BUSSONE, Giulio
Di modesta famiglia saluzzese (oriunda di Altare, fattasi avanti nella seconda metà del '500 alle fiere e con i piccoli commerci locali), figlio primogenito di Costantino consigliere generale delle gabelle a Saluzzo, che aveva ottenuto infine concessione d'arma nel 1643, se ne ignora la data di nascita; seguì la carriera del padre entrando al servizio di Madama Reale nel maggio 1638 come ricevitore delle entrate ducali nelle province di Saluzzo, Savigliano, Fossano e Cuneo. Salì a poco a poco di grado: da tesoriere generale ordinario e straordinario, al posto di Gio. Matteo Belli (9 nov. 1638), a consigliere di Stato e presidente generale delle Finanze di qua dei monti, il 16 ott. 1644, con uno stipendio di 3.200 lire. Ma quel tratto d'ascesa, tutt'altro che rilevante, non era stata impresa facile per il B., modesto provinciale di origini borghesi sceso a Torino e scontratosi presto con emuli assai più titolati o altrettanto decisi come lui a puntare ai vertici del Consiglio delle finanze, uno dei pochi appannaggi di rango aperto alla "gente nuova" e monopolio non esclusivo dell'alta aristocrazia.
Alla vigilia della nomina, il 4 ottobre, scrivendo a Madama, riferiva come gli fosse stato consigliato di starsene "cauto nell'andar di notte" e come temesse pur sempre che le pressioni dei suoi rivali finissero per farlo cadere in disgrazia, quand'egli non ambiva invece che a un onesto periodo di prova nella carica "per quel tempo che a V. A. R. parrà, poiché se per quello non havrò fortuna di andarle a genio, V. A. R. è patrona di levarmi et farne un altro". E ancora il 15 ottobre assicurava Maria Cristina che neppure sotto il profilo formale potevano sussistere ulteriori impedimenti alla sua nomina, dal momento che "ho già saldato due conti, et li restanti si finiranno in breve tempo, et quando quelli bisognasse rimettere a calcolo, di giurarli è prontissimo di farlo".
Le sue ambizioni erano state infine coronate dal miglior successo il 1º genn. 1646, con la nomina a presidente ordinario di tutte le finanze ducali. Ma il, 29 dic. 1647 il B. tornava a premere chiedendo "qualche aggiunto maggiore di stipendio per sostenermi nel decoro che si conviene"; e, ove non fosse stato possibile, di assegnare a suo cognato, "per esercirla io", la carica di "controllore di guardarobba" rimasta temporaneamente vacante: ché "V.A.R. instarà ben servita, accennandole che, dovendo far elettione di persona pratica et in confidenze, mi voglio far vanto di non cederla a qualsiasi altro suo servitore". Per l'acquisto dell'ufficio, riteneva del resto di potersi procurare fra parenti e amici la bella somma di 28.000 lire. E certo i mezzi non dovevano mancargli, se sei mesi prima, il 19 giugno, aveva ottenuto per 10.500 ducatoni l'anno, già anticipati al tesoriere generale Chirolo, la cessione da Madama Reale della gabella del vino della città di Torino, che la reggente aveva dovuto alienare trovandosi le finanze ducali a corto di danari per la manutenzione delle piazze e il sostentamento delle compagnie militari di presidio. Con l'unica condizione - si legge nelle patenti - che, "stante l'augmento che giornalmente fa la moneta, si riduchi il pagamento di soldi cinquanta in cinque ottavi di ducatone ogni carro di vino che s'introdurrà e smaltirà".
