L. avvenne sotto l'ombra paterna nell'attiva bottega dello zio Bernardino, il quale eternò tutta la numerosa famiglia di Arrigo in uno fra i suoi dipinti più riusciti e celebri, oggi nella Galleria Borghese di Roma.
È stato proposto di riconoscere la mano del L. in alcune delle opere devozionali, destinate a una committenza di medio rango, avvicinabili all'attività di Bernardino nella seconda metà degli anni Quaranta (Vertova, pp. 515-517): in particolare, il suggerimento parrebbe congruo a proposito della Salomè del Museo Puškin di Mosca. È chiaro, in ogni modo, che dopo la morte dello zio, riferibile precisamente alla metà del secolo, il L. dovette succedergli alla guida della bottega. Appare fondata, ma non certa, l'attribuzione alla sua mano, nella fase estrema della collaborazione con Bernardino, della pala raffigurante la Madonna con Bambino in trono, tre angioletti, i ss. Lorenzo e Orsola e il senatore Lorenzo Pasqualigo, dipinta per la cappella Pasqualigo in S. Maria degli Angeli, a Murano, ma dal 1810 conservata nella chiesa di S. Pietro Martire, sempre a Murano: un'opera di un certo interesse, nella sua commistione di una monumentalità convenzionalmente postbelliniana e di timide aperture verso il Pordenone. Ma il passaggio di mano fra zio e nipote ebbe a compiersi durante la realizzazione dell'Adorazione dei magi, per la chiesa di S. Francesco a Manfredonia. La pala dovette essere ultimata proprio attorno al 1550, ed è l'unico dipinto che fu firmato congiuntamente dai due pittori ("Bernardinus Iuliusque Lycini / patruus et nepos faciebant"). La semplicità e la ponderatezza tipiche di Bernardino emergono, oltreché nel progetto compositivo, nel paesaggio e nel gruppo delle figure di destra, comprensivo della Madonna col Bambino; mentre si direbbe risalire al L. il maggiore dinamismo e brio impaginativo della più affollata metà sinistra.
Il primo dipinto datato, e anche siglato, dal L. è il Ritratto di gentiluomo col figlio, del 1552, già in collezione privata londinese e oggi di ubicazione ignota (ibid., p. 574). Di un anno successiva è la pala della chiesa di S. Antonio Abate a Lonno (Bergamo), raffigurante la Madonna col Bambino e s. Caterina in gloria e sette santi, datata e firmata con tanto di specificazione della propria età (ventisei anni) da parte del pittore.
In questo dipinto, che sostituì sull'altare maggiore una perduta pala di Giovanni Cariani firmata e datata 1514, l'equilibrio fra la matrice stilistica d'origine e la seduzione di modelli manieristi è ancora piuttosto precario, per quanto la bilancia penda sempre più in favore dell'esempio del Pordenone e di Paris Bordone. L'esibizione di anatomie imponenti si fa più esplicita e si accentua lo sforzo in favore di posture e gestualità maggiormente drammatiche: ma il modulo compositivo resta abbastanza povero e inerte.
Nel corso del sesto decennio la carriera del L. a Venezia procedette senza guizzi sino all'importante commissione, frutto della regia di Jacopo Sansovino e Tiziano, di tre dei ventuno tondi che dovevano decorare il soffitto del salone della Libreria di S. Marco, impegno che fu ratificato dal contratto dell'agosto 1556.
