DAVANZATI, Giuliano
Figlio di Roberto di Niccolò e di Antonia de' Bischeri, nacque a Firenze nel 1390. Rampollo di una famiglia ben assestata tra la classe dirigente fiorentina (il padre ottenne tre volte il priorato), fu avviato verso i vent'anni allo studio del diritto civile. Della sua carriera universitaria sono rimaste alcune tracce: presente in un primo tempo a Padova (1409-412), dove risulta testimone di atti accademici, lo ritroviamo a Bologna nella funzione di lettore (1415-1417) e per un anno nella carica di rettore degli studenti italiani (1416). Conseguito qui il dottorato. fece ritorno in patria, dove probabilmente si immatricolò all'arte dei giudici e notai (la documentazione relativa a quegli anni è mancante o guasta), iniziando, senza soluzione di continuità fra studi e pratica civile, un'intensa partecipazione alla vita politica e diplomatica cittadina.
Sin dal 1420 il D. fu consultato dal governo fiorentino in merito a problemi di politica interna ed estera ed a questioni di finanza pubblica. Nella primavera di quell'anno il D. ed altri giuristi vennero sentiti sulla regolarità dello scrutinio elettorale tenuto nel 1417 durante la peste. Essi si mostrarono sensibili alle prese di posizione assunte dai casati dominanti ed espresse con chiarezza da capi come Rinaldo degli Albizzi e Matteo Castellani, che sostenevano l'illegalità dello scrutinio elettorale per eliminare qualche famiglia ostile. La loro decisione provocò la reazione dei Consigli legislativi: per attenuare il contrasto, il D. propose allora di affidare in futuro a un gruppo di anziani la decisione di questioni analoghe. In materia fiscale, invece, la posizione assunta dal D. appare improntata a criteri di grande equità: da un lato invitò i cittadini a non favorire il proprio quartiere o gonfalone nella distribuzione dei carichi fiscali, dall'altro si preoccupò di sottolineare la sensibile contrazione, per il 1421, del numero dei cittadini disposti a concedere prestiti al Comune.
In politica estera il D. si fece sostenitore di idee moderate. Quando, infatti, apparve chiaro il progetto visconteo di occupare Genova e di conseguenza Livorno, allora possesso genovese, con grave rischio per il commercio fiorentino, il D. si oppose al progetto di eminenti personaggi, tra cui Rinaldo degli Albizzi, che volevano occupare subito Livorno, e all'idea di dar vita ad una lega anti milanese. Egli pare schierarsi, dunque, con quella parte dell'opinione pubblica che guardava più ai costi ed alle difficoltà economico-finanziarie dell'operazione che non alle affermazioni di forza militare e monetaria. Probabilmente proprio per la posizione moderata assunta sulla questione, il D. nel 1421 fu inviato, insieme con Astorre Gherardini Gianni, come ambasciatore presso Filippo Maria Visconti per discutere del problema genovese. Nel 1424, in una situazione politica molto diversa, dopo l'acquisto di Livorno da parte di Firenze, il D. fece poi parte dell'ambasceria fiorentina che trattò i Ferrara una nuova pace con i rappresentanti viscontei.
Scelto nel 1426 tra i Dieci di balia, il D. prese parte alle discussioni che si accesero l'anno successivo in merito al catasto dei beni fiorentini, schierandosi con quei giuristi - come Francesco Machiavelli e Guglielmo Tanagli - che perseguivano un costante miglioramento dell'amministrazione cittadina, in particolare di quella finanziaria. Allo scoppio del conflitto contro Lucca nel 1429, il D. assunse una posizione di conciliante attendismo, cui seguì unImprovvisa svolta v rso una promozione ed un impegno nell'impresa (nel 1432 il D. spedì una lettera da Venezia ad Averardo de' Medici dichiarando la propria disponibilità alla salvaguardia dello Stato). Egli, comunque, sperava che il conflitto non fosse troppo gravoso per le finanze della Repubblica e si concludesse rapidamente. Tali speranze però non si realizzarono; la guerra per la conquista di Lucca debilitò le finanze pubbliche e private e spaccò in due la classe dirigente fiorentina.
