TORNABUONI, Giulietta (Lietta). – Nacque a Pisa il 24 marzo 1931, discendente dell’antica famiglia aristocratica toscana (erede diretta di Lucrezia Tornabuoni, la madre di Lorenzo il Magnifico)
Figlia di un medico, Giuseppe, e di Gianna Veroni, traduttrice dall’inglese e dal francese, crebbe con i fratelli Lorenzo, pittore figurativo, e Paola, fotografa.
Si trasferì a Roma diciottenne, nel 1949, dopo aver sposato il giornalista dell’Unità Ennio Polito, militante, come lei, del Partito comunista italiano (il matrimonio durò sei anni). Nello stesso anno iniziò la sua prima collaborazione giornalistica con il settimanale dell’Unione donne italiane, Noi donne.
Nel 1956 cominciò a scrivere per Novella, collaborando negli anni successivi a L’Espresso, L’Europeo, il Corriere della sera (tra il 1975 e il 1978). Negli anni Sessanta partecipò alla realizzazione di alcuni numeri di Linus e del supplemento Alì Babà, nato nel 1967 da un’idea di Italo Calvino, che intendeva riprendere e rilanciare il progetto del Menabò di Elio Vittorini. A partire dal 1970 divenne una delle firme di riferimento del quotidiano La Stampa, con cui collaborò per tutta la vita, raccogliendo l’eredità del critico cinematografico Stefano Reggiani, suo mentore e maestro, che ebbe anche una diretta influenza sulla scrittura di Tornabuoni, caratterizzata da una prosa elegante, precisa, dotata di grande capacità di sintesi. Negli anni Novanta entrò nel comitato di consulenza redazionale della Rivista del cinematografo, la più importante testata della cultura cinematografica di area cattolica.
Insieme all’attività critica, Tornabuoni fu testimone e cronista di alcuni dei più importanti fatti nazionali e internazionali del dopoguerra.
Nei suoi articoli si alternano così pezzi di costume sul cavallo ‘miracoloso’ Ribot e approfondimenti intellettuali sulle parole e le immagini di Pier Paolo Pasolini; celebri inoltre i suoi ritratti e le sue interviste, come quelle a Francesco Cossiga, Federico Fellini o Sergio Leone, oppure le inchieste sul Black Panther Party nordamericano o sulla Cina postmaoista, le cronache dell’attentato terroristico contro la squadra israeliana alle Olimpiadi di Monaco del 1972 o del sequestro e omicidio di Aldo Moro nel 1978.
Il racconto, come corrispondente, dei funerali di Enrico Berlinguer (apparso su La Stampa del 13 giugno 1984) è un esempio limpido della sua prosa e della capacità di restituire anche nella cronaca il flusso di dettagli visivi, emozioni, sfumature, che caratterizza lo sguardo ‘cinematografico’: «Partita dalla sede del Partito comunista in via delle Botteghe Oscure, la bara nel furgone dalle pareti di cristallo, preceduta dalla musica, seguita dai familiari e dai compagni, soffocata di fiori, passa a fatica tra fitte pareti di gente commossa, e dal brutto palazzo rosso percorre uno scenario unico al mondo: il Campidoglio michelangiolesco e i Fori imperiali, le torri medievali e le colonne dei templi pagani e cristiani di Roma. Un corteo lunghissimo ma puntuale: è l’ora fissata anche dalla televisione, le quattro e mezzo, quando arriva in piazza San Giovanni».
Durante la guerra del Golfo (tra febbraio e agosto del 1991), La Stampa ospitò una rubrica settimanale da lei curata dal titolo Diario italiano, che rifletteva sul dibattito tra le posizioni interventiste e pacifiste dei politici e degli intellettuali italiani. Tornabuoni lavorò anche in RAI, sia per la radio sia per la televisione, e partecipò come corsivista umoristica al programma televisivo di Luciano Salce I Malalingua. I suoi articoli per La Stampa e per altre testate la resero molto popolare: lucide, eleganti, ironiche, le sue recensioni avevano uno stile colto, antiretorico, ricco di riferimenti letterari, ma allo stesso tempo accessibile al lettore.
