DE BENEDETTI, Giulio
Nacque ad Asti il 13 ott. 1890 da Simone e da Elisa De Benedetti.
Nel 1911 entrò, con la qualifica di redattore-stenografo, al giornale La Stampa di Torino, allora diretto da Alfredo Frassati, che ne era anche il proprietario. Per quel giornale divenne corrispondente dalla Svizzera e, allo scoppio della prima guerra mondiale, ebbe modo di raccogliere e trasmettere le notizie che dai fronti opposti affluivano nel paese neutrale.
Grazie alle corrispondenze del D. La Stampa, schierata su posizioni giolittiane e neutraliste, fu in quel periodo uno dei giornali più informati sulle vicende del conflitto.
Nel 1920 il D. si trasferì in un altro giornale torinese, la Gazzetta del popolo, proseguendo il suo lavoro di corrispondente dall'estero e di inviato speciale. Il D. fu a Berlino negli anni in cui la capitale tedesca era al centro dell'Europa per le vicende culturali e politiche. Nel 1921 si recò a Mosca, dove intervistò i maggiori esponenti sovietici, da Lenin a Trockij, da Zinov'ev a Bucharin. Nel 1926 tornò in Russia e intervistò Stalin. Sempre in quegli anni fece un'intervista ad Adolf Hitler, allora soltanto capo di un piccolo partito nazionalista.
A proposito dell'incontro del D. con il futuro dittatore tedesco rimase celebre un aneddoto, divulgato dallo stesso De Benedetti. Hitler parlando degli ebrei affermò di essere in grado di avvertirne la presenza "ad un chilometro di distanza", non sapendo che chi gli stava davanti ad ascoltarlo era un ebreo.
Stabilitosi a Torino, il D. proseguì la sua carriera alla Gazzetta del popolo come redattore capo. Il 10 dic. 1927 fu chiamato, con la qualifica di direttore tecnico responsabile, ad affiancare il direttore politico Ermanno Amicucci.
Nel suo nuovo incarico il D. si occupò soprattutto della parte economica e politica e partecipò direttamente ai primi progetti di rinnovamento di quel giornale. L'innovazione principale consistette nell'Introduzione di un certo numero di rubriche dedicate ai piccoli lettori, all'umorismo, alla moda ed allo sport, che riscossero subito molto successo. Già allora il D. mostrò un notevole talento professionale soprattutto nel saper cogliere i gusti dei pubblico.
Malgrado i successi conseguiti, evidenziati da un sensibile aumento delle vendite della Gazzetta del popolo, la posizione del D. diveniva sempre più difficile. Benché iscritto al partito fascista, il D. suscitò, per il modo in cui esercitava la sua professione, malumori tra i capi fascisti. 1 settori più intransigenti del fascismo torinese furono poi contrariati per l'ammissione del D. al sindacato dei giornalisti. Pare sia stato lo stesso Mussolini a ordinare il licenziamento del D. dalla Gazzetta del popolo. Fu a questo punto che il senatore Giovanni Agnelli, nuovo proprietario de La Stampa, si fece avanti per caldeggiare presso il direttore del giornale ed ex segretario del Partito nazionale fascista, Augusto Turati, l'assunzione del De Benedetti. Turati si rivolse a Mussolini, che, nonostante fosse diffidente verso il "noto De Benedetti", diede il proprio consenso.
Alla fine del 1931 il D. tornò quindi a lavorare a La Stampa, dove fu impiegato in collaborazioni su questioni economiche e finanziarie. Ben presto Mussolini ebbe. a lagnarsi con Turati per le critiche che il D. aveva espresso sulla politica defiazionistica imposta dal regime. Il 17 ott. 1938, in applicazione dei decreti razziali nel settore della stampa, tutti i giornalisti ebrei furono cancellati dall'albo professionale e cacciati dal sindacato. Il D., pur non potendo più firmare gli articoli, mantenne, per volere di Agnelli, la sua collaborazione anonima a La Stampa.
Dopo la caduta del fascismo il D. fu, dal 1945 al 1946, prima vicedirettore e quindi direttore del giornale liberale di Torino L'Opinione. Nel 1947 Alfredo Frassati, ritornato proprietario di un quarto della quota de La Stampa, lo volle nuovamente al giornale. Nel gennaio 1948, alla morte di Filippo Burzio, il D. gli succedette alla direzione de La Stampa e di Stampa sera. Da allora e fino alla sua conclusione, la vita professionale del D. fu indissolubilmente legata alle vicende del quotidiano da lui diretto.