Anche la corrispondenza del B. per le incombenze del suo ufficio conferma per quegli anni e i successivi le condizioni di profondo malessere finanziario in cui si dibatteva l'amministrazione sabauda, ridotta per rimediare all'insufficienza delle entrate - ora che le terre del demanio più redditizie erano state vendute da tempo - ad aggravar dazi e gabelle, o a cederle in perpetuo, pur di far fronte alle crescenti esigenze dello Stato. E in questa situazione le prime a venir colpite dai rigori del fisco erano le comunità periferiche, taglieggiate anche dal comparto del grano, unica imposta in natura ma pur sempre essenziale per disporre di sufficienti riserve. "È sì grande scriveva il B. da Saluzzo, il 13 ott. 1651 la resistenza che fanno questi cittadini in pagare il grano dovuto a S. A. R. che li soldati di giustizia non ardiscono far alcuna essecutione per le minacce che gli fanno alle loro case di notte, sì che per quanta diligenza ch'io habbi usato, et facci usare attorno alli suddetti Particulari per farli pagare, non trovo alcun rimedio per farli pagare il grano che resta dare questa città...". D'altra parte, alla sua burbanzosa solerzia - e al suo atteggiamento da grosso taccagno non certo tenero quando si trattava di pretendere sostanziosi donativi e di far osservare imposizioni sia pur impopolari come la gabella del sale (fissata arbitrariamente di anno in anno, e non in proporzione del reddito delle varie comunità) o il contributo del registro collettabile su cui di norma la nobiltà riversava "cotizzi" e "gioatici" - verrà affidata anche l'applicazione di una tassa, il sussidio militare, varata da Carlo Emanuele II nell'anno 1659 per far fronte all'aumento delle spese per l'esercito. Ma dinnanzi alle voci correnti di una "qualche riforma circa il modo di pagare gli stipendii agli officiali", il B. era poi tra i primi, nel dicembre 1660, a invocare di lasciar le cose com'erano: ché, "se lo stipendio da liquido si rendesse illiquido, gran danno ne sentirei nel governo et sostentamento della mia famiglia".
A Saluzzo dove finirà per ritirarsi nella primavera del 1665, pur conservando il suo titolo (dopo l'avvento nel Consiglio delle finanze di una personalità di più elevata statura politica, come il Truchi), aveva provveduto alla costruzione del palazzo presso l'ospedale e curato a sue spese l'erezione in duomo di una cappella votiva alla Vergine di Loreto. Nell'ultima lettera che ci rimane, del 29 sett. 1670, chiedeva al duca di intervenire perché le monache di S. Clara, fra "le dieci case che sono state [loro] proposte, buone, sane e capaci per la prefettura e le carceri", non scegliessero piuttosto una "ch'è dirimpetto la mia, ché da un piccolo horto quei di dentro ponno col sputo mandarlo avanti la mia Porta e, oltre l'insolenza che vengono permesse ai carcerati, mi levano il chiaro, l'aria et il sole...".
Ignota è la data di morte. Solo si conosce che la carica di presidente delle Finanze, soppressa dopo la sua scomparsa, venne ripristinata più tardi, nell'ottobre 1677, con la chiamata del conte G. A. Ferrari.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Torino, Sezione prima, Lettere particolari, B, mazzo 134, corrispondenza da Rivoli, Torino e Saluzzo, 1644 in 1670; Sezioni Riunite, Patenti Piemonte, regg. 56, ff. 109, 191;57, ff. 86, 127; 59, f. 12; 60, f. 247; Controllo Finanze,1635, 1º, f.70; 1637 in 1638, f. 120; 1638, 1º, f. 127; 1638, 3º, ff. 108, 187-88; 1639, ff. 32, 39; 1639 in 1640, ff. 16, 38, 160; 1640 in 1641, f. 212, 1642in 1643, f. 174; 1643 in 1644, ff. 155, 407; 1644 in 1645, ff. 70, 108; 1646 in 1647, ff. 2, 87, 326, 377; 1647 in 1648, f. 22; 1654, f. 72; 1660 in 1661, f. 1; G. Galli Della Loggia, Cariche del Piemonte, Torino 1798, II, p. 474; III, pp. 161, 163 ss.; G.Claretta, Storia del regno e dei tempi di Carlo Emanuele II, Torino 1877, I, p. 6; 119 pp. 182, 371.