Recensendo il film Matrix (La Stampa, 7 maggio 1999), Tornabuoni dà grande risalto alle invenzioni visive, ovvero ai «campi infiniti di innumerevoli feti umani contenuti in sacchi di plastica trasparente, appesi a sostegni come piante d’uno sterminato frutteto, che respirano, sognano e vengono allevati per nutrire con la loro energia vitale le macchine padrone degli uomini»; poi però nota che «il resto è un pastrocchio pomposo e sentenzioso, pretenzioso e misticheggiante, inzeppato di quei motti confusi e altisonanti che impressionano i ragazzini e gli autodidatti». Lei stessa ebbe modo di osservare che «la stroncatura è un facile esercizio di scrittura, ma non serve a nessuno se non a chi la scrive, che si mette in mostra. Occorrerebbe un po’ di senso di responsabilità anche quando il film è brutto».
Emerge dal suo lavoro una concezione della forma critica come servizio ‘pubblico’ da restituire al lettore, secondo un principio che si ritrova, ad esempio, nell’annuale appuntamento in libreria con i suoi volumi Al cinema (pubblicati prima da Einaudi e poi da Dalai Editore), che raccoglievano le sue migliori recensioni scritte durante l’annata cinematografica. Celebri, inoltre, i suoi reportage dai festival cinematografici, in cui riuscì ad alternare in modo esemplare il mestiere della critica con quello della cronista.
L’incipit dell’articolo pubblicato su La Stampa il 28 agosto 2010, in occasione dell’ultima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, mette in risalto l’intreccio di mondanità e cultura che caratterizza il mondo dei festival, ma anche la capacità della scrittura di Tornabuoni di affrontare le questioni estetiche del film e quelle del gossip con la stessa, meticolosa attenzione: «La festa più bella fu saracena, data da Giorgio Armani nel grande giardino della villa veneziana di Giovanni Volpi: con tende bianche, donne stupende, cibi squisiti, musica, con Rosanna Armani che faceva gli onori di casa vestita da boy arabo, piccolo gilet, pantaloni larghi e gonfi, babbucce di velluto, capelli corti. Un incanto, nella notte d’estate. Da allora, quasi tutte le feste della Mostra del cinema hanno avuto qualcosa di sbagliato, hanno commesso qualche gaffe tremenda: quelle a bordo di natanti di lusso dividevano villanamente gli ospiti tra privilegiati e plebei, quelle nei chiostri preziosi offrivano alimenti tossici, quelle ufficiali nei palazzi storici chiudevano i battenti troppo presto e troppo brutalmente. Una festa davvero riuscita non s’è più vista».
La prosa limpida, asciutta ed elegante, l’attenzione ai particolari, fu sempre integrata da un’attenta analisi dei film e dei contenuti, filtrati da uno sguardo raffinato. Introducendo l’intervista a Pasolini, pubblicata nel 1968 sulla rivista Pirelli, osservava ad esempio come «il conformismo borghese della casa, degli abiti, dei modi, della parte palese della sua vita, è singolare in Pasolini, che dell’odio e della ripugnanza per la classe e la mentalità borghese (“un marchio d’infamia, una malattia”) ha fatto la propria divisa morale, estetica e politica. Ancora di più contrasta con le sue opere recenti, nelle quali il populismo lirico, il misticismo estetizzante e il civismo emotivo sono stati sostituiti dalla violenza, dalla provocazione, dall’orrore e dalla tragedia».
Tornabuoni seppe così muoversi su diversi registri, alternando cinema, cronaca, mondanità, ma anche intrecciandoli in uno sguardo coerente, attento alle mutazioni del costume e della politica. È il caso dei suoi pezzi dal Festival di Sanremo, come quello sulla maledetta edizione del 1967, dove Luigi Tenco si tolse la vita, intitolato Gli indifferenti e pubblicato su L’Europeo, con una chiusura amara quanto sarcastica.
«Quanti cadaveri, al XVII Festival di Sanremo. I giovani sconfitti, la canzone di protesta nata morta, la via italiana del beat fallita, lo yé-yé finito, il disco condannato. Per non parlare del cadavere orribilmente sfigurato di Tenco, trasportato via in segreto con fretta indecente, seppellito in solitudine. Subito dimenticato. Persino irriso da certi colleghi cantanti con battute atroci come “adesso ha finito di protestare”. Definitivamente liquidato dal capellone milanese che alla domanda “E Tenco?”, squaderna pollice e indice delle mani, prende la mira, ride e spara intonando: “Bang bang”».
