CESARINI, Giuliano
Nacque a Roma nel 1398 da Andreuzzo e da Paolotia di Lorenzo Rustici.
Apparteneva ad un'antica famiglia patrizia romana, ormai decaduta, staccatasi da quella dei Montanari, di cui suo padre portava ancora il nome. Dopo aver sposato in prime nozze una certa Vanna, di cui non si hanno altre notizie, Andreuzzo si risposò con Paolotia: da questo matrimonio nacquero cinque figli maschi, tra i quali, probabilmente primogenito, Giuliano.
Dopo i primi studi compiuti nella città natale, il C. si trasferì a Perugia per studiare diritto.
In quella città fece amicizia con Giovannello Buontempi, membro di un'antica famiglia perugina, che lo appoggiò in tutti i modi. "Propter merita patris" il C. restò affezionato ai figli del Buontempi come se fossero i propri, e più tardi, quando ormai era cardinale, li raccomandò per un ufficio alla Repubblica di Venezia (cfr. Becker, p. 95).
Continuò gli studi a Bologna e a Padova, dove conseguì la laurea in utroque e tenne lezioni di canonistica.
Tra i suoi allievi furono allora Domenico Capranica e Niccolò Cusano, che lo elogiò come "praeceptor metuendus" o "unicus". Nell'ambiente padovano entrò probabilmente anche in contatto con la cultura umanistica, che più tardi avrebbe favorito così generosamente. Ancora al tempo del concilio di Basilea si fece istruire nella lingua greca dal generale dei camaldolesi Ambrogio Traversari, acquistandosi la fama di essere uno dei migliori conoscitori non solo degli autori latini, ma anche di quelli greci (cfr. N. Cusano, De docta ignorantia, prefazione).
Tornato a Roma, il C. entrò al servizio del cardinale Branda da Castiglione, nominato legato nel Regno di Boemia e in Germania, insieme al quale nel marzo del 1422 si mise in viaggio per la Germania.
Un documento pontificio del 3 ott. 1422 lo qualifica come "magister Iulianus de Cesarinis, capellanus noster et causarum palatii apostolici auditor", un documento tedesco dell'11 giugno 1423 come canonico di S. Pietro, dottore in utroque iure e auditore della corte di Roma (cfr. Die Chronik des Klosters Kaisheim, p.257). Tra la fine del 1423 e l'inizio del 1424 lo troviamo alla corte del re di Polonia Ladislao Iagellone a Cracovia, dove tenne un'orazione al posto del cardinale Castiglione. Èmolto probabile che al seguito del cardinale egli sia stato nella primavera del 1423 anche nella città di Magonza, dove il Castiglione promulgò i suoi statuti per la riforma di quella Chiesa. Successivamente sembra aver accompagnato il cardinale alla corte di re Sigismondo a Buda.
Tornato a Roma, fu nominato dal papa, il 1º ag. 1424, "auditor causarum curiae apostolicae" con uno stipendio annuo di quindici fiorini d'oro di camera. Prestò il giuramento il 24 novembre successivo accettando la condizione "ne officium auditoris Sacri Palatii [detenuto fino allora] cum ipso officio auditoris curiae camerae exerceat aut ipso uteretur" (Arch. di Stato di Roma, Fondo Camerale I, Ufficiali camerali, f.22v). Nella primavera del 1425 fu incaricato di una missione in Francia per ottenere dal duca di Bedford, reggente per il minorenne re Enrico VI nella sua qualità di re di Francia, una limitazione del divieto di concedere benefici, pronunciato per impedire le "provisiones" pontificie in materia.
Mentre in Francia le cose sembrano essere andate abbastanza bene, il C. non riuscì invece ad ottenere nulla nel corso di una seconda missione che questa volta lo portò in Inghilterra. A questa seconda missione si riferiscono una lettera di salvacondotto del 5 apr. 1426 e una lettera di raccomandazione indirizzata da Martino V al cancelliere e all'università di Oxford del 28 dello stesso mese (Arch. Segr. Vat., Reg. Vat. 355, f. 262rv; Reg. Lat. 359, f. 36rv). Durante il suo soggiorno in Inghilterra dette prova del suo talento retorico e per desiderio del cardinale Beaufort istruì il cronista George Hardyng nella lingua latina basandosi su testi di Giustino. Entrò in contatto anche con la cerchia di umanisti intorno al duca di Gloucester, della quale faceva parte il cancelliere dell'università di Oxford Thomas Chace.