Non molte opere possono essere collocate in modo convincente nel corpus del L. prima di questa data. Paiono coerenti con una datazione intorno alla metà degli anni Cinquanta la versione firmata della Caduta di Saulo, oggi nel Museo di Castelvecchio, a Verona, e un'altra redazione dello stesso tema, totalmente diversa, in collezione privata veneziana (ripr. in Da Tiziano a El Greco, p. 145). I due dipinti condividono un certo tizianismo nel paesaggio e una generica parentela compositiva e coloristica con le opere coeve dello Schiavone (Andrea Meldolla) e di Battista Franco, punte di lancia nella ricezione lagunare della maniera tosco-romana. A ridosso dei tondi della Libreria Marciana dovrebbe situarsi la serie di quattro piccole tavole oblunghe, di analoghe dimensioni (forse cassoni o pannelli di armadio), raffiguranti scene classiche di tema militare. I quattro dipinti, che presentano qualche affinità stilistica con i modi dello Schiavone e di Lamberto Sustris, furono in casa Manfrin a Venezia, con l'attribuzione a Bonifacio Veronese, sino alla loro alienazione alla fine dell'Ottocento: oggi si trovano divisi fra la National Gallery di Londra, una collezione privata londinese (Vertova, p. 574), e la collezione Szeben di Budapest (ibid., pp. 554 s.).
L'invito da parte dei procuratori di S. Marco a lavorare per il soffitto della Libreria corrispose a una sorta di inattesa investitura del L., non ancora trentenne, al ruolo di promessa nel ricchissimo scenario artistico lagunare.
Furono sette i pittori coinvolti nell'impresa, ciascuno incaricato della stessa mole di lavoro (una fila di tre tondi) e messo sotto contratto per la medesima cifra di 60 ducati. Oltre al L. si trattava di Giuseppe Porta, Battista Franco, Giovanni De Mio, lo Schiavone, Paolo Veronese e Giambattista Zelotti. Tutti gli artisti furono messi sotto contratto il 19 ag. 1556, con l'obbligo di ultimare i lavori entro il gennaio successivo. Al L. spettò la fila centrale di tondi; ed egli realizzò tre composizioni allegoriche che raffiguravano, rispettivamente, La Veglia e il Sacrificio, La Gloria e la Beatitudine, La conquista della Virtù. Quest'ultimo tondo fu irrimediabilmente danneggiato da infiltrazioni di pioggia e nel 1635 venne sostituito da una nuova tavola dipinta da Bernardo Strozzi. Il L. corrispose con naturalezza al carattere generale dell'impresa, di marcata inflessione stilistica tosco-romana, coniugando un evidente michelangiolismo con il modello dei soffitti per S. Spirito in Isola di Tiziano. Si impegnò, così, in scorci arditi, posture dinamiche e sinuose, colori freddi, adeguandosi alla concettosità che connotava il programma iconografico complessivo della decorazione pittorica.
Il 1559 segnò una svolta fondamentale nella carriera e nella vita del L.: venne infatti invitato in qualità di ritrattista alla Dieta indetta ad Augusta dall'imperatore Ferdinando I d'Asburgo.
Il pittore dovette ritenere che tale circostanza rappresentasse non solo un'opportunità professionale prestigiosa e remunerativa, ma anche l'occasione giusta per penetrare nel mercato nordeuropeo, assai meno selettivo di quello veneziano, e dove le sue capacità e le sue prerogative avrebbero avuto modo di rifulgere convenientemente. Fu un calcolo giusto. Ad Augusta il L. ebbe modo di far fruttare le proprie competenze di buon frescante, realizzando le facciate delle due dimore adiacenti del ricchissimo mercante Hieronymus Rehlinger: un'impresa che fu all'origine di un'aspra controversia, che si protrasse per tutto il 1560, con la locale corporazione dei pittori. Quest'ultima si impegnò per impedire al L. di procedere nei lavori, obiettando pesantemente sulla legittimità di una simile commissione a un pittore forestiero. È