Il D. impresse al giornale una caratterizzazione che lo distingueva nel panorama della stampa del periodo. Pur appoggiando la politica dei governi presieduti da Alcide De Gasperi, egli volle dare al giornale un orientamento meno conformistice rispetto a quello di molti altri quotidiani italiani. Poggiando su un antifascismo di fondo il D. aprì le pagine dei quotidiano a diversi commentatori liberali e radicali. Scelta atlantica e anticomunismo costituivano gli altri saldi riferimenti, da cui muovevano le aperture de La Stampa verso un tipo di socialismo democratico, che riconoscesse la funzione sociale del capitalismo dinamico. In tal senso il quotidiano torinese appoggiò la scissione socialdemocratica e guardò sempre con favore alla politica del leader della socialdemocrazia italiana, Giuseppe Saragat.
Una particolare cura il D. dedicò alle pagine di cronaca, sia cittadina sia nazionale, creando una rete di. corrispondenti dai capoluoghi di provincia migliore di quella di altri grandi quotidiani. Lo sforzo del D. fu soprattutto diretto a stabilire un rapporto organico tra Torino, il Piemonte e La Stampa. Strumento essenziale si rivelò in tal senso lo "Specchio dei tempi", più che una tradizionale rubrica di lettere, un originale canale attraverso il quale si manifestavano gli umori della gente, le lamentele e le proteste individuali, i casi pietosi sui quali il giornale interveniva con la beneficenza. Considerato uno strumento formidabile di formazione e di controllo dell'opinione pubblica, lo "Specchio dei tempi" ha suscitato l'attenzione di studiosi del costume e di storia del giornalismo.
Pur riconoscendo al D. un indubbio fiuto giornalistico, premiato dal grande successo che incontrò la rubrica, prevalgono nelle analisi dei contemporanei i rilievi critici. Vengono rilevati i toni campanilistici e deamicisiani, i richiami al "buon senso" e le recriminazioni antimeridionali. Soprattutto sullo "Specchio dei tempi" si svolse, negli anni dell'intensa emigrazione dal Sud, il dialogo e lo scontro tra vecchi torinesi e meridionali (Goffredo Foli, Meridionali e settentrionali attraverso lo "Specchio dei tempi", in Nord e Sud, VIII [1961], 18, pp. 83 s.).
Il D., che leggeva personalmente le centinaia di lettere che pervenivano al giornale, ne curava la pubblicazione attraverso un'accorta regia. Fu lo stesso D. ad affermarlo in un colloquio con Eugenio Scalfari, pubblicato dopo la morte dei D. (G. D.: una verità più degli altri, in La Repubblica, 17 genn. 1978): "Il giornale registrava, lasciava sfogare, ma moderava coi titoli, bilanciava sempre, un'opinione di un tipo, un'opinione del tipo opposto. Tutto il segreto stava nel dosaggio e nei titoli".
La Stampa riuscì ad imporsi nell'ambito locale e a consolidare la posizione di secondo quotidiano italiano, sia come importanza che come diffusione, alle spalle del Corriere della sera. La Stampa divenne il giornale preferito da quei settori laici e progressisti, che non si riconoscevano nella linea del Corriere e della maggior parte della stampa a diffusione locale. Il limite più evidente, riconosciuto anche dai più affezionati lettori, dei quotidiano torinese derivava dall'essere questo di proprietà della Fiat e come tale chiaramente condizionato dalla politica aziendale.
Se da una parte La Stampa esprimeva autorevolmente gli orientamenti politici dei settori più avanzati del capitalismo italiano, dall'altra si prestava a manipolazioni e a censure sulle questioni sindacali ed economiche che, coinvolgevano direttamente gli interessi della Fiat. Nelle pagine del quotidiano torinese non trovavano spazio o venivano comunque minimizzate le notizie relative agli infortuni sul lavoro, alle rappresaglie antisindacali, che in quegli anni si ebbero alla Fiat.
