CIBO MALASPINA, Giulio
Nacque a Roma nel 1525 da Lorenzo Cibo, nipote di Innocenzo VIII e da parte di madre di papa Leone X, e da Ricciarda Malaspina, che era vedova di Scipione Fieschi, successa al padre Alberico nel marchesato di Massa e Carrara.
All'epoca della sua nascita i disaccordi e le rivalità, che divisero il padre e la madre, sposati da cinque anni, avevano già avuto inizio, poiché nel gennaio dello stesso anno la Malaspina aveva iniziato le pratiche per ottenere dall'imperatore la conferma dei suoi diritti esclusivi sul marchesato. Prima che Roma subisse il sacco. il C. fu posto dalla madre in salvo a Massa, dove essa si rifugiò, con lui e la sorella maggiore, Eleonora. Tornata a Roma non appena la situazione nella città ridivenne normale, la famiglia - intendendo solo la madre ed i figli, poiché il padre si era ritirato in Agnano (Pisa) - vi rimase fino agli inizi del 1533, quando la marchesa stabilì la sua residenza a Firenze, dove il fratello di Lorenzo, il cardinale Innocenzo, la cui intesa con la cognata dette adito ad illazioni e sospetti, aveva una parte preponderante nel governo dello Stato del duca Alessandro de' Medici. Quando nel 1537 Cosimo I divenne duca di Firenze e il pardinale Cibo, non più molto gradito alla corte medicea, si ritirò a Carrara, Ricciarda Malaspina, con i suoi tre figli (ché la famiglia si era accresciuta di un altro rampollo, Alberico), si trasferì di nuovo a Roma. Da qui già l'anno dopo essa imbastì pratiche con il cognato con l'intento di fare accogliere fra i paggi del figlio dell'imperatore il tredicenne Cibo.
Le trattative, che sembravano ben avviate, non si conclusero e successivamente il ragazzo fu inviato a Carrara presso lo zio, il quale nel 1541 si adoperò per collocarlo come paggio presso Cosimo de' Medici. Questo progetto non riscosse pero l'approvazione di Ricciarda ed essa impose al figlio di tornare a Roma. Occupandosi soprattutto di armi, di tornei e di cavalli e cercando di ottenere dalla madre e dallo zio sovvenzioni, il C. trascorse a Roma altri due anni circa. Nel 1543, con il cognato, Gian Luigi Fieschi, da poco marito della sorella Eleonora, il C. si pose in viaggio per Genova, donde si imbarcò al seguito dei principe Andrea Doria alla volta di Barcellona, dove si imbarcò Carlo V per recarsi a Genova. Qui il C. entrò a far parte della corte dell'imperatore.
Era allora già stata dichiarata la quarta guerra franco-imperiale ed il giovane C. seguì l'esercito di Carlo V prima nel Milanese e poi nelle Fiandre (era ad Anversa nel settembre 1543 ed a Mons nell'ottobre), quindi nel Palatinato nella primavera dell'anno dopo. Nel frattempo egli era divenuto gentiluomo di bocca ed aveva avuto da Ferrante Gonzaga, da lui accompagnato in Inghilterra in una sua missione presso gli alleati, la proposta di comandare duecento cavalli. Il C., le cui spese erano pagate totalmente dalla madre, la quale aveva tentato invano a più riprese di ottenere un contributo da Lorenzo, non poté cogliere la lusinghiera occasione, perché un aggravio di spese non sarebbe stato tollerato dalla marchesa. Divenuto ciambellano imperiale e continuando a dibattersi in umilianti difficoltà finanziarie, il C., dopo la pace di Crépy (settembre 1544), lasciò il servizio presso l'imperatore e tornò in Italia. Passò prima a Carrara dallo zio cardinale, poi ad Agnano dal padre ed infine si diresse a Roma dalla madre. Pare che allora il C. facesse per la prima volta la richiesta a Ricciarda dì entrare in possesso, come primogenito, del marchesato. Questo era stato il pomo della discordia fra la marchesa e il marito, e la battaglia, a colpi di diplomi imperiali, che aveva visto prevalere or l'una (16 luglio 1529: concessione di Massa a Ricciarda Malaspina), or l'altro (21 marzo 1530: concessione a Lorenzo di condominio del marchesato), si era conclusa con la vittoria della Malaspina, che era rimasta nel possesso assoluto dello Stato ed aveva ottenuto (7 apr. 1533) di poter disporre la successione in favore di uno qualsiasi dei suoi figli, contrariamente alla disposizione testamentaria del padre Alberico, che specificava come primo nella successione il primogenito di Ricciarda; questi doveva succedergli, come sembra inoppugnabile, al compimento della maggiore età. Le richieste del C. furono recisamente respinte. Ricciarda non avevainfatti nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire quel potere che le era pervenuto; inoltre questa passione, comune a molti, per sfortuna del C., si accompagnava in leì ad una vera e propria acredine nei confronti dei suoi primi due figli di secondo letto, che identificava - specie Giulio - con l'odiato marito.