interessante rilevare che nella richiesta che il L. inoltrò al governatore, al sindaco e al Consiglio della città, al fine di esercitare liberamente la propria professione, egli rimarcasse la sostanziale diversità del suo linguaggio pittorico rispetto a quello degli artisti locali, specificando i caratteri "romani" del suo stile. Attraverso gli atti della contesa legale si evince, tra l'altro, che il L., all'epoca dei fatti, non era sposato, che gestiva una bottega ove erano impiegati due aiuti e un apprendista, e che viveva in una casa ben arredata. Tra proteste, denunce e petizioni, il L. ultimò gli affreschi nel 1561, come risulta da un'iscrizione, trascritta da Sandrart (p. 273). La decorazione pittorica di uno dei due caseggiati andò perduta a causa di interventi edilizi compiuti a cavallo fra Sette o Ottocento; l'altra, fu distrutta durante i bombardamenti della città nel 1944. Dalle fotografie di quest'ultima si può apprezzare la maestria con la quale il L. seppe gestire uno spazio architettonico movimentato e decisamente irregolare, traendo ispirazione in prima istanza dai cimenti analoghi realizzati dal Pordenone. Egli occupò la superficie disponibile con una trama pittorica fittissima e continua, ricca di personaggi mitologici, figurazioni allegoriche e motivi ornamentali vegetali e animali, secondo un intento programmatico inevitabilmente volto a celebrare le virtù della famiglia Rehlinger. I commenti entusiasti di Sandrart (p. 273), relativi al magistero disegnativo, alla brillantezza coloristica e alla qualità della resa naturalistica degli affreschi, trovano conferma nelle riproduzioni fotografiche, dalle quali si ricava l'impressione che essi fossero da annoverare tra gli esiti più felici del Licinio.
L'impegno del L. ad Augusta rappresentò il trampolino di lancio verso la corte di Ferdinando I d'Asburgo a Vienna. Purtroppo nulla si è conservato di quella che fu la sua impresa più cospicua al servizio dell'imperatore, ossia l'ampia e composita decorazione della cappella reale nel castello di Pozsony (oggi Bratislava), che venne distrutto da un incendio nel 1811.
Sia pure in modo non continuativo, il L. fu impegnato a Pozsony dal 1563 sino alla fine del decennio. Gli arredi pittorici furono progettati dallo stesso pittore, il quale li descrisse dettagliatamente e li sottopose all'approvazione dell'imperatore in una lunga e minuziosa missiva dell'ottobre 1563. Egli intendeva affrescare la volta, porre sull'altare un tabernacolo con due sportelli, timpano e predella, integralmente istoriato, e realizzare ancora altri dipinti su tavola e altri affreschi sino a coprire capillarmente la totalità della superficie disponibile.
Nel 1564 morì Ferdinando I e gli succedette nel titolo imperiale il figlio Massimiliano II. Grazie a quest'ultimo, attraverso un atto formale del 31 dic. 1565, il L. ottenne una regolare posizione di artista di corte, fregiandosi del titolo di pittore cesareo e ricoprendo la carica di ritrattista imperiale con un salario mensile di 20 fiorini, generosamente computato a partire dall'ottobre dell'anno precedente.
Nel 1571 si celebrarono le nozze fra l'arciduca Carlo, fratello minore dell'imperatore, e Maria di Baviera. Nella rocca di Graz, in cui gli sposi fissarono la loro residenza, l'arciduchessa Maria fece costruire una cappella di corte commissionando, a quanto sembra nel corso dello stesso 1571, la pala dell'altare al Licinio. L'anno successivo l'artista dipinse e firmò l'opera richiesta, il debole Cristo morto sorretto da tre angeli, conservato nel Diözesanmuseum di Graz. Il 22 apr. 1573, Massimiliano II decise, a nome suo e degli eredi, di concedere al L. un vitalizio di 100 fiorini annui, in considerazione della sua fedeltà e perizia artistica.
