BRANCACCIO, Giulio Cesare
Nacque a Napoli intorno al 1515 da una cospicua famiglia cittadina appartenente alla nobiltà del sedile di Nido. La sua educazione fu quella consueta alla nobiltà napoletana del tempo, divisa tra l'uso delle armi e gli studi umanistici e letterari. Di questi ultimi interessi rimane una traccia in un'operetta data alle stampe a Bologna nel 1548, un Epithalamion per le nozze della sorella Giulia; e soprattutto significativa è la sua partecipazione all'Accademia dei Sireni. Ma il B. si distingueva anche per una sua particolare inclinazione alla musica, vantando una straordinaria voce di basso alla quale Giambattista Guarini dedicò poi entusiastici versi (Rime, Amstelodami 1663, p. 131).
Tuttavia il B. rivolse le sue ambizioni soprattutto alle imprese guerresche, come volevano i tempi che dischiudevano alla gioventù napoletana la gloria cavalleresca del servizio imperiale. Il primo periodo della sua attività militare si svolse sotto le insegne di Alfonso d'Ávalos: fu con lui all'impresa di Tunisi del 1535 e si distinse particolarmente nella battaglia del 16 luglio contro il Barbarossa; passò poi in Lombardia, prendendo parte, dal luglio del 1536, ai preparativi per la spedizione di Provenza e poi a questa sfortunata campagna. Dopo la ritirata dell'esercito imperiale in Piemonte, sino alla tregua del 16 nov. 1537 e poi alla pace di Nizza del 18 giugno 1538, partecipò alla campagna con la quale il marchese del Vasto recuperò quasi tutti i territori piemontesi occupati dai Francesi, comportandosi valorosamente in specie nell'ultima fase che vide la conquista da parte imperiale di Chieri, Cherasco e Alba.
Nel 1541 il B. prese parte alla spedizione di Algeri contro i pirati, capeggiata dallo stesso imperatore Carlo V e da Andrea Doria. Dopo il fallimento di questa impresa il B. partecipò alla campagna di Gheldria contro il maresciallo Martin van Rosseni sostenuto dai Francesi e alla campagna della Marna conclusa con la pace di Crépy.
Tornato a Napoli, il B. riprese a brillare nella elegante società cittadina: lo vediamo così mettere a profitto le sue doti canore negli intermezzi della commedia senese Gli innamorati, che egli, con un gruppo di amici, rappresentò nel 1545 di fronte all'aristocrazia napoletana. Questo medesimo gruppo diede vita l'anno successivo all'Accademia dei Sireni o Sereni, la quale non si scostava nel programma ufficiale dalle molte iniziative simili del tempo, ma sin dal nascere dovette destare qualche preoccupazione nel sospettosissimo viceré don Pedro di Toledo, se un articolo dello statuto disponeva che "per evitar il mormorar d'alcuno, non sia nesuno che disputi della Scriptura sacra" (B. Croce, L'accademia dei Sereni, p. 305).Un'atmosfera di diffidenza circondava infatti a Napoli ogni iniziativa culturale: dovunque si temeva che potesse germogliare il seme dell'eresia religiosa o della ribellione politica, specialmente se vi avesse una parte preminente l'aristocrazia del Regno, tra la quale non erano ancora spente le velleità autonomistiche che il governo spagnolo da un quarantennio si sforzava di soffocare. Malgrado le precauzioni, l'Accademia dei Sereni fu sciolta dal viceré nel 1547, contemporaneamente alle altre napoletane degli Incogniti e degli Ardenti. Purtroppo si sa così poco sulla reale attività di queste accademie che non è possibile stabilire sino a qual punto la misura del Toledo fosse giustificata. Per quello che riguarda l'Accademia dei Sereni, tuttavia, non è certamente casuale che a essa prendessero parte alcuni protagonisti della resistenza contro il tentativo del viceré di introdurre in Napoli, in quello stesso anno 1547, l'Inquisizione di Spagna.
Queste vicende non impedirono in ogni modo al B. di riprendere le armi per combattere in Germania contro la lega smalcaldica, tra il settembre del 1546 e l'aprile dell'anno successivo. Tornò poi nuovamente a Napoli, dove pare che rimanesse ininterrottamente sino al 1550, allorché prese parte alla spedizione africana di don Garcia di Toledo. L'anno seguente era ancora in Germania e partecipava poi al lungo e infruttuoso assedio di Metz nell'esercito del duca d'Alba e alla campagna di Piccardia con il duca di Savoia. Fu questa l'ultima campagna del B. al servizio di Carlo V: nel 1554, come egli stesso racconta in una nota autobiografica (B. Croce, Un capitano italiano, p. 61), abbandonò il servizio nell'esercito imperiale, recandosi per certi suoi imprecisati "importantissimi negotii", alla corte d'Inghilterra dove allora si trovava Filippo d'Asburgo per trattare il matrimonio con Maria Tudor; e di qui, poco dopo, calunniato da "alcun ministro suo poco amico", con un gesto di clamorosa protesta passò in Francia.
