GIULIO II papa
Giuliano della Rovere nacque ad Albissola presso Savona il 5 dicembre 1443, da povera famiglia. Francescano, attese a Perugia dal 1468 a studî di diritto; dallo zio paterno Francesco, papa Sisto IV, ebbe, il 16 dicembre 1471, la porpora cardinalizia col titolo di S. Pietro in Vincoli e più tardi anche la commenda dei Santi Apostoli. Tenne, in titolo, in amministrazione o in commenda, benefici numerosissimi: tra i molti, l'abbazia di Grottaferrata (dal 1472), i vescovadi di Bologna (1483-1502) e di Vercelli (1502-03), l'arcivescovado di Avignone (1474-1503), le sedi cardinalizie di Sabina (1479-83) e di Ostia (1483-1503). Già da Sisto IV ebbe incarichi di molto rilievo. Fu legato nella Marca (1473); rimise con singolare abilità di capitano e di uomo politico l'ordine nell'Umbria tumultuante (1474); legato in Avignone e in Francia (1476), riuscì a guadagnarsi il favore del re, di cui fu considerato "grande e fedele amico": e di nuovo fu legato in Francia e nei Paesi Bassi (1480-82), dove tentò invano di rimettere la pace e avere soccorsi per la crociata. Nella guerra di Ferrara spiegò azione pacificatrice. Ma sull'animo del papa prevalevano al rigido e impetuoso G. gli accorti Riario. Sotto Innocenzo VIII, che ai suoi maneggi doveva in molta parte la tiara, divenne "papa et plusquam papa". Avverso agli Aragonesi e agli Orsini, fu l'anima della guerra che seguì alla congiura dei Baroni, e provvide con energia alla difesa di Roma (1485-86). Conchiusa la pace (11 agosto 1486), mentre egli a Genova stava allestendo una flotta, si ritrasse a Ostia sdegnoso. Legato della Marca, non riuscì felicemente nella guerra di Osimo (1487) e parve caduto in disgrazia. Ma appoggiato da Milano e da Venezia, potentissimo sul debole papa, ritornò a Roma quasi in trionfo (8 aprile 1488); e fin d'allora rappresentò una tendenza, che mirava ad arrestare l'infiacchirsi del potere pontificale. Riconciliatosi con gli Aragonesi di Napoli, ebbe l'appoggio loro e ne rappresentò gl'interessi nel conclave del 1492; non riuscendo a impedire l'elezione di Rodrigo Borgia, si piegò a dargli il voto e ne ebbe compensi. Ma di Alessandro VI fu, per dispregio, per invidia, per timore, aspro nemico: fin dall'inizio del pontificato si ritrasse a Ostia, bene fortificata; parve un istante riconciliato con Alessandro e divenuto "quasi secondo papa" (luglio 1493); ma nel settembre si ruppe di nuovo con lui. Stretto l'accordo fra Alessandro e gli Aragonesi, fuggendo da Ostia (23-24 aprile 1494), si recò alla corte di Francia (i° giugno), sollecitò Carlo VIII alla discesa, del resto già decisa, accompagnò il re nella spedizione, discorrendo della convocazione del concilio e della deposizione del papa. Più tardi accolse con onore ad Avignone Cesare Borgia e diede favore alle imprese sue di Romagna, ma a Roma non tornò, se non morto Alessandro. Disse allora di volere essere "bono italiano" e s'adoperò perché l'elezione non cadesse su un francese. La tiara fu data a Pio III; alla morte di questo, G. s'accordò con Cesare Borgia e gli Spagnoli e, non rifuggendo da promesse mendaci e maneggi simoniaci, fu con voto unanime eletto pontefice (i° ottobre 1503).