Ancora prima che il C. avesse portato a termine la sua missione il papa lo nominò, il 24 maggio 1426, cardinale diacono di S. Angelo in Pescheria, ma la nomina fu resa pubblica solo l'8 nov. 1430.
Ciò si spiega probabilmente con il fatto che la legazione inglese, che inizialmente sembrava tanto promettente, si concluse con un completo fallimento. Gli Inglesi avevano motivato il loro rifiuto di accogliere le richieste pontificie richiamandosi al Parlamento che non voleva revocare lo "Statute of Provisors", ma con l'occasione furono annullate anche le concessioni fatte in precedenza relative ai territori francesi della Corona inglese (Ibid., Reg. Vat. 359, ff. 45-47r). Il C. era di ritorno a Roma sicuramente all'inizio del dicembre 1426, quando Martino V rispose alla lettera del re d'Inghilterra trasmessagli dal Cesarini. Secondo lo Haller (England und Rom, p. 271) la lettera è forse lo scritto più bello uscito dal gabinetto di Martino V, e per la sua straordinaria chiarezza e raffinatezza retorica è stata attribuita al C. (pubblicata da Wilkins, Concilia, III, pp. 480-482). Non è possibile stabilire con sicurezza se egli si fosse fermato a Firenze nel dicembre del 1425 durante il viaggio di ritorno dalla Francia, come potrebbe suggerire un passo nelle Commissioni di Rinaldo Albizzi (II, p. 509).
Per gli anni tra il 1427 e il 1430 mancano quasi completamente notizie sull'attività svolta dal C. in Curia, ma molto probabilmente sono di sua mano le aggiunte alle proposte di riforma elaborate da quattro cardinali per il concilio di Pavia, poi trasferito a Siena.
La supposizione è avvalorata dalla circostanza che il loro autore dimostra una buona conoscenza delle usanze tedesche e inglesi (cfr. Haller, Concilium Basiliense, I, pp. 108 s.). La collaborazione del C. alla compilazione di questo testo deve aver facilitato anche la pubblicazione della sua nomina cardinializia ancora al tempo di Martino V. Quanto ai benefici, sappiamo che l'11 ag. 1428 gli fu concesso l'arcidiaconato di Famenne nel capitolo di Liegi, permutato il 10 agosto 1429 con quello di Condroz e il 13 marzo 1431 con quello di Hesbaye (cfr. Baix, La Chambre apostolique, pp. 257, nn. 686 s., 309 n. 835, e Arch. Segr. Vat., Reg. Lat. 306, pp. 224r-225r).
Il 1º genn. 1431 Martino V nominò il C. legato in Boemia, in Moravia e nella Marca di Meissen, estendendo l'11 dello stesso mese l'ambito della sua legazione anche a Germania, Ungheria e Polonia (Arch. Segr. Vat., Reg. Vat. 351, ff. 183r-186r, 190v-192r). Lasciò Roma per recarsi in Germania il 23 o 24 gennaio, passando per Firenze (dove la sua presenza è attestata per il 31) e per Bologna (7 febbraio). Il 4 marzo fece ingresso a Norimberga, festosamente accolto dalla Dieta, già riunita. Con una brillante orazione cercò di suscitare entusiasmo per la crociata contro gli ussiti. Come suo teologo funse il domenicano Giovanni Stojković da Ragusa. Ai primi di marzo il nuovo vescovo di Olmütz gli consegnò le bolle di Martino V del 1º febbr. 1431 contenenti la sua nomina a legato pontificio presso il concilio generale convocato a Basilea (Reg. Vat. 351, ff. 198v-199v). Il C. tuttavia non era molto entusiasta di questo nuovo compito e vi si oppose a lungo, affermando di aver rifiutato già a Roma di assumersi tali responsabilità. Probabilmente sperava anche che la morte di Martino V, sopraggiunta il 20 febbr. 1431, avesse automaticamente annullato la sua nomina. Ma il nuovo papa Eugenio IV, il veneziano Gabriele Condulmer, eletto nel corso di un breve ma tumultuoso conclave, lo confermò nella carica di presidente del concilio il 25 giugno 1431.