Un'autorevole testimonianza contemporanea, quella del cardinal de Granvelle (Archivo General de Simancas, Estado, leg. 1063, f. 24), sconosciuta ai biografi, dà dell'episodio una versione più credibile di quella chiaramente reticente fornita dal Brancaccio. In una nota informativa a Filippo II del 26 giugno 1573 il cardinale, allora viceré di Napoli, faceva risalire questo comportamento del B. a un truce episodio avvenuto nel 1553 nel campo imperiale allora ad Halle, in Sassonia: il B. e un suo fratello di nome Ottaviano, ritenendosi offesi da un soldato spagnolo, osarono aggredirlo e ucciderlo mentre marciava nelle file della fanteria che stava spostando il campo, dopo di che si diedero alla fuga. "Siguieronlos muchos de la infanteria - raccontava il cardinale - y a Octaviano hizieron pedazos; como alcançaron a Julio Cesare ubo desta arte que dixo que no le matassen y que lo que havia hecho lo havia hecho por orden y mandado del duque d'Alva". L'espediente servì e il B. riuscì al momento a cavarsela; ma l'episodio suscitò un enorme clamore nel campo imperiale, tanto che dovette occuparsene lo stesso Carlo V: da allora, passando dalla sbrigativa giustizia dei "tercios" a quella tanto più elastica e imprevedibile delle autorità imperiali, la vicenda diventa esemplare di tutto un costume militare e giudiziario, ancora, tutto largamente compenetrato del rapporto personale tra il sovrano ed i vassalli e quindi oscillante secondo che variassero gli umori di quello e dei suoi rappresentanti.
L'imperatore, deciso dapprima a punire in modo esemplare il colpevole, cedette poi agli influenti "rogadores" intervenuti in difesa del B., che scampò alla pena capitale in cambio del carcere a vita in un castello del Regno. Il B. fu imprigionato a Napoli, in Castelnuovo; ma qui, poco dopo, la sua sorte ebbe una nuova favorevole svolta, fossero le protezioni di cui egli poteva godere a Napoli, o che il Toledo lo considerasse un prigioniero politicamente incomodo, così come sembra doversi interpretare l'espressione del Granvelle, fatto sta che egli fu praticamente rimesso in libertà: "Y como era musico conversava demasiado, y por algunos respectos paresció bien al dicho don Pedro darle licencia, creo que con carta que obtuvo de Su Ma.d, a que pudiese servir en guerra y acabando al servicio bolder al castillo". Così il B. poté tornare nelle Fiandre: ma, non ancora soddisfatto, chiese di essere completamente graziato. La risposta della corte a questa sua richiesta fu a lungo procrastinata. Allora, con un gesto tipico del suo carattere insofferente, il B. abbandonò il campo imperiale e se ne andò in Inghilterra. Quali fossero le sue intenzioni e che cosa avvenisse alla corte inglese per rompere definitivamente con gli Spagnoli, non è chiaro e purtroppo la documentazione qui non soccorre: probabilmente egli sperava di ottenere dall'infante Filippo un autorevole appoggio alla sua richiesta di completa assoluzione. Ma qui dovette entrare ben presto in contatto con emissari francesi i quali, a quanto pare, lo avrebbero indotto a intrigare contro il matrimonio tra la regina e l'infante.