Sul finire del settimo e nel corso dell'ottavo decennio, risulta che il pittore fu impegnato in ritratti dell'imperatore e di membri della famiglia imperiale (in particolare Maria di Baviera); ma nessuna di queste opere, alcune delle quali documentate attraverso i pagamenti, può essere oggi identificata con certezza. Non è sicuro quando l'imperatore decidesse di intraprendere i lavori di decorazione dei nuovi ambienti, da lui voluti, nell'ampia tenuta di Kaiserebersdorf, appena a sud di Vienna, ove in precedenza Ferdinando I aveva fatto edificare una sorta di castello suburbano. Dovette essere verso la prima metà dell'ottavo decennio che il L. ricevette l'incarico di lavorarvi, forse accanto a Bartholomeus Spranger e Hans Mont, nella decorazione della cosiddetta torre del Picheto, che venne ultimata dopo la morte improvvisa di Massimiliano II dal suo successore Rodolfo II. Purtroppo anche di questi arredi pittorici non è rimasta traccia. È stato proposto, infine, di riconoscere in un gruppo di sette tavole di analoghe dimensioni, oggi diviso tra la National Gallery di Londra, due collezioni private inglesi e il Kunsthistorisches Museum di Vienna, la gran parte di una serie di otto pannelli raffiguranti Storie romane che era nella Kunstkammer di Rodolfo II a Praga. Depredata nel 1648, durante il sacco della città da parte dell'esercito svedese, i dipinti confluirono nelle collezioni di Cristina di Svezia. Stilisticamente omogeneo a questo, si presenta un ciclo di tre tavole raffiguranti Storie di Ercole, pure di formato accentuatamente orizzontale, conservato all'Ermitage di San Pietroburgo.
Con l'ascesa di Rodolfo II e il susseguente spostamento della corte da Vienna a Praga, le fortune del L. erano condannate a scemare: egli decise, così, di tornare a Venezia, ciò che avvenne probabilmente già sul finire del 1578. Insieme con la sorella Virginia, prese dunque residenza nella casa veneziana ereditata dal padre.
Si può supporre che il L. sperasse di guadagnare a Venezia delle buone commissioni, in occasioni dei monumentali lavori di decorazione pittorica che investirono palazzo ducale dopo il rovinoso incendio del dicembre 1577. Riuscì, in effetti, al principio degli anni Ottanta, a ottenere l'incarico di dipingere dodici tele sagomate per il soffitto della sala dello Scrutinio, raffiguranti altrettante Allegorie di Virtù morali. L'impegno in palazzo ducale dovette protrarsi per buona parte del decennio, e se costituì per il L. il canto del cigno artistico certamente non si tradusse nella sua opera più riuscita.
Nel dicembre del 1587 il L. decise di recarsi sino a Praga, alla corte di Rodolfo II, per richiedere il saldo dei suoi lavori a Pozsony e a Ebersdorf e reclamare i benefici del vitalizio che gli era stato assegnato da Massimiliano II. Grazie alla magnanimità e alla buona disposizione dell'imperatore, la lettera di supplica che consegnò personalmente produsse l'effetto sperato e garantì al pittore una vecchiaia priva di disagi. L'ultimo pagamento fu versato il 12 luglio 1593; ma riguardava un arco di tempo che si chiudeva il 28 apr. 1591: dovette essere quella la data di morte del Licinio.
Fonti e Bibl.: F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, VIII, Venezia 1581, pp. 113-115; J. von Sandrart, Teutsche Academie der Edle Bau-, Bild- und Mahlerey-Künste (1675), München 1925, p. 273; W. Arslan, G. L., in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIII, Leipzig 1929, p. 194; G. Heinz, Studien zur Porträtmalerei an den Hoefen der Oesterreichischen Erblande, in Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien, LIX (1963), pp. 101 s. e passim; L. Vertova, G. L., in Pittori bergamaschi. Il Cinquecento, II, Bergamo 1976, pp. 515-589 (con bibl.); Da Tiziano a El Greco. Per la storia del manierismo a Venezia (catal., Venezia), Milano 1981, pp. 28 s., 144 s., 193 s.; U. Ruggeri, La decorazione pittorica della Libreria Marciana, in Cultura e società nel Rinascimento tra Riforma e manierismi, a cura di V. Branca - C. Ossola, Firenze 1984, pp. 313-333.