Nel frattempo il C. aveva cercato di organizzare, la lotta contro gli ussiti, cercando aiuti dappertutto. Lo troviamo infatti sul Reno, a Magonza, a Colonia, a Liegi. Con l'occasione tentò anche di mediare nel conflitto tra il vescovo di Liegi e il duca Filippo il Buono di Borgogna, ottenendo tra l'altro da ambedue le parti la promessa di aiuti (soldati e denaro) per la guerra ussita. Il 27 giugno 1431, recandosi da Colonia a Würzburg, era di nuovo a Norimberga, dove lo attendeva Leonardo da Pescia con denaro per la spedizione contro gli ussiti e varie lettere da Roma che gli annunciavano che Eugenio IV lo aveva confermato nella carica di presidente del concilio di Basilea; vi si sarebbe dovuto recare appena concluso l'affare boemo, poco dopo dunque, come si sperava a Roma. Ma le truppe promesse arrivarono solo scarsamente. Ciò nonostante il 29 giugno il C. consegnò al marchese Federico di Brandeburgo, capitano generale dell'esercito, il vessillo crociato nella chiesa di S. Sebaldo a Norimberga. L'inizio della campagna boema fu fissato per il 1º agosto. Ma il 14 agosto le truppe del marchese di Brandeburgo subirono una clamorosa sconfitta presso Taus.
Il C. stesso corse pericolo di vita, mentre caddero nelle mani del nemico la grande croce, i paramenti cardinalizi e le bolle pontificie che indicevano la crociata. Travestito da semplice soldato e con il continuo terrore di essere riconosciuto ed ucciso dagli ussiti, il C. raggiunse di nuovo Norimberga. Ivi si discusse sulla possibilità di un'altra campagna, ma re Sigismondo, che ormai non mirava ad altro che all'incoronazione imperiale, abbandonò Norimberga già alla fine di agosto per iniziare la discesa in Italia. Il C. dovette rendersi conto che per il momento era impossibile organizzare una nuova crociata. Decise dunque di dedicarsi all'altro compito che gli era stato affidato.
Già il 3 luglio il C. aveva mandato a Basilea Giovanni da Ragusa e il suo auditore Giovanni da Palomar con l'incarico di indurre quelli che erano arrivati per partecipare al concilio a non spostarsi e ad aspettare la sua venuta. I due inviati raggiunsero Basilea il 19 luglio, mentre il C. vi arrivò soltanto il 9 settembre, accolto "cum magna honorificencia" (cfr. Haller, Concilium Basiliense, II, pp. 13 s.).
L'11 prestò giuramento davanti al concilio, impegnandosi "cum omni diligencia dare operam ad exequendum agenda" e promettendo di non fare niente "sine consilio vestro" (ibid., p. 14). Queste parole rivelano chiaramente la sua buona disposizione nei confronti del concilio, atteggiamento condiviso del resto dalla maggior parte dei suoi contemporanei colti nati intorno al 1400. Il 14 settembre confermò l'operato dei suoi sostituti. Poi, il 14 dicembre, il concilio sotto la presidenza del C. tenne la sua prima solenne seduta, nel corso della quale il C. predicò sul passo della Sacra Scrittura "Mundamini, qui fertis vasa domini" (Isaia, 52, 11). Pochi giorni più tardi, però, giunse a Basilea il vescovo di Parenzo portando con sé le bolle pontificie che disponevano lo scioglimento del concilio: temendo le reazione dei partecipanti, rivelò l'obiettivo del suo viaggio soltanto al C. e abbandonò immediatamente la città. Eugenio IV intendeva infatti sciogliere il concilio non solo perché era poco frequentato ma anche per altre considerazioni; soprattutto non tollerava che il C. avesse invitato degli ussiti. Il 18 dic. 1431 ripeté le disposizioni del 12 novembre, ingiungendo al C. di abbandonare Basilea dopo la lettura delle bolle di scioglimento e di recarsi nei luoghi dove avrebbe potuto agire con maggiori prospettive di successo contro gli ussiti.
Era chiaro dunque che Eugenio IV scioglieva il C. dalleresponsabilità come presidente del concilio, ma non dalle sue funzioni di legato contro gli ussiti. Percio, appena ricevuta la bolla, il C. depose il suo ufficio di presidente, ma non abbandonò ancora Basilea, come gli era stato ordinato, perché Sigismondo lo aveva pregato di restare. Varie volte cercò di esporre il suo punto di vista al pontefice senza trovare comprensione. Tuttavia non firmò la protesta del sinodo contro lo scioglimento disposto da Eugenio IV. Si dimostrò invece cedevole quando i padri del concilio lo pregarono insistentemente di riassumere la presidenza: in un primo momento partecipò a qualche seduta, mettendo a disposizione la sua esperienza in materia di redazione di documenti. Quando poi, nel settembre, giunsero a Basilea i suoi vecchi amici Domenico Capranica e Niccolò da Cusa, si dichiarò anche disposto, il 12 di quel mese, a presiedere di nuovo il concilio, alla sola condizione che avesse potuto dimettersi in qualsiasi momento.