G. rivolse da questo punto tutta l'energia della sua "natura terribele" alla difesa e alla gloria del pontificato. Ma, com'era nel carattere suo di principe più che di sacerdote e come portavano i tempi, in cui gl'interessi politici e culturali prevalevano sui religiosi, egli vide la salute, più che in un rinnovamento spirituale della Chiesa, nell'affermazione della sua grandezza politica, del suo esterno splendore. Non trascurabile, certo, anche la sua attività religiosa. Pubblicò nel 1510, con la data del 14 gennaio 1505, e fece riconfermare nel Concilio lateranense (16 febbraio 1513) una bolla, che dichiarava nulla l'elezione papale simoniaca; colpì d'anatema chi impedisse il libero esercizio dell'autorità pontificale, o chi appellasse dal papa al concilio. Favorì gli ordini religiosi e le missioni; promosse temperatamente la repressione dell'eresia; pensò alla riforma della Chiesa e la propose quale compito al concilio del Laterano; per il decoro liturgico istituì la capella Julia dei cantori di S. Pietro. Della crociata parlò assai, raccolse e distribuì denaro, allestì navi, disse di volervi partecipare personalmente, quando fosse stabilita nel mondo cristiano la pace.
Ma senza paragone maggiore fu l'attività di G. nel campo politico. Ottimo reggitore, diede a Roma ordine e tranquillità; provvide all'igiene, promosse l'agricoltura; amministrò con saviezza e giustizia, restaurò le finanze, compì una riforma monetaria, onde il giulio ebbe nome da lui. Trovò lo stato papale presso a rovina, perché l'opera tutta personale di Cesare Borgia era crollata con la morte di papa Alessandro. Vide l'Italia minacciata dal predominio straniero, dei Francesi padroni di Lombardia, degli Spagnoli padroni del Regno, e nella servitù dell'Italia vide il pericolo della servitù della Chiesa. Così egli volle fare del restaurato dominio temporale della Chiesa il centro d'Italia, e di sé stesso, o anzi del papato, "il dominus e maistro del mondo". Riuscì a strappare al Borgia (v.) le fortezze di Romagna, rimastegli fedeli (1504); ottenne senza combattere la sottomissione di Gian Paolo Baglioni, signore di Perugia (settembre 1506); costrinse con la scomunica, l'interdetto, la minaccia di un attacco francese Giovanni Bentivoglio a lasciare Bologna, salvò allora la città dal temuto saccheggio e vi fu accolto a gran festa come "liberatore dalla tirannide" (10-11 novembre 1506); rientrò a Roma in trionfo (28 marzo 1507).
Ma dai Veneziani inutilmente aveva chiesto la restituzione di Faenza e di Rimini, occupate nel cadere della fortuna del Borgia, anzi, era stato offeso con la violazione dei privilegi ecclesiastici, con l'appoggio ai Bentivoglio, con i modi orgogliosi dell'oratore a Roma. Dopo molta esitazione e a malincuore, aderì quindi (23 marzo 1509) alla lega che l'imperatore Massimiliano e il re di Francia avevano conchiuso a Cambrai (v.); e colpì (27 aprile) con fierissima bolla di scomunica e d'interdetto Venezia. Quando però la repubblica, vinta a Vailate, gli ebbe restituite le città di Romagna, non solo conchiuse un accordo con lei (15 febbraio 1510), ma, timoroso di un predominio dei Francesi in Italia, che l'avrebbe ridotto loro "capelan", si strinse con i Veneziani stessi e gli Svizzeri per "liberare l'Italia dai barbari". E mosse in persona contro il duca di Ferrara, alleato di Francia e vassallo non obbediente. L'esercito suo occupò Modena, ma a Bologna egli stesso, malato, per poco non cadde in mano dei Francesi. E tuttavia stette nel cuore di un inverno rigidissimo, fra il grandinare delle palle, nell'esercito che assediava la Mirandola, chiave del Ferrarese, ed entrò il 20 gennaio 1511 per una scala a pioli nella breccia. Ma Bologna andò perduta (maggio 1511) per colpa del malgoverno del legato Alidosi e dell'inerzia del duca d'Urbino; il quale uccise poi in Ravenna, quasi sotto gli occhi del papa, il legato.