Circa nel febbraio del 1545 il C. si portò ad Agnano, dove il padre che aveva invano tentato nel 1538, con il favore degli esuli e dei banditi, di far sollevare Massa contro il potere marchionale, detenuto da Ricciarda e rappresentato nella città soprattutto dal camerlengo e castellano Pietro Gassano, aspettava una qualsiasi occasione per sottrarre il feudo alla moglie. Si iniziò per allora una battaglia giuridica, perché Ricciarda da una parte voleva provare che il testamento di Alberico dava a lei il potere vita natural durante, oppure che esso era falso e si doveva reputare valido ed operante soltanto il diploma di Carlo V che la infeudava, mentre il C., insieme con il padre, sosteneva che il testamento del nonno voleva che il primogenito di Ricciarda entrasse in possesso dell'eredità alla maggiore età e si impegnasse a versare da allora una pensione di 14.000 ducati alla madre. Mentre la marchesa conquistava alla sua causa il duca di Ferrara, suo parente da parte di madre, ed influenti personalità della Curia romana, sulla quale, soggiornando a Roma, riusciva ad esercitare una certa influenza, il C., anche per i buoni uffici del cardinale, riuscì ad interessare ai suoi casi Cosimo de' Medici, cui doveva sorridere l'insediamento in Toscana di un signore che sarebbe stato legato a lui da grande riconoscenza.
Una malattia del cardinale Cibo, che, iniziata nella primavera del 1545, si protrasse fino all'estate, mettendo in pericolo la sua vita, dette occasione alla madre ed al figlio di incontrarsi a Carrara, al capezzale dell'infermo. L'incontro, invece di favorire la distensione, determinò il C. a compiere un tentativo per conseguire con la forza quello che egli non aveva potuto ottenere per diritto. Ottenuti da Galeotto Malaspina, marchese di Olivola, venti archibugieri, radunati intorno a sé i malcontenti ed i ribelli, attratto dalla sua parte, pare ingannandolo, il castellano di Carrara, Gerolamo Ghirlanda, la notte del 28 agosto, egli entrò con i suoi seguaci nel castello, passando dal giardino. L'allurine dato tempestivamente da un medico accortosi per caso dell'irruzione, l'indecisione che mostrò il giovane C., quando, ricevuto dallo zio infermo, fu da questo esortato a non commettere violenze contro la madre, la determinazione dimostrata da quest'ultima, che si asserragliò nel maschio del castello e da lì riuscì a dare l'allarme, trasformarono in breve il C. ed i suoi amici da assedianti del maschio in assediati nel castello. Egli allora si ritirò, ottenendo dalla mancata riuscita del colpo di mano un ulteriore deterioramento delle sue relazioni con la madre, la quale, sempre più determinata a rimanere padrona del feudo, cominciò le rappresaglie contro coloro che avevano aiutato il figlio. Si arrivò tuttavia ad una riconciliazione formale, in virtù della quale fu assegnata al C. una provvigione, che dovette sembrare - e probabilmente era - irrisoria al giovane, che si dichiarò pronto ad andare al servizio dei Medici, sempre molto interessato alla questione di Massa e intenzionato a propiziare un passaggio del marchesato nella sua orbita, sottraendolo a quella del duca di Ferrara.