Ormai la sua posizione era cambiata radicalmente: da rappresentante pontificio con l'incarico segreto di guidare il sinodo secondo le direttive di Roma, era diventato presidente di un'assemblea che rivendicava la sovranità del concilio sul papa e si apprestava a dargli battaglia. L'appoggio venne al C. soprattutto dagli amici che giungevano sempre più numerosi a Basilea, dall'anziano cardinale Branda da Castiglione, appena arrivato, e da Niccolò da Cusa. Quest'ultimo era venuto come procuratore del vescovo eletto di Treviri Ulrico di Manderscheid per difendere, con successo, i diritti di quest'ultimo contro il candidato pontificio Raban di Helmstadt, ed era appoggiato nella suacausa anche dal Cesarini. Ma nonostante tutto questo, il C. sperava ancora in una riconciliazione con la Curia romana. Lo dimostra la sollecitudine con cui informava Eugenio IV, già quattro giorni prima della delibera del concilio (18 dic. 1432), della richiesta del sinodo di revocare entro sessanta giorni le bolle che scioglievano il concilio. Protestò anche contro le voci che sollecitavano un esame sulla validità canonica dell'elezione di Eugenio IV. Ma né il papa né il Collegio cardinalizio approvavano il suo atteggiamento; anzi, i cardinali lo accusavano di volersi fare papa con l'aiuto del concilio.
Finalmente Eugenio IV cambiò rotta. Con la bolla Ad sacram Petri sedem del 14 febbr. 1433 (pubbl. in Mansi, XXIX, coll. 569-71; cfr. anche Mon. Conciliorum, II, pp. 370-72) riconobbe il concilio, ma conferì ai principi elettori anziché a Sigismondo il protettorato su di esso. Questa decisione però venne troppo tardi per i padri del concilio che non erano più disposti a rimettersi alle decisioni pontificie. Ancora una volta il C. cercò di salvare la situazione. Fece trasmettere a Sigismondo, che stava ancora in Italia sulla via del ritorno dall'incoronazione imperiale, la minuta per una bolla che forse avrebbe potuto placare l'atmosfera antipapale regnante a Basilea. Si proponeva a Eugenio IV di confermare la legittimità del concilio per tutto il periodo che era stato riunito e di revocare lo scioglimento e il suo trasferimento a Bologna. Ma in Curia la minuta del C. fu abilmente modificata tanto che la nuova bolla Dudum sacrum (1º ag. 1433) risultò inaccettabile per i padri di Basilea. Disputando la questione con l'arcivescovo Bartolomeo Zabarella di Spalato, il C. riuscì a convincere Sigismondo della malafede della Curia. Questa disputa segna il culmine nella lotta del concilio contro le pretese pontificie. Seriamente preoccupato per l'unità della Chiesa, Eugenio IV venne infine a più miti consigli e promulgò il 15 dic. 1433 la bolla Dudum sacrum nella forma desiderata dal C. (pubblicata in Monumenta Conciliorum, II, pp. 565-74). Il 4 febbr. 1434 gli inviati pontifici arrivarono con la bolla a Basilea, ma la gioia per la loro venuta fu di breve durata, quando si seppe che il papa aveva nominato il 1º genn. 1434 quattro cardinali alla presidenza del concilio, accanto al Cesarini. Solo con l'intervento di Sigismondo e dopo lunghe trattative si riuscì a trovare una soluzione: la nomina fu accettata a condizione che essa non limitasse l'attività del concilio.
In questo senso il C. aprì le trattative il 14 febbr. 1434, schierandosi dalla parte dell'ala del concilio che era favorevole alla sottomissione del concilio al papa. Ma soprattutto cercò di riannodare il filodel discorso con gli ussiti. Li aveva invitati nel 1431, ed ora finalmente i loro rappresentanti si recarono a Basilea. Il 10 genn. 1433 il concilio li accolse benevolmente e il C. tenne un discorso conciliante, una delle prestazioni maggiori nel campo della letteratura teologica (cfr. Mon. Conc., II, pp. 299-316). Cercò di guadagnarsi la fiducia della delegazione ussita anche con colloqui personali. Sarebbe stato contento se gli ussiti si fossero fermati a Basilea fino al raggiungimento di un accordo definitivo, ma il martedì di Pasqua 1433 essi tornarono in patria. Purtroppo questo risultato non era molto soddisfacente per il C., anche se d'ora in poi il contatto tra il concilio e gli ussiti non si interruppe più. Analogamente il C. si impegnò a continuare nel concilio l'opera di riforma ecclesiastica, avviando per esempio visite pastorali e influenzando la compilazione del regolamento "De modo vivendi in concilio" (ed. Mansi, XXIX, coll. 382-85) tanto da renderlo atto a garantire il lavoro conciliare.
