GIULINI DELLA PORTA, Cesare
Nacque a Milano il 25 sett. 1815 dal conte Giorgio, membro della reggenza di governo alla caduta del Regno Italico nel 1814, commissario per la liquidazione del Monte Napoleone, membro del Consiglio comunale di Milano, e da Beatrice Barbiano di Belgioioso. Apparteneva alla famiglia dei Giulini di Vialba e Villapizzone - la stessa dello storico Giorgio, suo bisavolo - alla quale il nonno Cesare aggiunse per via ereditaria il predicato della Porta. Poco si sa della sua formazione giovanile; morto prematuramente il fratello maggiore Rinaldo (1813-37), grande speranza del patriottismo milanese, ne prese il posto, occupandosi del patrimonio familiare e di iniziative benefiche e assistenziali, come il Pio Patronato pei carcerati e liberati dal carcere, del cui consiglio direttivo fu membro sin dal 1847. Si dedicò, anche per i suoi interessi di proprietario agricolo, a letture e studi di economia agraria e su questo tema intervenne al Congresso degli scienziati tenutosi a Venezia nel 1847.
È certo ch'egli mostrò simpatia per gli scrittori moderati: R. Barbiera lo ricorda "nutrito degli scritti di Cesare Balbo e Massimo d'Azeglio" (Barbiera, p. 155), ma coltivava amicizie anche con esponenti del liberalismo più avanzato, come C. Correnti, e perfino con uomini del partito mazziniano. Legato da una fitta rete di parentele a gran parte della nobiltà lombarda (la sorella Anna aveva sposato Camillo Casati, fratello di Gabrio), esercitò una nascosta quanto efficace opera di collegamento fra esponenti dell'aristocrazia e giovani di quella "borghesia più intelligente" che prima del '48 formò "una delle avanguardie del partito nazionale" (Visconti Venosta, p. 358).
All'inizio del '48 il G. fu tra coloro che presentarono al governo austriaco le rimostranze contro le repressioni nei confronti dei partecipanti alla protesta del tabacco. Membro del governo provvisorio di Lombardia nel 1848, il 31 marzo era nominato commissario straordinario del governo presso l'armata piemontese, e in tale veste fu ai primi d'aprile a colloquio con il re Carlo Alberto. Ciò suscitò le lamentele di E. Martini, commissario straordinario del governo provvisorio al quartier generale del re, che reagì accusando il G. d'essere un "ciarlone" e mettendolo in cattiva luce al campo. Preoccupato, l'11 apr. 1848 il Casati scriveva all'aiutante di campo di Carlo Alberto per spiegargli che si trattava di due missioni diverse, di cui Martini non doveva adombrarsi, e descrivendo il G. come "giovane colto, buono, schietto, benpensante" e di "vero carattere", anche se poco diplomatico (Carteggio Casati - Castagnetto, p. 50). Il Castagnetto rispondeva di trovarlo "eccellente persona, colto e spiritoso", ma un po' vago nelle idee, ora lasciandosi "travedere repubblicano", ora dichiarando di non poter "manifestare nessuna opinione". In realtà il G. si atteneva alla scelta del governo provvisorio di evitare posizioni che avrebbero potuto turbare l'unità di uomini e partiti in Lombardia; doveva peraltro muoversi con cautela avendo come segretario un esponente dell'ala radicale, Paolo Bonetti, che gli era stato affiancato su suggerimento del Correnti con il preciso intento di allontanare da Milano gli spiriti più inquieti: lo stesso motivo per cui furono offerti a C. Cattaneo gli incarichi, rifiutati, di plenipotenziario presso la Confederazione elvetica e poi presso la Gran Bretagna. Il G. in effetti aveva contatti e amicizie con esponenti della Sinistra (l'altra sua sorella sposò Giambattista Camozzi, fratello di Gabriele, patriota bergamasco, ex mazziniano e collaboratore di G. Garibaldi), e tuttavia non solo non aveva pregiudiziali antimonarchiche, ma fu tra i più decisi sostenitori della politica filosabauda; aveva però assai a cuore il ruolo della Lombardia e fu tra coloro che, approvata la fusione, sostennero la necessità di mantenere i poteri del governo provvisorio sino alla effettiva fusione con il Piemonte. In effetti la legge di fusione approvata dal Parlamento piemontese stabilì che il governo per compiere determinati atti doveva "previamente consultarsi con una Consulta straordinaria composta dai membri attuali del Governo Provvisorio di Lombardia". Fu così che questo il 2 ag. 1848 si trasformò di fatto nella Consulta straordinaria della Lombardia.
