Tiberio, Giulio Cesare Augusto
Imperatore romano. Nato a Roma nel 42 a.C., fu adottato da Augusto e gli successe nel principato (14 d.C.). Mentre la storiografia moderna ha messo in rilievo l'eccezionale tempra del suo carattere e le qualità spiegate nell'esercizio di un potere al cui peso egli molto probabilmente riluttava sinceramente, gli storici antichi - e Tacito sopra tutti -, sulla scia di una pubblicistica di origine senatoria fortemente ostile, ne tracciano un ritratto contraddittorio ma nel complesso assai fosco, mostrando incomprensione per il suo programma politico di un principato civile e per l'indole amara e percossa da delusioni atroci che T. rivelò, anche con sussulti di ferocia, sino alla morte seguita presso Miseno nel 37.
La cultura medievale ignorò lo sconvolgente affresco tacitiano degli Annales, ma anche se poté recepire l'immagine di un principe " subdolus et occultior " (Aurelio Vittore Liber de Caesaribus II 1) da altre fonti minori (mentre Velleio Patercolo, assai più benevolo, rimaneva anch'esso quasi del tutto ignorato) preferì ricreare un T. nuovo, strumento provvidenziale nella vicenda della salvazione. Cristo infatti patì sotto il suo principato, ed è lui il " Cesare " cui fa riferimento il Vangelo (cfr. Matt. 22, 16-22; Marc. 12, 13-17; Luc. 20, 19-26). La sua figura rientra così nel quadro dell'ampio ciclo dottrinale e leggendario della ‛ Vindicta Salvatoris ' (per i cui particolari cfr. almeno A. Graf, Roma nella memoria… del Medio Evo, Torino 1923, 285 ss.).
Al vastissimo tema si ricollega il ricordo di T. in Pd VI 82-90 come del terzo Cesare con cui l'Impero ottenne da Dio la gloria di far vendetta a la sua ira, cioè di estinguere con il supplizio inflitto a Cristo l'ira divina seguita al peccato originale. Pilato infatti, nel consentire la condanna di Gesù, Caesaris ibi auctoritate vicaria gerebat officium (Ep V 28) e Cristo stesso gli ricordò le sue prerogative de sursum esse (cfr. Ioann. 19, 10-11). Nel complesso pensiero storico-politico di D. questa circostanza diviene, a sua volta, la riprova della legittimità e universalità dell'Impero: la Passione può essere una vendetta che estingue l'ira divina solo se fu giustamente inflitta da un potere legittimo, giacché si... sub ordinario iudice Cristus passus non fuisset, illa poena punitio non fuisset (Mn II XI 5); d'altronde era necessario che tale potere avesse giurisdizione su tutto il genere umano, cum totum humanum genus in carne illa Cristi... puniretur. T. perciò, nel cui nome agì Pilato, non sarebbe stato chiamato al suo compito dalla Provvidenza nisi romanum Imperium de iure fuisset. Con quest'argomentazione si chiude il libro secondo della Monarchia e in essa culmina la meditazione dantesca sull'Impero universale.