Uno degli obiettivi principali del concilio rimaneva però sempre la riforma della Curia; si profilava dunque un altro conflitto con Eugenio IV. Il papa in quel momento si trovava in una situazione difficile: nel maggio del 1434 era dovuto fuggire da Roma con pericolo di vita, trovando rifugio a Firenze. Cercava dunque il contatto con il C., il quale però, dopo aver redatto tra l'estate del 1432 e l'inizio del 1435 il testo di ben ventuno riforme, non era più disposto ad abbandonare il suo programma. Il decreto del 9 giugno 1435 in particolare, che annullava con un solo colpo annate e altre tasse, aveva l'obiettivo esplicito di colpire la Curia nella sua potenza temporale. Dopo la promulgazione i legati pontifici abbandonarono precipitosamente Basilea, tranne il C. che aveva dato il suo consenso al provvedimento, chiedendo però un indennizzo per la Curia in forma di altre tasse. Difese questo punto di vista anche successivamente in un memoriale del 4 ott. 1435 (pubbl. in Concilium Basiliense, I, pp. 387-92, n. 48). Il suo atteggiamento fu causa di grande amarezza in Curia, tanto più che proprio allora il cardinale Giovanni Vitelleschi aveva potuto ristabilire il potere del papa nello Stato della Chiesa. Eugenio IV cercò con tutti i mezzi di convincere il C. a passare dalla sua parte, ora che il progetto dell'unione con la Chiesa greca assumeva forme sempre più concrete. Inviò a Basilea il generale dei camaldolesi Ambrogio Traversari per avvertirlo del pericolo di scisma che serpeggiava nel concilio. Gli amichevoli rapporti con il dotto monaco suscitarono il disappunto dei padri del concilio, ma il C. si difese adducendo l'entusiasmo per l'antichità classica e il desiderio di imparare il greco. Tuttavia ciò che la diplomazia non riuscì ad ottenere lo produssero le spiacevoli dispute circa l'unione con la Chiesa greca che allontanavano il C. dal concilio e lo riavvicinavano al papa.
Già nel 1434 il C. aveva dato il benvenuto alla prima delegazione greca venuta a Basilea. Un anno più tardi chiese ad Eugenio IV un'indulgenza plenaria per finanziare l'opera di unione. Ma i cardinali Albergati e Cervantes, mandati dal papa a Basilea, non la portarono con sé, né tanto meno la garanzia che la Curia avrebbe rispettato i decreti del concilio per la riforma. Aumentarono dunque le lagnanze contro Eugenio IV. Tuttavia il C. acconsentì a patrocinare il progetto di un concilio riunito in Italia per promuovere l'unione con i Greci. Soprattutto i mesi a cavallo tra il 1436 e il 1437 furono per il C. pieni di delusioni.
Se fino ad allora aveva propugnato con convinzione un moderato conciliarismo, ora si dimostrava amaramente deluso dai suoi eccessi, ponendo l'unica sua speranza nell'unione con la Chiesa greca. Per iniziare un nuovo concilio dove questa unione si sarebbe realizzata, aspettava dal papa la conferma di tutto ciò che era stato deliberato a Basilea. Queste sue aspirazioni gli fruttarono il soprannome di "Iulianus Apostata" (cfr. Mon. Conciliorum, II, p. 918; III, p.1319). Nel concilio assunse un ruolo dominante al posto del C. il cardinale francese Louis Aleman, un fervido rappresentante del conciliarismo. In conseguenza il C. si rifiutò, insieme al cardinale Cervantes, di porre la sua firma sotto il decreto del concilio che sceglieva Avignone come luogo per il concilio di unione. Già il 19 nov. 1436 il concilio si era pronunciato a favore di Ferrara. Ma la maggioranza dei padri dopo una violenta discussione tramutò, il 7 maggio 1437, le delibere del 6 dic. 1436 per Avignone in decreto. Questa circostanza fa vedere chiaramente che ormai il C. aveva perduto ogni influenza sul concilio.