Fatto sta che nell'estate del 1554 il B. entrò a far parte della larga schiera dei fuorusciti napoletani alla corte francese. Nell'esercito di Enrico II partecipò all'assedio e alla battaglia di Renty, il 12 agosto di quell'anno, e nel 1555 alla campagna di Piemonte, agli ordini del maresciallo di Brissac e poi del duca di Guisa: presso quest'ultimo fu uno dei più accesi sostenitori dell'impresa di Napoli e lo seguì quando finalmente, nel 1557, la spedizione fu decisa, prendendo parte all'assedio di Civitella del Tronto. Dal Guisa, mentre proseguiva la campagna, fu quindi mandato a Roma per ottenere nuovi soccorsi da Paolo IV, e poi, nel settembre del 1557, alla corte di Francia, per informarla delle trattative aperte tra il papa e gli Spagnoli, trattative che chiudevano definitivamente ogni speranza alla spedizione francese nel Regno di Napoli. Ancora con il duca di Guisa il B. partecipava, sul finire di quell'anno, all'assedio di Calais, distinguendovisi al punto che l'inviato estense a Parigi, Giulio Alvarotto, poteva commentare: "Dicano che il Re di Francia ha scritto di sua mano che riceve Calés da Giulio Cesar Brancatio, il quale è stato il primo di montar sopra la muraglia et che si è segnalato grandemente" (Croce, Un capitano italiano, p. 66). La fama militare del B. andò sempre più crescendo dopo questo episodio, essendosi egli trovato nei principali fatti d'arme successivi, sia della campagna conclusa a Cateau-Cambrésis (3 apr. 1559), contro gli Anglo-spagnoli, sia nella guerra contro gli ugonotti: più che un decennio di guerre ininterrotte in Francia. In premio di tanti servigi Carlo IX lo nominò sopraintendente generale delle fortificazioni del regno e gentiluomo ordinario di Camera.
Improvvisamente, al principio del 1571, il B. abbandonò il servizio francese. Anche sui motivi di questa decisione un documento sconosciuto ai biografi dà ragguagli illuminanti.
Scriveva l'ambasciatore spagnolo alla corte sabauda, don Francisco de Vargas, a Filippo II, il 2 giugno 1571, che in quei giorni era arrivato a Torino il B., il quale "dize va a servir Venecianos en esta guerra y por ser conyunctura que es". Ma l'accorto ambasciatore non si era appagato delle dichiarazioni del gentiluomo napoletano: "he procurado inquirir a que venga y asta aora hallo solamente que ha estado preso en León por diez mil ducados de deudas y mas que deve en aquel reyno"; riuscito a fuggire "va buscando la vida por no tener con que pagar ni entretenerse y ser profusisimo en gastar" (Archivo General de Simancas, Estado, leg. 1230, f. 86). Il Vargas avanzava sì il sospetto che il B. in realtà avesse compiti di spionaggio, ma tutte le vicissitudini successive del transfuga provano che egli effettivamente aveva ormai rotto i suoi rapporti con la corte francese, sebbene Carlo IX dovesse essere stato indotto dai passati servigi di lui a trarlo dalla difficile situazione in cui lo aveva messo la sua spropositata prodigalità.
Al duca Emanuele Filiberto, secondo quanto lo stesso B. riferisce in un suo inedito Discorso della milizia (Promis, p. 473), egli fece alcune proposte sul "modo di espugnar fortezze senza pericolo degli assediatori", che non pare fossero prese troppo sul serio. Semmai il duca dovette sperare di servirsi di lui per avere informazioni militari sulla Francia: questo almeno consigliava al Vargas, avvertendolo "que es muy platico de aquel reyno y gran hablador y que le hable que sacaré sustancia del", come lo stesso ambasciatore riferiva nella lettera citata. Ma il B. non dovette prestarsi e si trattenne assai poco alla corte sabauda: già il 10 luglio seguente, infatti, il Vargas dava notizia della sua partenza, di una gratifica di 500 scudi concessagli dal duca e della sua intenzione di recarsi alla corte imperiale per indurre l'imperatore ad una grande campagna contro i Turchi e rivelargli grandi segreti di guerra.
Ma alla corte imperiale il B. non dovette godere maggior credito di quello che aveva ottenuto a Torino: né i suoi "gran segreti" gli guadagnarono l'attenzione del duca di Parma e della Signoria veneziana, ai quali successivamente si rivolse. Fu così che si decise a fare il passo più ardito e da Firenze, dove infine si era fermato, nell'agosto del 1572 scrisse al cardinal de Granvelle, viceré di Napoli, inviandogli "estampados en Florencia en español, italiano y en francés - come il viceré comunicava il 7 maggio del 1573 a Filippo II - unos discursos de cosas que dice saber hazer en la guerra, de tal qualidad che si la pudiesse cumplir le terria por el mayor guerresco que oy viva, y pretendia para ponerlos en obra ser lugarteniente general del ill.mo s.or Don Juan [d'Austria] y que ningun otro le mandasse" (Archivo General de Simancas, Estado, leg. 1063, f. 12).