Ma era ormai in atto l'infelice esito della guerra: con il rientro degli Austriaci a Milano il 5 agosto e l'armistizio Salasco del 9 agosto, la Consulta si disperse e solo a poco a poco i suoi membri ripresero i contatti per iniziativa di Vitaliano Borromeo, che ne riunì alcuni nella sua casa sul lago Maggiore, e del Casati, che, dimessosi dopo il disastro militare da presidente del Consiglio del governo sardo, assumeva la presidenza della neonata Consulta lombarda. Il G. fu fra i primi a riprendere i contatti con i colleghi; dandone notizia al Casati il 26 ag. 1848, raccoglieva l'amarezza e il malcontento dei Lombardi che lamentavano la remissività e gli errori del re; aggiungeva che dalla fusione non si poteva tornare indietro, ma riteneva necessaria, "per riunire Lombardia e Piemonte, l'abdicazione di Carlo Alberto […] essendo il suo nome sovranamente detestato dai Lombardi" (Curato, p. 15). La Consulta iniziò l'attività a Torino il 4 sett. 1848 e restò in funzione sino al marzo del 1849, cioè sino alla "fatal Novara", oscillando fra organo esecutivo e organo consultivo-legislativo, finché non fu sciolta da M. d'Azeglio il 20 maggio 1849.
Incluso nella lista dei cittadini espulsi dallo Stato dopo il ritorno degli Austriaci a Milano, nel novembre del 1848 anche il G. era stato colpito dal contributo straordinario imposto dal Radetzky ai membri del governo provvisorio e ad altri esponenti della rivoluzione del marzo; poté rientrare a Milano due anni dopo a seguito dell'amnistia, svolgendo un'efficace opera di amalgama, specialmente dopo il fallimento dell'insurrezione milanese del 1853, fra le varie correnti del patriottismo lombardo. Fu tra i più assidui frequentatori del salotto della contessa Clara Maffei, dove si operò il passaggio di non pochi delusi dal mazzinianesimo nel partito moderato.
Oltre a tenere le fila del moderatismo locale, il G. si teneva costantemente in contatto con gli esuli lombardi in Piemonte, specialmente con A. Mauri, con G. Arconati Visconti, con Correnti e con G. Massari, direttore della Gazzetta piemontese, tramite il quale teneva informato lo stesso governo torinese degli sviluppi della politica austriaca in Lombardia e dell'andamento dell'opinione pubblica. Le sue lettere al Massari costituiscono perciò delle vere relazioni piene di notizie sulle direttive del governo austriaco, sulla politica di avvicinamento alle aspirazioni autonomiste di molti lombardi praticata dal nuovo governatore (1857), l'arciduca Ferdinando Massimiliano, sull'andamento delle finanze pubbliche nel paese, sull'atteggiamento e le reazioni dei Lombardi alla politica cavouriana, in particolare dopo Plombières; e il Cavour ne fece fare dal Massari una sintesi da far pervenire anche a Napoleone III. Simulando viaggi d'affari - era anche azionista, con i Litta Modignani, i Castelbarco, i Visconti Modrone, di una società per il commercio serico fondata nel 1852 - il G. approfittava dei suoi viaggi a Lugano per fare anche delle visite personali a Torino, ove il 15 dic. 1858 ebbe un importante colloquio con il Cavour sull'attività dell'Associazione nazionale italiana e sull'organizzazione dell'esodo di coscritti lombardi in Piemonte allo scopo di creare il casus belli con l'Austria. Ritenuto l'uomo che poteva conciliare le posizioni dei vari partiti in patria, il suo prestigio negli ambienti torinesi andava naturalmente accrescendosi; perfino la polizia austriaca, che lo sorvegliava a distanza, poco prima dell'inizio della guerra del '59 l'aveva definito "uomo dotato di talento e di squisita educazione, perciò influente e stimato" (Chierchini, p. 120).