Nel novembre 1432 il D. divenne ufficiale del Banco, carica che accrebbe la sua competenza in campo finanziario mettendolo a contatto con i numerosi e complessi problemi delle entrate e delle uscite del Comune e della gestione del debito pubblico, in un periodo di grave crisi per la guerra in corso. Schieratosi dalla parte dei Medici, non fu comunque toccato dagli avvenimenti del 1433 che portarono alla cacciata di Cosimo il Vecchio. Quando poi, l'anno seguente, quest'ultimo ritornò a Firenze, il D. contribuì decisamente all'affermazione dell'oligarchia medicea alla guida della Repubblica e fu tra i principali protagonisti dei mutamenti istituzionali voluti da Cosimo per raggiungere un più sicuro controllo del potere. Nel 1434 il D. fece parte della Balia, istituita dopo il ritorno dei Medici, e partecipò quindi alla liquidazione delle liste elettorali favorevoli agli Albizzi. Entrato, poi, tra gli accoppiatori, fu incaricato di scegliere una Signoria di sicura fede medicea, operando al di là delle competenze ordinarie della magistratura di cui faceva parte. Nel 1436, infine, salì al vertice del governo della Repubblica divenendo gonfaloniere di Giustizia. Il pontefice Eugenio IV gli conferì in quell'anno il cavalierato.
Nel 1438 fu inviato a Venezia con il difficile compito di convincere la Serenissima a iniziare trattative di pace con i Visconti, le cui truppe stavano avanzando in Veneto. L'ambasceria, però, non riuscì a raggiungere i suoi obiettivi e due anni dopo il D. ritornò a Venezia per organizzare una guerra comune contro Milano. Dopo il cavalierato, il D. fu insignito di altri onori: con i legati fiorentini presso l'imperatore Alberto, nel 1439 ricevette da quest'ultimo il titolo di conte palatino, mentre da Alfonso d'Aragona, re di Napoli, ottenne nel 1442 il privilegio di inserire nel proprio stemma l'arma regale. Continuò a partecipare alla vita politica fiorentina fino al 1445: in quest'anno espresse il suo parere favorevole alla riforma fiscale del Monte, l'ufficio competente del debito pubblico e fu eletto tra gli Otto di guardia, magistratura incaricata della sanità pubblica.
Il D. morì il 12 genn. 1446 e fu sepolto nella cappella di famiglia nella chiesa di S. Trinita, dove è ancora conservato il sepolcro e la relativa iscrizione.
Le vicende del patrimonio familiare del D. possono essere individuate in base alla testimonianza dei catasti. Il catasto del 1427 trova il D. inserito in una famiglia comprendente ben ventisette fuochi, in cui egli coabi ! ava, oltre che con la moglie Caterina di Giovanni-di ser Parente e i figli, con i genitori e le famiglie dei fratelli. Alla morte dei padre (intorno al 1442) la struttura familiare si sfasciò e il D. restò erede per la sua parte, ma fu costretto ad uscire dalla casa patema presso S. Trinita ed a cercare un'abitazione in affitto. I suoi beni sembrano essere costituiti da proprietà terriere e titoli di debito pubblico, tutti trasmessi per eredità. Le rendite del D., comunque, non dovevano essere particolarmente elevate: nel catasto del 1442 risulta che egli lamentava l'insufficienza delle entrate rispetto alla vita che il proprio rango e il proprio titolo di cavaliere gli imponevano. Certamente il numero dei figli, sette, tra cui cinque femmine, dovette porre al D. non pochi problemi. Alla sua morte le sue proprietà furono divise tra i figli, mentre la moglie fu costretta ad abitare con una cognata.
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