Intanto il re di Francia, che già aveva spinto il sinodo nazionale di Tours a risollevare l'antica dottrina gallicana (settembre 1510), si era accordato con l'imperatore, forse bizzarramente aspirante alla tiara; per i maneggi loro era indetto, in nome di nove cardinali, un concilio a Pisa (16 maggio 1511). La lotta passava così nel campo più strettamente religioso; e il pontefice, convocando a sua volta (25 luglio 1511) un concilio nel Laterano, poteva giustamente proporgli come fine principale il mantenimento dell'unità della Chiesa. Poi, risorto più vigoroso da una malattia che pareva mortale (agosto 1511), conchiuse (4 ottobre) con Venezia e la Spagna la Lega Santa (v.): vi accedette l'Inghilterra; Massimiliano stesso si disinteressò del concilio. La riconquista francese di Brescia, la disfatta della Lega a Ravenna (11 aprile 1512), l'occupazione della Romagna da parte dei Francesi furono per vero colpi assai rudi per il pontefice, che il concilio scismatico, trasferitosi da Pisa a Milano, dichiarava sospeso (21 aprile). Ma l'indomito G. il 3 maggio apriva il concilio del Laterano, nel quale era riaffermata l'autorità suprema del pontefice. Alla moneta coniata dal re di Francia col motto "Perdam Babylonis nomen" rispondeva con altra, che lo rappresentava a cavallo in atto di cacciare con una frusta i barbari e di calpestare l'arme di Francia. E furono infatti respinti i Francesi dalla Romagna, dalla Lombardia, dall'Italia: il papa ebbe a Roma onori trionfali come "mai Cesare ni altro capitanio romano".
Il congresso della Lega in Mantova (agosto 1512), sebbene desse, com'egli voleva, a Massimiliano Sforza Milano, desiderata dal re di Spagna e dall'imperatore per il futuro Carlo V, e deliberasse il ritorno dei Medici in Firenze, troppo devota alla Francia, parve a G. fatto "a dishonor et danno" suo. Egli ardeva ora dal desiderio di togliere al duca Ferrara, estirpando "la radice de Francesi"; era assillato dal timore della potenza spagnola; prima che ogni altra cosa, bramava vedere riconosciuto dall'imperatore il concilio. Ottenne il riconoscimento e l'obbedienza imperiale (3 dicembre), ma cedendo alle immoderate pretensioni di Massimiliano ai danni di Venezia. E sognava di "veder Italia in man de Italiani"; forse si sarebbe volto, ora, contro la Spagna, quando ne ruppe i disegni la morte (notte dal 20 al 21 febbraio 1513).
Allo stesso fine di glorificazione della Chiesa G. rivolse la sua grande opera di mecenate. Era uomo di non grande cultura, sebbene conoscesse il diritto e le lettere latine e fosse ammiratore della Commedia; di molto ingegno, a ogni modo, e di finissimo gusto. Ancora cardinale, aveva raccolto una biblioteca, che fece poi trasportare nel Vaticano; aveva fatto restaurare le basiliche di S. Pietro in Vincoli e dei Santi Apostoli, innalzare il palazzo vescovile di Avignone, costruire solide e magnifiche fortezze a Grottaferrata e ad Ostia. Pontefice, protesse gli studî e le università, fondò a Fano la prima stamperia araba; ebbe carissimi Sigismondo de' Conti, suo segretario e suo storico, il Sadoleto, il Bembo, e fu in relazione con i letterati più celebri, indulgendo, anche più che non convenisse, alla cultura paganeggiante dell'età. Ma soprattutto fu mirabile animatore e ispiratore d'artisti. A Michelangelo commise, fin dalla primavera del 1505, il suo gigantesco monumento sepolcrale, in cui, già morto il pontefice, quegli ritrarrà nel Mosè la possente anima di G.: appena iniziato