All'inizio del 1546 Ricciarda Malaspina era tornata a Roma, seguita poco dopo dal C., che però resistette pochi mesi nell'Urbe e nell'aprile era già ad Agnano. Mentre Lorenzo Cibo provvedeva a consultare sulla controversa questione esperti giureconsulti, anche Ricciarda non tralasciava di perseguire i suoi intenti con azioni legali, che culminarono il 20 ag. 1546 con l'affissione alle porte della chiesa d'Agnano di due citazioni contro il C., con le quali gli era ingiunto di comparire entro venti giorni in Curia romana, davanti a Filippo Archinti, vescovo di Sansepolcro.
Oltre al Medici, che pure intrattenne una fitta corrispondenza con la marchesa per tutto l'anno, ed a Ferrante Gonzaga, con il quale si era incontrato probabilmente nel maggio a Cafaggiolo, il C. aveva cercato di accattivarsi anche Andrea Doria, i cui motivi di interesse per il giovane erano simili a quelli dei Medici. Al C., recatosi a Genova nella primavera del 1546, il Doria, che era anche legato da parentela con i Cibo, propose il matrimonio con una sua nipote, Peretta, benché fosse già corsa una simpatia fra il C. ed una sorella del cognato, Camilla Fieschi.
Forte di questi appoggi e fiducioso nell'aiuto dei Massesi, che, fino ad allora abbandonati nelle mani di esosi amministratori, speravano in un governo meno duro, il C. si accinse a conquistarsi con le armi lo Stato, che era convinto gli competesse di diritto. Ottenuti dal duca di Firenze aiuti militari, consistenti in circa milleottocento fanti e quattro pezzi di artiglieria, il 20 settembre il C., accompagnato dal padre, partì da Pietrasanta diretto verso Massa. L'occupazione della città non presentò difficoltà ed avvenne in breve volgere di tempo; mentre il castellano si asserragliava nel castello, anche Carrara si arrendeva ai soldati fiorentini, che l'occupavano in nome del Cibo. Ricevuti da Andrea Doria altri otto pezzi di artiglieria e dal Medici ulteriori aiuti in denaro, il C. ottenne la capitolazione della rocca il 7 ottobre. La rapidità con cui si concluse tutta l'operazione soddisfece gli alleati, cui premeva che non sorgesserò complicazioni e fece svanire il pericolo di un intervento armato del duca di Ferrara.
Esclusi da ogni carica i vecchi ufficiali e nominato suo amministratore Andrea Venturini, il C., che aveva assunto il titolo di marchese, confermò ai Massesi i capitoli loro concessi da Antonio Alberico Malaspina nel 1442. Già nel mese di ottobre però la madre compì una mossa abilissima per tornare in possesso del marchesato, poiché, rimettendosi al giudizio di don Ferrante Gonzaga, governatore di Milano, fece istanza perché lo Stato fino a che non fosse pronunciata la sentenza rimanesse non nelle mani di uno dei contendenti, ma in quelle dello stesso giudice. Il concorso, di consensi che aveva permesso al C. di insediarsi a Massa si andava inoltre vanificando. Il maggior fautore del C., il Medici, era deluso dall'intrinsichezza venutasi a determinare fra il C. ed il Doria, né intendeva sostenere il C. contro Carlo V; il duca di Ferrara gli era sempre stato nemico ed il papa, in tutto antimediceo, gli era parimenti contrario; don Ferrante, poi, intendeva porre al di sopra di tutti la volontà dell'imperatore, che avrebbe avuto assoluto potere decisionale.
Il C. sosteneva di volersi recare di persona presso Carlo V ad illustrare le sue ragioni ed in effetti era in procinto di partire ai primi di novembre, quando sopravvenne a massa l'uccisione deIl'ex castellano Pietro Gassano, trucidato insieme con due figli e con due nipoti. L'avvenimento, oltre ad impedirgli di partire, non giovò alla sua causa; egli infattì fu reputato l'ispiratore o per lo meno il protettore degli assassini. Nello stesso novembre Carlo V sentenziò che lo Stato di Massa doveva essere depositato nelle mani del Gonzaga, mentre si doveva ricercare un accordo fra la madre ed il figlio. Quest'ultimo cedeva malvolentieri all'imposizione, non avendo né un luogo ove risiedere, né una rendita per vivere; pure, non potendo far altro che obbedire, richiese ed ottenne dall'imperatore di poter deporre lo Stato nelle mani dello zio cardinale, invece che in quelle di don Ferrante.