Il C. offrì ancora una volta la sua mediazione e redasse anche un memoriale sui fatti accaduti (20 dic. 1437).Ma già nel settembre precedente aveva dichiarato pubblicamente di voler andare dove sarebbero andati i Greci. Da Venezia gli giunse finalmente la notizia che i Greci erano attesi in quella città, e perciò il 9 gennaio 1438, verso mezzogiorno, abbandonò Basilea, senza essersi congedato prima. Informati all'ultimo momento della sua partenza, i padri, confusi, gli vollero dare un congedo onorevole ed una scorta. È rimasta quasi ignota la diffidenza nutrita dal C. nei confronti di Eugenio IV, che lo indusse a chiedere la mediazione della Repubblica di Venezia prima di recarsi a Ferrara. A Basilea aveva sperato che il cardinale Cervantes l'avrebbe accompagnato, ma questi si fermò a Costanza. In pieno inverno il C. attraversò con il suo seguito le Alpi per recarsi a Venezia, dov'era atteso ansiosamente dai Greci giuntivi già l'8 febbraio e intenti a proseguire il viaggio per Basilea. Il C. arrivò il 20 dello stesso mese e riuscì presto a dissipare i dubbi dell'imperatore d'Oriente e a convincere i Greci a recarsi a Ferrara, dove l'8 gennaio, si era riunito il concilio.
Ma prima di seguirli il C. intendeva sbrigare alcune faccende personali con l'aiuto del governo veneziano (cfr. Archivio di Stato di Venezia, Deliberazione secreta. Senato, II, f. 96r in data 25febbr. 1438). Avrebbe voluto per sé un beneficio vacante nel territorio veneziano e chiedeva raccomandazioni presso il papa per sé e persone del suo seguito. Si adoperò fra l'altro a favore del suo amico Angelo Perilli da Perugia, sollecitando un aumento del suo stipendio come insegnante di diritto. Il Senato cercò di venire incontro ai desideri del C., ma non c'era bisogno di un intervento presso Eugenio IV che aveva invitato il C. a Ferrara già il 1º gennaio (cfr. Cecconi, pp. 468 s. n. CLXXII).
Il C. dunque si mise di nuovo in viaggio, facendo tappa a Mantova, il cui signore nutriva sentimenti di sincera amicizia nei suoi confronti, ed arrivò a Ferrara l'8marzo accolto dal papa "in generali consistorio cum pompa maxima ut legatus" (cfr. Hofmann, in Orientalia Christiana Periodica, III [1937], pp. 138 s.). Erano al suo fianco il protonotaro apostolico Oddo de' Varri e il vescovo di Tivoli Niccolò Cesari. Nel concilio il C. diventò subito un personaggio di punta, soprattutto dopo l'inizio delle trattative con i greci (9 aprile).
Partecipò attivamente sia alle trattative preliminari che alle sedute, nel corso delle quali si trovava spesso coinvolto in discussioni con il teologo greco Markos Eugenikos. In queste dispute colpisce soprattutto l'argomentazione strettamente giuridica adottata dal Cesarini. Compilò anche un memoriale sulla questione del purgatorio (4 giugno 1438) che rappresentava l'opinione ufficiosa di Roma.
Il 10 genn. 1439 il concilio si trasferì a Firenze, dove il C. vantava buone amicizie e dove era stato invitato già il 14 ag. 1436 (cfr. Cecconi, pp. 245 s.n. LXXXIX). Con l'aiuto di Cosimo de' Medici riuscì anche ad eliminare gli ostacoli finanziari che si frapponevano al trasferimento dei Greci a Firenze (cfr. la sua lettera da Faenza del 2febbr. 1439 conservata nell'Arch. di Stato di Firenze, Mediceo avanti il Principato, F XI, 217). La seconda fase del concilio fu inaugurata il 26 febbr. 1439 a S. Maria Novella, presente il C., che avrebbe assunto un ruolo eminente anche in questo sinodo. Partecipò personalmente a tutte le sedute, spesso anche alle trattative segrete con i Greci. Furono raggiunti così tre grandi obiettivi: l'unione con i Greci (6 luglio 1439), gli Armeni (22 nov. 1439) e i copti (4 febbr. 1442). In particolare fu merito suo di aver convinto l'imperatore d'Oriente ad accettare il decreto con cui si stabiliva l'unione tra la Chiesa greca e quella romana. In una solenne cerimonia svoltasi nel duomo di Firenze il 6 luglio 1439 iltesto latino di questo decreto fu letto pubblicamente dal C., quello greco dal Bessarione, che era diventato suo grande amico. Il C. sollecitò Eugenio IV a conferire al Bessarione la dignità cardinalizia, conferimento avvenuto poi il 18 dic. 1439.