Dal testo a stampa, in spagnolo, delle proposte del B., successivamente inviato in Spagna, appare evidente che la qualifica di "mayor guerresco" usata dal Granvelle, sia pure assai dubitativamente, era tutt'altro che esagerata: il B. esordiva vantando la sua grande esperienza militare, acquisita in trentadue anni di guerra e nel "continuo estudio que he hecho en ello" e si rivolgeva ai principi "de los dela Santissima Lega" perché dessero ascolto alle sue inaudite proposte, relative ai "tres puntos principales en donde consiste todo el negocio de la guerra": sul primo punto, "pelear en jornada campal", il B. assicurava di "saber seguramente vencer el enemigo" anche se questo fosse stato quattro volte più numeroso; sul secondo punto, "tomar por fuerza todas las fortalezas aunque sean inespuñables", si offriva di fare il miracolo senza speciali ordigni di guerra e quali che fossero le difese avversarie; sul terzo punto, la difesa di qualunque fortezza, si offriva di renderla inespugnabile "contra todas las fuerzas humanas, y aun contra d'esta suso dicha manera d'espuñación, a la qual por resistiele non hay cosa de baxo del Cielo que aproveche, si no una solo que yo sé". Il B., offriva di sottoporre le sue proposte all'esame "de ocho o diez de los mas escogidos capitanes", auspicando che "saliendo en verdad se puedan servir de mi honrandome de bienes, y de cargos conformes a la virtud y al valor que se podrá (quizá) hallar en mi persona", e si dichiarava disposto, se alcun altro avesse saputo compiere siffatte meraviglie, di "servir de balde a la Santissima Lega todos los dias de su vida" (Archivo General de Simancas, Estado, leg. 1063, f. 146). Inoltre il B. prometteva un risparmio sulle spese militari nella misura da un terzo a una metà di quelle correnti: era la quadratura del circolo, la pietra filosofale dell'arte militare.
Ma il Granvelle si mostrò subito scettico: "Si es el mismo que conoscí en servicio de su Ma. d Cesarea - scriveva nella citata lettera del 7 maggio 1573, - lo tengo por hombre vano, y en buena escuela haveria estado si despues de partido de este servicio hubiesse aprendido tanto". Si aggiungeva il fatto che il B. era un ribelle e il Granvelle si rifiutava di ammetterlo nei confini del Regno con salvacondotto. Ma le proposte del B. avevano fortemente incuriosito lo stesso don Giovanni d'Austria e un altro tra i maggiori capi militari spagnoli allora in Italia, il duca di Sessa. Per le insistenze di quest'ultimo il Granvelle si decise finalmente a far venire il B. a Napoli, a patto "que fuesse secretamente y que quedasse serrado en el Castillo sin que le hablasse nadie": non era sicuro il cardinale "que no sea aqui embiado por Franceses".
Così il duca di Sessa poté intervistare il B. e l'impressione che ne trasse, sebbene quello si ostinasse a non voler riferire in dettaglio le proprie proposte se non a una commissione nominata dal re, fu decisamente positiva, "pareciendome - come scriveva a Filippo II il 18 maggio 1573 - que podia saber algo de provecho, aunque no fuesse todo lo que offrece" (Archivo General de Simancas, Estado, leg. 1063, f. 145). Il B. infatti gli aveva rivelato alcuni espedienti tattici di efficacia, sbalorditiva, "de manera - ammetteva il duca - que no se puede negar que tenemos los ojos cerrados". Perciò la relazione del Sessa concludeva con l'invito a dar credito al B., evitando che le sue favolose arti fossero messe al servizio di altre potenze. D'altra parte però il Granvelle continuava nelle sue pressioni "para que le sacasen deste Reyno", "porqué su estada aqui me da sombra" (Archivo General de Simancas, Estado, leg. 1063, ff. 12, 24).
Allo stato attuale della documentazione non è possibile stabilire con precisione come si concludesse questo episodio. Dovette prevalere, in definitiva, il parere del duca di Sessa sia pure con qualche soddisfazione al Granvelle: il B. fu infatti allontanato da Napoli; ma per recarsi presso don Giovanni d'Austria, col quale nel 1572 partecipò all'impresa di Tunisi. E la fiducia riposta in lui dal principe dovette essere largamente soddisfatta, a riprova che le vanterie del B. non erano del tutto prive di fondamento, se il duca di Terranova, Carlo d'Aragona, governatore interinale del Regno di Sicilia, poteva scrivere da Palermo a Filippo II, il 15 dic. 1573, che il B. "venne qui in estima et opinione tale de intelligenza et pratica di fortificationi, che mi parse trattare con esso di quelle di questo Regno" (Archivo General de Simancas, Estado, leg. 1143, f. 28). Le proposte del B. relative alle fortificazioni di Messina, Palermo e Trapani piacquero assai al Terranova, "poi che gran tempo et danari si sparagnano" (ibid.).