Presa questa decisione, nel dicembre il C. si recò a Genova dove sposò Peretta Doria, trattenendosi nella città quasi un mese, al termine del quale egli condusse la moglie presso la sorella di lei, a Fosdinovo. Mentre le insistenie del cardinale Cibo e del Medici perché il C. si decidesse a fare la promessa consegna si facevano più pressanti, scoppiò a Genova (4 genn. 1547) la congiura capeggiata dal Fieschi, cognato del Cibo. Tutto teso a dimostrare la sua fedeltà ad Andrea Doria, il C., radunati tutti gli uomini validi, si avviò in aiuto del principe verso Genova. A Sarzana fu raggiunto dall'ultro cognato, marchese di Fosdinovo, ed il 6 arrivò a Sestri Levante, dove ebbe notizia del fallimento della congiura. Giunto a Genova dopo aver licenziato la maggior parte delle truppe, il C. fu ricevuto con onore e con gratitudine e l'oratore imperiale, Gómez Suárez de Figueroa, gli chiese di portarsi contro Pontremoli, che, terra dei Fieschi, doveva essere confiscata in favore della Camera imperiale. Tornato l'11 gennaio a Massa, il C. vi allestì uomini ed artiglieria e con queste forze, passato a salutare a Pisa Cosimo de' Medici e lo zio, in visita presso il duca, si avviò ad Aulla, dove però fu raggiunto dalla notizia della resa di Pontremoli.
Questa sterile impresa, oltre al matrimonio con la Doria, disapprovato anche dal cardinale e dalla marchesa, gli allontanava ancor più le vacillanti simpatie del Medici, che vedeva con apprensione estendersi l'influenza genovese-imperiale in Lunigiana. Mentre anche Andrea Doria, pressato da Carlo V gli consigliava di obbedire alle istanze dei ministri imperiali, il C. badava a fortificare il castello di Massa ed a circondarsi di fedelissimi.
A metà marzo il C. fu convocato a Pisa da Cosimo e dal cardinale, che paventavano sempre più un diretto intervento imperiale contro Massa. Furono riprese le trattative per le modalità da seguire per la consegna dello Stato ed esse parevano giunte a buon punto, quando il C., il 17 marzo, nel vano tentativo di evitare questa dolorosa rinuncia, lascio improvvisamente la città e si rifugiò ad Agnano presso il padre. Il Medici ruppe allora gli indugi e, fattolo artestare ad Agnano, lo fece rinchiudere nella fortezza di Pisa. Le resistenze del C. caddero il 20, quando depositò formalmente il marchesato nelle mani del padre, che lo ricevette a nome del fratello; una settimana dopo questi poté prenderne possesso. Liberato immediatamente, il C. raggiunse la moglie a Fosdinovo, dove si trattenne per tutto aprile. Ai primi di maggio si portò a Roma, si presentò alla madre, si dichiarò pentito e alla presenza di un notaio le restituì i beni, concludendo con lei un accordo, in base al quale gli sarebbe stata concessa l'amministrazione e il governo, a nome della madre, dello Stato, dietro versamento alla madre stessa di un dotalizio di 40.000 ducati. Il patto, che poteva essere vantaggioso per entrambi, fu firniato il 30 maggio e mentre Ricciarda il 27 giugno prese possesso del marchesato, il C. si dette a raccogliere la somma necessaria a dar corso all'accordo. Intanto i suoi partigiani, che avevano dovuto abbandonare Masa, riparati in Francia, con sua consapevolezza o con sua acquiescenza, si misero in contatto con gli esuli fiorentini e con il sovrano francese, scatenando contro il C. la diffidenza sia degli antichi suoi protettori, il Doria ed il Medici, sia quella dell'imperatore, il quale, tramite Ferrante Gonzaga, condesse alla marchesa quaranta spagnoli per presidiare le fortezze.
Raccolta a Roma la metà della somina occorrentegli, il C. si pose in viaggio per Genova. Si fermò dapprima a Carrara, poi a. Fosdinovo, dove accadde un episodio che alimentò ulteriori diffidenze nei suoi riguardi. Infatti là il C. incontrò Giovanni Battista Venturini, detto il Moretto, uno dei suoi fedeli, reduce dalla Francia, che sfuggì all'arresto, da compiersi per ordine imperiale.