Dopo l'ultimatum austriaco al Piemonte (23 apr. 1859) e l'inizio della seconda guerra d'indipendenza il G. fu convocato a Torino dal Cavour - e la scelta fu dettata appunto dalla sua perfetta conoscenza della realtà lombarda - con l'incarico di preparare il testo dei decreti governativi da emanarsi nelle province che in caso di vittoria sarebbero state annesse alla monarchia sabauda. Come gli faceva osservare L.C. Farini, che con M. Minghetti era a capo di un del tutto informale ufficio per le province italiane, si trattava di un incarico che, con la guerra appena cominciata e i "tedeschi a Vercelli", non poteva avere carattere di ufficialità. Il G. dapprima esitò, ma finì con l'accettare dopo un colloquio con lo stesso Cavour che gli espose sinteticamente i criteri dell'organizzazione delle nuove province: "lasciare in piedi la macchina amministrativa lombarda" in tutto ciò ch'era possibile; "riempire le lacune che la mutazione di governo" avrebbe provocato; "aggiungere ciò che era indispensabile per avvicinare la vecchia organizzazione al nuovo ordine di cose"; in definitiva risparmiare per il momento l'edificio, rimandando a tempi più quieti di studiare "il modo di arrivare alla piena e completa fusione" (Malinverni, Alcune lettere, p. 129).
Con l'assenso del Cavour il G. formò a questo scopo una commissione scegliendo i collaboratori in base alle competenze e alla conoscenza dei problemi, affiancando a esponenti della vecchia emigrazione e veterani della lotta politica (come G. Arconati Visconti, L. Torelli, Correnti, Mauri), i giovani che conoscevano meglio le condizioni della Lombardia di quegli anni (A. Allievi, G. ed E. Visconti Venosta), rispettando una certa rappresentatività delle province lombarde, ma soprattutto senza badare alle idee professate in passato o alla diversa provenienza politica, purché fossero concordi nell'adesione alla politica cavouriana. Il G. diresse i lavori con equilibrio e discrezione, avvalendosi in particolare della competenza di uomini come E. Broglio, il Correnti, e l'Allievi nel settore dell'economia e della pubblica amministrazione. Il 26 maggio consegnava al Cavour gli atti della commissione con una lettera alla quale il primo ministro sardo rispondeva il 27 ringraziandolo per un lavoro che aveva superato la sua aspettativa: "Pregandola di quel difficile e delicato incarico io sapeva di rivolgermi ad uomo d'ingegno, di cuore, buon conoscitore del suo paese, e bramoso di vederlo ordinato in modo che i primordii della libertà e dell'indipendenza vi siano accompagnati dai benefizi di una amministrazione intelligente, forte ed onesta" (Atti della commissione Giulini, p. 306). Questi testi restano indubbiamente il contributo più importante del G. alla impostazione dei problemi dell'unificazione e della costruzione del nuovo Stato, tanto più che la commissione andò ben oltre la richiesta del Cavour, presentando un quadro organico del sistema amministrativo lombardo e della tradizione di autogoverno locale e avanzando alcune proposte di carattere più generale: che l'unificazione fra vecchie e nuove province non avvenisse di slancio ma dopo approfonditi studi; che essa fosse opera del Parlamento; che l'assetto politico-amministrativo dello Stato risultasse dal concorso delle migliori istituzioni del paese e che la Lombardia vi contribuisse soprattutto con le sue istituzioni comunali.
L'autorevolezza morale del G. negli ambienti lombardi e la prova fornita con la commissione del maggio 1859 fecero sì che, dopo le dimissioni del Cavour, egli fosse chiamato a far parte di vari organismi consultivi costituiti nel periodo della cosiddetta dittatura legislativa rattazziana per l'esame delle leggi emanate, stante la chiusura del Parlamento, in virtù dei poteri straordinari votati al governo il 26 apr. 1859. Il G. si trovò spesso in una situazione delicata per la presenza nel governo La Marmora-Rattazzi di ministri lombardi, come il Casati, che chiedevano l'appoggio dell'opinione pubblica lombarda, mentre la Lombardia non nascondeva la propria delusione per una legge - quella sull'ordinamento comunale e provinciale del 23 ott. 1859 - che metteva fine al tradizionale sistema di autogoverno locale, ed era perciò criticata tanto dai moderati che dalla sinistra cattaneana. Il 26 ottobre il G. esponeva in una lunga lettera a U. Rattazzi il malcontento lombardo, specialmente del ceto impiegatizio, dei piccoli commercianti, di Milano declassata da capitale a città di provincia, suggerendo iniziative idonee a rassicurare l'opinione pubblica. Parlando anche a nome d'altri amici, scriveva che occorreva a ogni costo consolidare l'unione dei due paesi e "stornare tutto ciò che può impedire la consolidazione d'un edifizio nobilissimo ma recente e che può essere ancora provata dalle vicende. Per me poi personalmente - aggiungeva il G. - l'unione fu sempre l'ideale della mia vita e per essa ho giuocato la testa non so quante centinaia di volte".