Dopo questa grande vittoria sul concilio di Basilea Eugenio IV poté dimostrare tutta la sua benevolenza nei confronti del C.: già nel 1435 gli aveva conferito il titolo di cardinal prete di S. Sabina (con questo titolo è ricordato per la prima volta il 17 febbr. 1435, cfr. Mansi, XXIX, col. 580) concedendogli anche di conservare tutte, le entrate connesse con il titolo cardinalizio detenuto in precedenza (Archivio Segreto Vat., Arm. LIII, vol. XIII, f. 256rv). Dopo la morte del cardinale Giordano Orsini (29 maggio 1438) passò a lui il titolo di arciprete di S. Pietro e l'ufficio di protettore dei francescani e dei serviti. Allora ottenne anche il monastero cisterciense di S. Pietro (diocesi di Rieti). Il 6 febbr. 1439 Eugenio IV gli conferì in commenda il vescovato di Grosseto, dispensandolo dall'obbligo di risiedere nella diocesi (Ibid., Reg. Lat. 311, ff. 80v-82r). Dopo l'elevazione dell'arcivescovo di Taranto Giovanni Berardi alla dignità cardinalizia (19 dic. 1439), ottenne in commenda anche l'arcivescovato di Taranto. Il 23 maggio 1443 fu nominato gran penitenziere e il 7 marzo 1444 cardinal vescovo di Frascati.
In quel periodo il C. non si trovava più in Curia: il 1º marzo 1442 infatti Eugenio IV lo aveva nominato legato pontificio in Ungheria, Polonia, Boemia e Austria, con l'incarico di trovare una soluzione nel conflitto per la successione ungherese. Questo problema era strettamente legato ad un altro di bruciante attualità, il pericolo turco. Il C. lasciò Firenze, allora sede della Curia, il 14 marzo 1442, dopo aver ottenuto dal Collegio cardinalizio il consenso di partecipare alla suddivisione delle entrate anche durante l'assenza. Anche il papa e la casa Medici, la quale provvedeva alle transazioni finanziarie tra il legato e la Curia, si dimostrarono generosi. La prima tappa del suo viaggio fu anche questa volta Venezia, dove trovò accoglienza ospitale e l'assicurazione dell'appoggio veneziano alla sua impresa. Lasciò la città lagunare dopo il 26 apr. 1442 per recarsi a Vienna, è poi in Ungheria. A Vienna non trovò il nuovo re dei Romani Federico III, ma ebbe occasione di incontrarsi con Enea Silvio Piccolomini, allora ancora fervido sostenitore delle idee conciliari, che considerava il C. un traditore. La morte improvvisa della vedova di Alberto II, Elisabetta, il 19 dic. 1442, costrinse il C. nella primavera del 1443 a ritornare dall'Ungheria a Vienna, visto che Federico III avanzava pretese sul trono ungherese. Riuscì a negoziare tra quest'ultimo e re Ladislao una tregua che permetteva un'azione comune contro i Turchi. Già il 1º genn. 1443 Eugenio IV aveva indetto la crociata, ma la mobilitazione delle potenze cristiane procedeva con lentezza e dava poco affidamento. Nonostante questa situazione incerta fu decisa l'offensiva: l'armata crociata si mise in movimento il 9 giugno 1443, re Ladislao lasciò Buda il 22 luglio. Nell'ottobre l'esercito attraversò il Danubio presso Belgrado e il 3 novembre si venne ad una battaglia presso Nis (Nissa), nella quale Giovanni Hunyadi rimase vincitore. In seguito Ladislao tornò a Buda il 2 febbr. 1444. Tra il luglio e l'agosto 1444 lo Hunyadi negoziava la cosidetta pace di Segedino con i Turchi, alla quale però il C., pieno di zelo per la crociata, si oppose, riuscendo a convincere anche il re ad iniziare una nuova campagna contro gli Ottomani.
Il 10 nov. 1444 le truppe di Ladislao subirono, una catastrofica sconfitta presso, Varna, e il re stesso trovò la morte sul campo di battaglia. Da allora anche il C. non fu più visto.
Sulla sua fine esistono versioni diverse. Mentre qualcuno crede che egli sia morto eroicamente sul campo, altri - influenzati certamente dall'avversione del Piccolomini contro la politica filoiagellonica della Curia e del legato - propendono a pensare che sia stato ucciso dai soldati di Ladislao, dopo l'esito infelice della battaglia, come vendetta per la morte del loro re. La notizia, che ormai non c'era più speranza che egli tornasse giunse in Curia solo il 25 luglio 1445. Il giorno seguente furono celebrate in S. Pietro le esequie solenni; Poggio Bracciolini tenne l'orazione funebre.