Decisivo, nel suo percorso intellettuale, fu il sodalizio professionale con Oreste Del Buono, compagno, amico e collega, con cui pubblicò i volumi Il becco giallo, 1924-1931 (Milano 1970), approfondimento sulle vignette e le caricature pubblicate dalla rivista satirica italiana tra gli anni Venti e Trenta; Era Cinecittà: vita, morte e miracoli di una fabbrica di film (Milano 1980), documentata ricerca storica sul cinema italiano che integra analisi dello stile e dei generi con uno sguardo acutissimo sull’industria; Album di famiglia della TV: 30 anni di televisione italiana (Milano 1981), primissimo tentativo di storia illustrata della televisione in Italia. Tra le sue pubblicazioni più importanti, si ricordano inoltre Sorelle d’Italia: l’immagine della donna dal ’68 al ’78 (con Stefano Reggiani, Milano 1978), saggio sulla liberazione della cultura femminile con interviste a militanti e attiviste politiche come Luciana Castellina, Manuela Fraire, Ida Magli, Dacia Maraini ed Emma Bonino; Corpo a corpo. Una cultura per la sopravvivenza (con Natalia Aspesi, Milano 1979); il volume da lei curato Federico Fellini (Milano 1995), monografia illustrata sul regista di Rimini. Nel 1980 curò anche l’introduzione all’edizione italiana Bur di Piccole donne di Louisa May Alcott.
A seguito di una caduta accidentale, avvenuta durante l’anteprima stampa di un film a Roma, fu ricoverata in ospedale poco prima del Natale del 2010, dove scrisse la sua ultima recensione, dedicata a Hereafter di Clint Eastwood e pubblicata su L’Espresso il 30 dicembre 2010. A causa di una serie di arresti cardiaci, le sue condizioni si aggravarono.
Morì la notte dell’11 gennaio 2011 al policlinico Umberto I di Roma.
Nel ricordarla, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano la definì «giornalista di lungo corso, scrittrice sensibile e critica cinematografica costantemente impegnata nell’analisi dell’evoluzione del cinema italiano e internazionale, e sempre attenta alle trasformazioni della cultura e della società. Le sue recensioni di tanti film, di cui sapeva cogliere il senso più profondo, insieme ai pregnanti ritratti del grande cinema, indagati e tratteggiati con professionale rigore, costituiscono un patrimonio di conoscenza prezioso da salvaguardare e valorizzare».
Scritti. Tra gli altri suoi scritti si segnalano: Gli indifferenti, in L’Europeo, 1967, n. 9; Creola, in L’Europeo, 1968, n. 17; PPP, in Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica, 1968, n. 11; Il leader in grigio, molto togliattiano, in La Stampa, 27 giugno 1984; ’90 al cinema, Torino 1990; A Venezia davvero una mostra mai vista, in La Stampa, 31 agosto 2010; Questo Clint è da non perdere, in L’Espresso, 30 dicembre 2010.
Fonti e Bibl.: Contemporary women writers in Italy. A modern renaissance, a cura di S.L. Aricò, Amherst 1990; A. Papuzzi, Professione giornalista: le tecniche, i media, le regole, Roma 2003; N. Aspesi, Addio a Lietta T., la signora del cinema, in La Repubblica, 12 gennaio 2011; S. Bio, Lietta T., dama di prima fila tra critica e cronaca, in Il Sole 24 ore, 11 gennaio 2011; L. Boschi, Se n’è andata Lietta T., in Il Sole 24 ore, 11 gennaio 2011; V. Braghieri, Se ne va la T., signora della critica, in Il Giornale, 12 gennaio 2011; A. D’Agostino, Raccontare cultura. L’avventura intellettuale di «Tuttolibri», 1975-2011, Roma 2011; D. Righetti, Lietta rimpianta a metà, in Il Fatto quotidiano, 12 gennaio 2011; R. Silipo, Addio a Lietta T., in La Stampa, 11 gennaio 2011; P. Interdonato, Linus. Storia di una rivoluzione nata per gioco, Milano 2015, passim.