Così il B. ottenne finalmente il perdono della sua fellonia ed una adeguata considerazione dei suoi meriti; e probabilmente avrebbe anche ottenuto quelle cariche militari alle quali aspirava se non fosse stato ancora una volta tradito dalla sua indole inquieta, dalla sua incapacità a legarsi stabilmente ad una situazione, per quanto vantaggiosa essa fosse. Infatti di lì a poco abbandonò di nuovo il servizio spagnolo per passare al servizio estense.
Se da Alfonso II il B. sperava di ottenere più vistosi riconoscimenti alla sua sapienza militare, certo fu quello il calcolo più sbagliato di tutta la sua vita, che in verità ne contava non pochi. Il duca di Ferrara, infatti, o che non avesse un oggettivo interesse alle mirabolanti proposte del B. o che le classificasse definitivamente per vaneggiamenti senili, trascurò senz'altro questo aspetto della personalità del gentiluomo napoletano preferendo servirsi di lui, con un soldo annuo di 400 scudi, piuttosto per le sue qualità di conversatore e di cantante. In tali attività, in effetti varie testimonianze contemporanee ci mostrano il B. alla corte estense e certo era una fine ingloriosa per chi poteva vantarsi di avere partecipato ad alcune tra le maggiori imprese militari del tempo. Ma il B. non si rassegnò e proprio durante il soggiorno ferrarese scrisse e diede alle stampe (in Venezia nel 1582) l'opera sua più importante d'arte militare, l'unica che fosse pubblicata: Il Brancatio della vera disciplina et arte militare sopra i Comentari di Giulio Cesare, da lui ridotti in compendio per comodità dei soldati.
Anche quest'opera presentava la solita ambiguità delle proposte di rinnovamento della tattica militare cinquecentesca che il B. non si stancava di avanzare da decenni: non poteva che accennare alla loro importanza, perché se fossero state illustrate nei dettagli "se ne servirebbe al certo l'inimico un dì contra di noi" (p. 23). Commentando Cesare il B. aveva del resto modo di mettere in luce l'indubbia esperienza acquisita in tante campagne militari, con osservazioni, critiche e proposte di indiscutibile buon senso, ma che di per sé non sollevavano l'opera al di sopra della sterminata trattatistica militare di fine Cinquecento.
Il successo dell'opera (pubblicata ancora a Venezia nel 1585 e nel 1595; e a Francoforte, in tedesco, nel 1620) non migliorò tuttavia l'umiliante situazione del B. alla corte estense, e anzi il duca Alfonso, stanco delle sue querimonie e intemperanze, finì per licenziarlo, nell'agosto 1583. Da allora il B. visse, a quanto se ne sa, tra Venezia e Padova, non senza qualche inutile tentativo, volenteroso mediatore Giambattista Guarini, di essere riammesso alla corte ferrarese e non senza ritornare sui suoi grandiosi progetti militari: del 1585 è l'inedito dialogo Il Parthenio, ora nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. In esso il B. si rivolgeva a papa Sisto V perché preparasse secondo i suoi consigli una campagna definitiva contro il Turco. E nello stesso anno si offriva a Venezia come consulente per i lavori di fortificazione della cittadella di Bergamo.
Non si hanno sue notizie dopo il 1586.
Fonti e Bibl.: Archivo General de Simancas, Estado, leg. 1063, ff. 12, 24, 145 s.; leg. 1143, f. 28; leg. 1230, f. 86; Delle lettere facete et piacevoli di diversi huomini grandi,et chiari et begli ingegni. Scritte sopra diverse materie, raccolte per m. Francesco Turchi. Libro secondo, Vinegia 1601, pp. 52 s.; L. Tansillo, Capitoli, Napoli 1870, pp. 99, 226; C. Promis, Gl'ingegneri militari che operarono o scrissero in Piemonte dall'anno 1300 all'anno 1650, in Misc. di storia ital., XII, Torino 1871, pp. 455 ss.; A. Solerti, Ferrara e la corte estense nella seconda metà del secolo decimosesto. I discorsi di Annibale Romei gentiluomo ferrarese, Città di Castello 1891, p. LXI; B. Croce, Un capitano italiano del Cinquecento. G. C. B., in Varietà di storia letteraria e civile, s. 1, Bari 1949, pp. 57-78; Id., L'Accademia dei Sereni, in Aneddoti di varia letteratura, I, Bari 1953, pp. 306-309.