Tutti attribuirono al C. la responsabilità di averlo messo in guardia. Ormai nessuna potenza italiana si sarebbe compromessa favorendolo, e quando il C. arrivò a Genova, a metà agosto, il Doria si riflutò di versargli la dote della moglie, che ammontando a 20.000 ducati gli avrebbe permesso di completare la somma da versare alla madre. Il principe si disse impossibilitato a fornirgli il denaro, per le spese sostenute per la repressione della recente congiura e sostenne di non avere con lui che un lieve debito, quando si fosse conteggiato quanto già era stato speso al momento della conquista di Massa. Deluso, il C. parti per Milano, un po' per giustificarsi dal sospetto di aver fatto fuggire il Moretto, un po' tratto da chi sa quale speranza di aiuto.
Era arrivato da poco nella città, allorché sopraggiunse la notizia dell'uccisione di Pier Luigi Famese (10 sett. 1547) ed il C. seguì Ferrante Gonzaga, che entro due giorni si portò a Piacenza. In questa città il C. rimase un mese e quando il Gonzaga si avviò di nuovo a Milano, egli si diresse a Fosdinovo, passando per Parma e per Pontremoli. Decise quasi subito di tornare a Roma; a Firenze chiese a Cosimo de' Medici che si interponesse affinché il padre o lo zio gli assicurassero una pensione. L'opera del duca fu però vana, perché ambedue i parenti si rifiutarono di aderire alla richiesta. In un secondo momento però il cardinale si dichiarò disposto, dietro sollecitazione di Ricciarda, a contribuire ad un assegno per il C., poiché questi aveva stretto con l'ambasciatore francese e con i Famese, con i quali si sentiva ormai accomunato nell'odio per i Doria, un'amicizia che preoccupava i parenti. In effetti anche i Francesi furono autorizzati a credere che il C. era disposto ad appoggiarsi in tutto alla Francia ed egli cominciò a trattare con loro, tentando però di sviare i sospetti dell'ambasciatore cesareo con ingenue giustificazioni. Da parte francese si contava su di lui., perché si ponesse a capo di una congiura che avrebbe dovuto consegnare Genova nelle mani di Enrico II. I congiurati, dopo aver introdotto nella città i fuorusciti (che allora attendevano - a Venezia), capeggiati da Ottobuono Fieschi, ed ucciso il principe Doria, avrebbero dovuto provocare la rivolta popolare e il piano sarebbe stato condotto a perfezione con l'arrivo delle truppe francesi dal Piemonte.
A metà dicembre il C., cui era stato promesso il grado di colonnello, partì per Venezia, ove si abboccò con il Fieschi. Di segreto il piano non aveva più niente, perché per varie vie ne erano stati infbrmati non solo l'imperatore e don Ferrante, ma tutti o quasi i potentati d'Italia.
Il C. arrivò a Venezia il 19 dicembre e qui attese a perfezionare i piani con gli amici: egli doveva raccogliere uomini ed introdurli alla spicciolata a Genova, indi di sua mano avrebbe dovuto uccidere il Doria; a questo punto i suoi seguaci avrebbero occupato i punti nevralgici della città.
Con il capitano Alessandro Tommasi e con Gaspare Venturini (autore di una cronaca edita da G. Sforza) il 16 gennaio 1548, avendo ricevuto 2.000 scudi ed il grado promessogli, il C. partì da Venezia. Si fermò a Chioggia, poi ad Adria; a Francolino (Ferrara) si incontrò con il cardinale di Guisa, diretto in Francia; a Ferrara alloggiò presso la zia, Taddea Malaspina, che lo avvertì come la congiura fosse cosa notissima; fermatosi una notte a Parma, passò quindi a Calestano e poi a Berceto, dove ancora una volta si cercò di dissuaderlo dal proseguire l'impresa.