D'altro canto La Stampa si prestò ad essere uno strumento per la diffusione di quella che venne definita l'"ideologia dell'automobile" e che fece della motorizzazione il perno dello sviluppo economico italiano, condizionando scelte di governo (sviluppo della rete autostradale) e costume collettivo. Proprio come espressione degli orientamenti di una parte così rilevante del ceto imprenditoriale, La Stampa svolse, sul finire degli anni Cinquanta, un ruolo importante nel determinare un clima favorevole al superamento della formula di governo centrista e alla apertura verso il Partito socialista italiano.
Mentre gran parte della classe economica dominante e della stampa restavano su posizioni di conservazione degli equilibri politici e sociali esistenti, La Stampa sosteneva l'esigenza di uno sviluppo riformatore. Una tale prospettiva avrebbe dovuto basarsi sull'utilizzazione delle crescenti risorse economiche da un lato e sull'acquisizione del consenso dalle masse operaie dall'altro.
Il favore de La Stampa verso l'ipotesi di centrosinistra si manifestò all'inizio con molta cautela. Nel gennaio 1959, dopo il XXXIII congresso del Parcito socialista italiano conclusosi con la vittoria della tendenza "autonomista", un articolo di fondo non firmato esprimeva l'opinione che nulla era mutato nella politica italiana. Il D. rifiutò di pubblicare alcuni articoli del corrispondente romano, Enzo Forcella, che prevedeva, al contrario, una crisi ministeriale a breve scadenza con sbocchi politici nuovi. L'orientamento de La Stampa si precisò meglio in occasione dei drammatici avvenimenti del luglio 1960, allorché il giornale torinese fu l'unico tra i maggiori quotidiani a schierarsi apertamente contro il governo Tambroni. L'editorialista Luigi Salvatorelli venne addirittura denunciato per un suo commento ai fatti di Genova.
La Stampa guardò quindi con favore alla costituzione del governo delle "convergenze parallele", presieduto da Amintore Fanfani, che godeva dell'astensione socialista. Mentre la Fiat agiva per vincere le resistenze in seno alla Confindustria nei confronti dell'allargamento della maggioranza ai socialisti, dalle colonne de La Stampa venivano rivolti inviti sempre più espliciti alla Democrazia cristiana perché compisse scelte chiare per agevolare l'autonomismo del P.S.I. e l'evoluzione di questo partito in senso occidentale.
Nel febbraio 1962, di fronte al nuovo governo Fanfani, i commenti de La Stampa erano rivolti, da un lato, a tranquillizzare gli ambienti economici, che paventavano pericoli per l'iniziativa privata e, dall'altro, a sollecitare dai tSocialisti una maggiore "concretezza" nel programma, moderando le loro richieste di una programmazione, ritenuta troppo rigida, e di un maggior intervento dello Stato in economia. Sul piano degli equilibri politici La Stampa, sostenitrice dell'intesa tra socialisti e socialdemocratici, auspicava una caratterizzazione in senso nettamente anticomunista della nuova maggioranza e quindi il definitivo distacco del P.S.I. dal Partito comunista italiano.
Questa posizione emerse in modo chiaro dall'interpretazione che La Stampa diede dei fatti accaduti in piazza Statuto a Torino, nel luglio del 1962. I disordini, ai quali non furono peraltro estranei elementi provocatori; scaturirono dalla protesta contro la U.I.L., il sindacato vicino all'area di governo, che aveva raggiunto un acoordo separato con la Fiat. Dietro gli episodi di violenza c'era il manifestarsi di contraddizioni di tipo nuovo, connesse con il mancato inserimento dei nuovi immigrati meridionali, per molti versi anticipatrici dell'ondata contestativa del 1968-69. La Stampa colse invece nei fatti di piazza Statuto la responsabilità del Partito comunista, accusato di fomentare la protesta operaia allo scopo di screditare il centrosinistra e farlo cadere, radicalizzare la lotta politica e favorire il riavvicimento del P.S.I.
Fu senza dubbio quello della preparazione e della gestione del primo centrosinistra il periodo più significativo ed importante della direzione del De Benedetti. E proprio mentre quella formula politica mostrava segni di logoramento e di crisi si concluse, il 4 dic. 1968, dopo oltre venti anni di direzione di La Stampa e sessanta di giornalismo, la carriera dei De Benedetti. Lasciata la direzione del quotidiano torinese, il D. si ritirò nella sua vita di Rivoli. Morì a Torino il 15 genn. 1978.
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