il lavoro, lo volle con intuizione singolarissima del suo valore, a decorare il soffitto della Sistina. Michelangelo fuggì a Firenze (17 aprile 1506), poi raggiunse il papa a Bologna e modellò per lui la statua, che nel febbraio 1508 fu collocata sulla porta di S. Petronio e il 30 dicembre 1511 distrutta dai Bolognesi. Alla fine s'indusse a lavorare nella Sistina: ne uscì in quattro anni (autunno 1508-31 ottobre 1512) il poema del mondo antico preannunziante la venuta di Cristo. A Raffaello, G. affidò (autunno 1508) il lavoro delle Stanze del Vaticano; e fu il canto dell'armonia tra la scienza umana e la divina (Stanza della Segnatura), fu la celebrazione della fede di G. nel soccorso celeste, della sua doppia vittoria sui nemici della Chiesa e sui barbari (Stanza di Eliodoro). E dal Bramante G. volle fosse innalzata sulla tomba di Pietro, in luogo dell'antica basilica, veneranda ma presso a rovina, tale casa, che superasse in grandezza e bellezza ogni altra del mondo (Bullar. Vatic., ed. 1750, II, 349): la prima pietra fu posta il 18 aprile 1506; i lavori proseguiti alacremente, non senza il danno della dispersione di antichi tesori di fede e d'arte, non senza il pericolo di poco scrupolose collette e concessioni di indulgenze; alla morte del papa già si levavano sui grandi piloni gli archi, che dovevano sorreggere la cupola. Nel palazzo del Vaticano si cominciavano, pure su disegno del Bramante, i cortili di S. Damaso e del Belvedere; e nel giardino del Belvedere si raccoglievano, tra le altre opere insigni, l'Apollo, il Laocoonte, la Venere, primo nucleo del futuro museo. Accanto alla Roma classica e alla medievale, sorgeva una nuova Roma, con le sue vie rettilinee fiancheggiate da ricchi edifizî, più bella di ogni altra la Giulia, sulla quale doveva sorgere il palazzo bramantesco dei tribunali; S. Maria del Popolo si adornava degli affreschi del Pinturicchio e delle sculture di Andrea Sansovino. Civitavecchia aveva dal Bramante la sua poderosa fortezza; Loreto il portico della basilica, il palazzo apostolico, il rivestimento marmoreo della Santa Casa; chiese e palazzi e fortezze testimoniavano in ogni parte la munificenza di Giulio.
Ebbe papa G. alta statura, portamento dignitoso e sicuro, sguardo profondo e severo. Parve, anche fisicamente, "natura sopra tutte le altre fortissima, ma domava le sofferenze con la ferrea volontà. Fu uomo di forte fede religiosa e di sincera pietà; non immune da macchie morali nella giovinezza, ebbe costume più onesto che non fosse nelle consuetudini del tempo; quanto si disse di lui pontefice è assai probabilmente malignità. Fu d'attività prodigiosa, impaziente, impulsivo, generalmente aperto, tenacissimo.
Poco prima che G. "con tanta devotione et contritione che pareva un santo" incontrasse la morte, il popolo romano aveva celebrato il trionfo di lui come liberatore d'Italia e spegnitore dello scisma: alla sua salma furono resi onori come a san Pietro. Si può dubitare se non fosse vano quel suo titanico sforzo, di cacciare d'Italia uno straniero con l'aiuto dell'altro straniero; e se gli convenga davvero la lode di "salvatore del papato", che per altre vie doveva trovare la salute nell'imminente tempesta: ma il "core et animo grande" di lui costringono a reverenza pensosa.
Bibl.: L. v. Pastor, Storia dei papi, trad. it., III, 2ª ed., Roma 1932; E. Rodocanachi, Hist. de Rome: le pontificat de Jules II, Parigi 1928; G. B. Picotti, La giovinezza di Leone X, Milano 1928.