Nel novembre 1859 fece parte (con altri lombardi, fra cui Correnti e S. Jacini) della commissione, presieduta da Cavour, per la riforma della legge elettorale sarda del 1848, che si concluse con una relazione presentata il 20 nov. 1859. Il G. era contrario al progetto governativo che, con l'annessione delle nuove province e per non aumentare troppo il numero dei deputati, portava da 21.000 a 30.000 il numero di abitanti per ciascun collegio elettorale (e i deputati da 204 a 261), mentre con la vecchia legge elettorale i deputati sarebbero stati 312 e quindi la rappresentanza lombarda più consistente rispetto a quella delle antiche province dello Stato. Il G. si chiedeva se la nuova legge non nascondesse un certo timore verso la capacità dei Lombardi di far uso dei diritti politici. Ma si allineò poi al parere del Cavour che aveva sostenuto "la necessità di restringere il numero dei deputati per avere un parlamento meglio composto, più grave, più competente" (minuta anonima nel fondo Risorgimento italiano della Bibl. civica A. Mai di Bergamo, vol. XII, f. 8). Anche di fronte ai dubbi dei lombardi se si potessero modificare le norme per l'elezione della Camera e ridurre il numero dei deputati con legge ordinaria dell'esecutivo, i commissari di destra e lo stesso Cavour fecero valere l'argomento che "nessun parlamento sarebbesi mai impegnato a mutilare se stesso".
Lusingato dal Rattazzi con l'offerta di un incarico importante, forse quello di governatore di Torino, il G. rifiutò per lealtà nei confronti del Cavour, del quale auspicava un prossimo ritorno al potere. Capo morale e coordinatore della resistenza nel decennio 1849-59, trait-d'union fra patrioti rimasti in patria ed esuli, fra Milano e Torino, il G. non sembrò ambire alla grande politica, interessato piuttosto ai problemi della società civile locale, secondo una tradizione cara ai Lombardi. Indette le elezioni comunali e provinciali in base alla legge 23 ott. 1859, fu eletto consigliere e presidente del Consiglio provinciale di Milano. Continuò tuttavia con la sensibilità del tessitore accorto e riservato a dirigere le fila del partito moderato filocavouriano. Si deve a questa azione di coordinamento - capace di mettere insieme uomini dalle radici e dagli orientamenti politici assai diversi come Jacini o Prinetti da una parte, Correnti, Brioschi, Visconti Venosta dall'altra - anche la fondazione de LaPerseveranza, l'organo dei liberali lombardi, che dopo molte incertezze e trattative uscì il 20 nov. 1859.
Di un grande giornale che costituisse il supporto della politica cavouriana si era parlato già a Parigi nel 1858 fra Napoleone III e il Cavour, che aveva incaricato G. Massari di trovare aderenti e finanziamenti in Lombardia. Quivi si era formato un apposito comitato segreto guidato dal G., con C. Cagnola e L. Pedroli, che aveva raccolto azioni per un valore di 50.000 lire. Il progetto del giornale fu ripreso dopo Villafranca dal G. che riuscì a mettere insieme 22 soci promotori, ma soprattutto ad assicurarsi la collaborazione di uomini sia della Destra, sia del liberalismo più avanzato. Andata a vuoto una prima trattativa con C. Tenca, il G. ottenne la collaborazione di Correnti e il distacco dal Tenca di molti collaboratori de IlCrepuscolo, come E. Fano, G. Susani, G. Cantoni, T. Massarani, G. Visconti Venosta: ciò provocò la crisi del prestigioso giornale, costretto il 25 dic. 1859 a chiudere dopo che nel decennio precedente aveva combattuto una continua battaglia civile. Sotto l'impulso del G. la Perseveranza presentò un programma ispirato a un modello di liberalismo aperto: libertà di coscienza, laicità dello Stato, educazione civile e politica del popolo; realizzazione di uno Stato capace di accogliere "tutte le varietà che la natura e la storia profusero nella penisola italiana"; equilibrato rapporto fra Stato e istituzioni locali. Col tempo però il giornale accentuò la linea moderata e finì con il diventare una specie di organo della consorteria lombarda.