Giunto a, Pontremoli il 22 genn, chiese cavalli freschi per proseguire verso Fosdinovo, ma anziché ottenerli fu arrestato dal governatore Pietro Duretta, che ne aveva avuto ordine da don Ferrante. Invano il C. tentò di indurre alla rivolta gli abitanti con l'invocazione "Gatto! Gatto!", che era l'insegna dei Fieschi. Ferito, fu condotto nel castello insieme con i suoi compagni e gli furono sequestrati i 2.000 scudi e carte molto compromettenti, che davano piena prova della congiura. Ai primi di febbraio fu rilevato dal conte Carlo di Belgioioso, che, per ordine di Ferrante Gonzaga, lo condusse a Milano. Mentre a Genova, a Firenze, a Carrara, a Roma i parenti e gli antichi amici trepidavano per i loro interessi. il C., forse senza rendersi conto del pericolo che correva, dapprima negò ogni sua partecipazione ed ogni sua consapevolezza della congiura, poi si dichiarò innocente pur essendo al corrente delle trame dei Francesi, che intendeva tradire; infine per evitare, senza riuscirvi, di essere posto alla tortura, rivelò dettagliatamente quanto sapeva, confessando le sue responsabilità.
Ormai la sua persona fisica non aveva in sé più alcuna importanza. Carlo V doveva colpire attraverso di lui la Francia e i Farnese e riaffermare la sua autorità in Italia. Al di sopra di lui il cardinale Cibo e Cosimo de' Medici volevano dimostrare la loro estraneità alle mene antimperiali e la loro fedeltà limpida a Carlo V. Si venivano ad intrecciare nel processo gli interessi imperiali per Piacenza - ed anche per Massa -, quelli medicei per Piombino, quelli francesi e dei Famese genericamente antimperiali.
Mentre l'istruzione del processo ahdava allargandosi al di là della preparazione della congiura di Genova, il C., che cominciava a comprendere quanto fosse grave la sua situazione, inviò lettere a quanti gli, erano stati amici ed anche a coloro che non lo erano stati. La madre, su cui gravava l'accusa di averlo denunciato a Carlo V, non fece alcun tentativo per salvarlo, preoccupata soltanto di rientrare in possesso dello Stato, confiscato dall'imperatore; lo zio era soprattutto intento a scindere le sue responsabilità da quelle del nipote; a nulla giovarono le deboli richieste di clemenza del Medici e l'intervento di Ercole d'Este dette motivo di sospetto nei suoi riguardi.
Il C. fu decapitato a Milano il 19 maggio 1548 e fu sepolto in S. Maria degli Angeli. In una ormai pacata e serena lettera scritta allo zio cardinale poco prima di morire aveva chiesto che fosse elargita un'elemosina ai frati di S. Angelo. Attendendo la morte, il C. scrisse anche un sonetto (edito da L. Staffetti, 1892, p. 92), garbatamente petrarchesco, che ci e stato conservato, contrariamente ad altre composizioni poetiche, che egli, nella lettera allo zio già citata, ordinò di bruciare perché "imperfette".
Venticinque anni dopo, per volere del fratello, o meglio del fratellastro Alberico, che era figlio con ogni probabilità dei cardinale Innocenzo, il corpo dei C. fu traslato nella cripta della cattedrale di Massa, ove fu seppellito accanto ai corpi del padre e della madre.
Fonti e Bibl.: G. Viani, Mem. della famiglia Cybo..., Pisa 1808, pp. 25-31, 96-108; L. Capelloni, Congiura di G. C., a cura di L. Scarabelli, in C. Porzio, Opere, Torino 1852, pp. 263-276; G. Sforza, Cronache di Massa di Lunigiana, Lucca 1882, pp. 6-16, 75-84, 99-148, 231-234, 290-292, 295 ss.; L. Staffetti, Illibro di ricordi della fam. Cybo, in Atti della Soc. ligure di storta patria, XXXVIII(1908), ad Indicem; Nuntiaturberichte aus Deutschland, s. 1, X, Berlin 1907, pp. 257 s., 279, 297, 633, 656, 663; G. Musettini, Ricciarda Malaspina e G. C., in Atti e mem. delle Deputaz. di storia patria per le prov, mod. e parmensi, II(1864), pp. 147-186; G. De Leva, Storia... di Carlo V, IV, Padova 1881, pp. 380-383, 409-411; L. Staffetti, G. Cybo Malaspina marchese di Massa, in Atti e mem. della Deputaz. di storia patria per le prov. mod., s. 4, I(1892), pp. 123-268; II (1892), pp. 1-184 (nuova ediz., Massa 1974).