Essendo nato in condizioni modeste, il C. conosceva bene l'indigenza degli studenti, che cercava di alleviare per quanto gli era possibile: così, per es., destinò le entrate della commenda di S. Biagio della Pagnotta al sostenimento di uno studente (Arch. Segr. Vat., Reg. Lat. 365, f. 294rv). Era in rapporti anche con gli ambienti umanistici. Giovanni Tortelli faceva parte della sua famiglia; Nicolò da Cusa gli dedicò il De docta ignorantia e il De coniecturis, Lapo da Castiglionchio la sua Vita Arati e la versione dal greco della Vita di Pelopida di Plutarco. Per ispirazione del C. Ambrogio Traversari tradusse le Vite di Gregorio di Nazianzo e di Giovanni Crisostomo e, incoraggiato da lui, pubblicò gli atti del concilio di Calcedonia. Leonardo Bruni dedicò al C. la sua edizione della Guerra gotica (cfr. le indicazioni in P. O. Kristeller, Iter Italicum, I-II, ad Indices).
Fonti e Bibl.: Una circostanziata elencaz. delle fonti e della bibl. relative al C. si può trovare in calce alla voce C. di R. Mols, in Dict. d'Hist. et de Géogr. Eccl., XII, Paris 1953, coll. 247 ss. Importanti sono D. Wilkins, Concilia Magnae Britanniae et Hiberniae, III, Londini 1737, pp. 480 ss.; I. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova, et amplissima collectio, XXIX, Venetiis 1788, coll. 382-85, 569 s., 580 s.; Poggii Florentini Oratio in funere ... Iuliani de Caesarinis ..., a cura di A. Mai, in Spicilegium Romanum, X, Romae 1844, pp. 374-84; Mon. conc. generalium seculi decimi quinti, I-IV, Vindobonae-Basileae 1857-1935, ad Indicem; J. Dlugosz, Historiae Polonicae, in Opera omnia, a cura di A. Przezdziecki, Cracoviae 1863-87, XIII, p. 686. Si può cfr. inoltre: Commissioni di Rinaldo degli Albizzi per il Comune di Firenze dal 1399 al 1433, a cura di C. Guasti, II, Firenze 1869, pp. 509, 596; Concilium Basiliense, I-VIII, Basel 1896-1936, ad Indicem; Die Chronik des Klosters Kaisheim verfasst vom Cistercienser Johann Knebel im Jahre 1531, a cura di F. Hüttner, Tübingen 1902, pp. 257, 264; R. Arnold, Repertorium Germanicum. Pontificat Eugens IV., I, Berlin 1897, ad Indicem; Nicolai de Cusa De docta ignorantia, in Opera omnia, I, Lipsiae 1932, pp. 1 s.; Concilium Florentinum. Documenta et Scriptores, 155, Romae 1950 ss.; K. A. Fink, Repertorium Germanicum, IV, 2, Berlin 1957, col. 2567; Vespasiano da Bisticci, Le Vite, a cura di A. Greco, I, Firenze 1970, pp. 137-58. Importanti risultano poi due dissertazioni: H. Fechner, G. C. (1398-1444). Bis zu seinerAnkfunt in Basel am 9. September 1431, Berlin 1907; e P. Becker, G. C., Münster 1935. Si vedano inoltre: N. C. Papadopolus, Historia Gymnasii Patavini, I, Venetiis 1726, pp. 214 s.; G. V. Marchesi Buonaccorsi, Antichità ed eccellenza del protonotariato apost. partecipante..., Faenza 1751, pp. 146-48; N. Ratti, Della fam. Sforza, II, Roma 1795, pp. 253 ss.; G. Andres, Catalogo de' codici manoscritti della fam. Capilupi di Mantova, Mantova 1797, pp. 35-38, 100-16; G. Voigt, Enea Silvio de' Piccolomini als Papst Pius der Zweite, und sein Zeitalter, I, Berlin 1856, pp. 49 ss., 212-17; E. Cecconi, Studi stor. sul concilio di Firenze, I, Firenze 1869, pp. 245 s., 468 s.; G. Müller, Documenti sulle relaz. delle città toscane coll'Oriente cristiano e coi Turchi, Firenze 1879, p. 172; G. Voigt, Il Risorgimento dell'antichità classica ovvero il primo secolo dell'Umanesimo, I, Firenze 1888, pp. 235, 249, 299; II, ibid. 1890, pp. 26, 31; G. Zannoni, Gli strambotti ined. del cod. Vat. Urb. 729, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, classe di sc. morali, storiche e filol., s. 5, I (1892), pp. 626-42; J.Haller, England und Rom unter Martin V., in Quellen und Forsch. aus italien. 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