Tornato al potere all'inizio del 1860, il Cavour ricorse ancora all'esperienza del G. per avere una lista di personalità cui assegnare riconoscimenti: collari dell'Annunziata, laticlavi, commende, cavalierati e uffici. Le indicazioni della lista, compilata con equilibrato dosaggio fra ceto di appartenenza e meriti politici, e nella quale figuravano i nomi più illustri del patriottismo lombardo, furono sostanzialmente accolte dal Cavour. Incluso nella lunga lista di lombardi che comprendeva anche A. Manzoni, il 29 febbr. 1860 lo stesso G. fu nominato senatore. Fra i suoi primissimi interventi alla Camera alta vi fu la firma, con i senatori A. De Gori Pannilini, G. Giorgini, V. Niutta e C. Matteucci, della relazione dell'ufficio centrale del Senato sull'attribuzione a Vittorio Emanuele II del titolo di re d'Italia. Il G. fu anche chiamato a far parte della commissione legislativa presso il Consiglio di Stato istituita con legge 24 giugno 1860 per iniziativa del ministro dell'Interno L.C. Farini, allo scopo di predisporre l'ordinamento politico amministrativo del nuovo Stato. La commissione condusse i lavori in base alle direttive date dal Farini con una nota del 13 agosto e da M. Minghetti, suo successore, con una nuova nota del 28 nov. 1860: nella prima era previsto l'istituto della regione come ente morale, mentre nella seconda essa era ridotta a "consorzio di provincie". La commissione affidò l'incarico di predisporre uno schema di legge rispondente alle direttive del nuovo ministro a una sottocommissione - ne faceva parte anche il G. - nella quale G. Ponza di San Martino tornò a proporre, senza esito, la regione come ente autarchico. Non si conosce la posizione del G. in proposito; ma si sa che intervenendo sull'ordinamento provinciale si dichiarò favorevole a porre a capo della rappresentanza elettiva della provincia un'autorità governativa, il prefetto (Porro, p. 137).
Il G. morì a Milano il 18 nov. 1862. Aveva sposato il 27 giugno 1854, ormai quarantenne, donna Giulia Carcano, figlia di Francesco Carcano e di Irene di Roero, dalla quale ebbe una sola figlia, Maria Beatrice, nata il 7 luglio 1856, che nel 1875 andò sposa al marchese Ariberto Crivelli (il che spiega il fatto che i beni e il prezioso archivio storico dei Giulini finissero in casa Crivelli). Con testamento 18 luglio 1859 aveva disposto con spirito patriottico un legato di 4000 fiorini a favore delle famiglie dei caduti nella guerra del 1859 e di 1000 fiorini per l'acquisto di uniformi ai militi della guardia nazionale di Milano che non fossero in grado di procurarsela.
Fonti e Bibl.: Documenti e corrispondenze del G. sono conservati nel Fondo Crivelli-Giulini ora all'Arch. di Stato di Milano; lettere a C. Tenca sono nell'Archivio Tenca (cart. 2, f. II); a C. Correnti nell'Archivio Correnti (cart. 5, f. 2) ambedue nel Museo del Risorgimento di Milano; altre corrispondenze originali e copie nel Fondo Camozzi-Gamba della Biblioteca civica di Bergamo; gli atti della commissione del 1859 che reca il suo nome - pubblicati in ed. critica: Atti della commissione Giulini per l'ordinamento temporaneo della Lombardia (1859), a cura di N. Raponi, Milano 1962 - sono in parte conservati a Roma, Arch. stor. del Ministero degli Esteri, Segreteria e ministero Affari esteri del Regno di Sardegna, b. 107, f. 3; in parte nel ricordato Fondo Crivelli-Giulini; una copia integrale (Studi e proposte per la organizzazione politico-amministrativa e giudiziaria di Lombardia… sotto la presidenza del conte C.G. della Porta) è nel fondo Risorgimento italiano della Biblioteca civica A. Mai di Bergamo (vol. XII, f. 7); nello stesso fondo (vol. XIII, f. 85) le proposte di nomine e di onorificenze presentate dal G. al Cavour, un cospicuo gruppo di lettere del G. alla moglie e a taluni esponenti politici piemontesi sono conservati nel Fondo Gamba (sul quale v. N. Raponi, Archivio Gamba, in Gli archivi dei governi provvisori e straordinari, 1859-1861, I, Roma 1961, pp. 92-96) della stessa Biblioteca, bb. 38, 39 e 41. Alcune di queste lettere sono state edite da L. Marchetti, Milano 1858-59 nelle lettere di C.G. della Porta a Giuseppe Massari, in Il Risorgimento, XI (1959), pp. 63-92, e da B. Malinverni, Alcune lettere del conte C.G. della Porta riguardanti la sua missione a Torino (maggio - giugno 1859), ibid., pp. 117-138. Si veda inoltre: Carteggio Casati-Castagnetto (19 marzo - 14 ott. 1848), a cura di V. Ferrari, Milano 1909; Carteggio del governo provvisorio di Lombardia con i suoi rappresentanti al quartier generale di Carlo Alberto (22 marzo - 26 luglio 1848), a cura di A. Monti, Milano 1923, pp. 99 ss.; L. Marchetti, 1848. Il governo provvisorio della Lombardia attraverso i processi verbali delle sedute del Consiglio, Verona 1948, pp. 23 ss.; F. Curato, 1848-1849. La Consulta straordinaria della Lombardia (2 ag. 1848 - 20 maggio 1849), Milano 1950, ad indicem; G. Massari, Diario dalle cento voci (1858-1860), a cura di E. Morelli, Bologna 1959, ad indicem. Per gli interventi al Senato, v. Atti parlamentari, Senato del Regno, Documenti, VIII legislatura, I, p. 4.
Necrologi in L'Opinione, 20 nov. 1862, e La Perseveranza, 22 nov. 1862; R. Barbiera, Il salotto della contessa Maffei e la società milanese, Milano 1895, passim; A. Panzini, Il 1859 da Plombières a Villafranca, Milano 1900, passim; G. Visconti Venosta, Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute (1847-1860), Milano 1904, pp. 299 s., 355, 393, 411; C. Pagani, Milano e la Lombardia nel 1859, Milano 1909, passim; A. Luzio, Studi e bozzetti di storia letteraria e politica, I-II, Milano 1910, passim; F. De Dominicis, L'ordinamento provvisorio della Lombardia nel 1859 e la questione costituzionale, in Il Risorgimento italiano, IV (1911), pp. 569-610; F. Nasi, Cento anni di quotidiani milanesi, Milano 1958, pp. 17 s.; B. Malinverni, L'assetto politico amministrativo della Lombardia in un progetto studiato a Torino nel maggio del 1859, in Atti del Convegno storico lombardo, Brescia… 1959, Brescia 1961, pp. 257-272; C. Pavone, Amministraz. centr. e amministraz. periferica da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano 1964, pp. 27 s., 68, 235-238, 245, 277 s.; N. Raponi, Politica e amministraz. in Lombardia agli esordi dell'Unità. Il programma dei moderati, Milano 1967, ad indicem; F. Traniello, L'attività del Consiglio e della Deputaz. provinciale di Milano dal 1861 al 1887, in Storia amministrativa delle province lombarde, 2, La Provincia di Milano, Milano 1969, p. 168; A. Caracciolo, Il Parlamento nella formazione del Regno d'Italia, Milano 1972, pp. 100, 222; A. Porro, Il prefetto e l'amministrazione periferica in Italia. Dall'intendente subalpino al prefetto italiano (1842-1871), Milano 1972, pp. 84 s., 87-90, 121 s., 137, 139; G. Chierchini, Tenca, G., Correnti e la nascita della "Perseveranza", in Arch. stor. lombardo, CX (1984), pp. 114-155 (in particolare, pp. 120-124, 132); N. Raponi, A. Allievi e i problemi dell'unificazione italiana, in Antonio Allievi: dalle "scienze civili" alla pratica del credito, a cura di E. Decleva, Roma-Bari 1997, pp. 435-475 e passim; Diz. del Risorgimento nazionale, III, sub voce.