Giudicato e revocazione
La Corte costituzionale ritiene non estensibile al di fuori del diritto penale il principio per cui sussiste l’obbligo del giudice interno di riaprire il processo dichiarato ingiusto dalla C. eur. dir. uomo, escludendo così che dalla pronuncia di tale Corte nasca un diritto ad esperire un rimedio processuale di tipo revocatorio nelle materie diverse da quella penale. La pronuncia è importante anche per non aver affermato che il giudicato nazionale è in linea di principio recessivo e cedevole rispetto alla pronuncia della corte sovranazionale che accerti la violazione di un diritto fondamentale dell’individuo, e in particolare del diritto al giusto processo, nelle materie diverse da quella penale; e per aver mantenuto fermo l’equilibrio tra l’esigenza di assicurare giustizia in senso sostanziale e quella di certezza del diritto, come attualmente assicurato dalla revocazione straordinaria.
Con la sentenza 26.5.2017, n. 123, la Corte costituzionale affronta per la terza volta la questione della mancata previsione della revocazione in caso di contrasto della sentenza del giudice nazionale con pronuncia di una corte di giustizia sovranazionale. Differentemente dal caso oggetto della pronuncia C. cost. 22.10.2014, n. 238, nel quale la norma interposta creata dall’interpretazione vincolante della Corte di giustizia internazionale finiva con il negare il diritto al giudice e l’introduzione del nuovo caso di revocazione risultava strumentale alla vanificazione dei giudicati che tale accesso avevano già garantito, nel caso deciso nel 2017 l’ampliamento delle ipotesi di revocazione (al contrasto della sentenza passata in giudicato con sentenza della C. eur. dir. uomo che abbia riconosciuto la violazione dell’art. 46 della Convenzione ad opera della sentenza del giudice nazionale) si è posto nella prospettiva di garantire l’effettività del diritto al giudice ai sensi dell’art. 46 della Convenzione. Nell’ottica di garantire il diritto al giudice o all’equo processo sempre ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, maggiore analogia sembrava quindi sussistere con il caso deciso da C. cost., 7.4.2011, n. 113 con pronuncia additiva che ha introdotto nell’ordinamento nazionale la possibilità di revisione del processo penale già definito con sentenza passata in giudicato in caso di contrasto con successiva pronuncia della corte di giustizia europea. Nel caso di specie, la C. cost. ha tuttavia ritenuto non incostituzionale la norma del processo amministrativo che tale possibilità non prevede.
Investita del ricorso per revocazione proposto per rimediare all’ingiustizia della sentenza dichiarata dalla C. eur. dir. uomo, con l’ord. Cons. St., A.P., 4.3.2015, n. 2, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità degli artt. 106 del c.p.a. (d.lgs. 2.7.2010, n. 104) e 395 e 396 c.p.c., in relazione agli artt. 117, co.1, 111 e 24 Cost., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo, rimettendo per la terza volta la questione all’attenzione della Corte costituzionale1.
Dopo aver ricordato che nei casi Mottola e Staibano (C. eur. dir. uomo, 4.2.2014 Mottola c. Italia e Staibano c. Italia) la C. eur. dir. uomo aveva accertato che il difetto di giurisdizione dichiarato con sentenza passato in giudicato dal giudice amministrativo (con riferimento ad una situazione giuridica non altrimenti tutelabile se non dal giudice amministrativo stesso) concretasse la violazione dell’art. 6 par 1 della Convenzione che vuole garantito il diritto di accesso al giudice, l’Adunanza plenaria sottolinea che, qualora non fosse ammissibile la revocazione del giudicato, l’ordinamento italiano non fornirebbe ai ricorrenti alcuna possibilità per veder rimediata la violazione dei diritti fondamentali dagli stessi subita, e che le norme processuali vigenti non contemplano tra i casi di revocazione quella che si renda necessaria per conformarsi ad una sentenza definitiva della C. eur. dir. uomo.
Il percorso motivazionale circa la non manifesta infondatezza non è particolarmente perspicuo e si può riassumere nella considerazione che le norme processuali nazionali che disciplinano i casi di revocazione delle sentenze del giudice amministrativo «si pongano in tensione» con l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento al parametro interposto dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, «non contemplando tra i casi di revocazione quella che si renda necessaria per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo»; e che l’assenza di un apposito rimedio volto a riaprire il processo giudicato iniquo dalla CEDU si pone in contrasto per le medesime ragioni anche con i princìpi sanciti dagli artt. 24 e 111 Cost., dal momento che «le garanzie di azionabilità delle posizioni soggettive e di equo processo previste dalla nostra Costituzione non sono inferiori a quelle espresse dalla CEDU». Come si è anticipato, con la sentenza n. 123/2017 la Corte cost. ha escluso l’incostituzionalità della norma, denunciata in ragione della mancata previsione del rimedio revocatorio in caso di contrasto di una sentenza passata in giudicato con successiva sentenza della C. eur. dir. uomo.
Se il rapporto tra le sentenze, quella del giudice amministrativo e le successive della C. eur. dir. uomo, dovesse essere spiegato in base ai principi che regolano il rapporto tra giudicato e jus superveniens non sorgerebbero particolari questioni. In linea di principio è pacifico che il giudicato resista allo jus superveniens non retroattivo e che rappresenti un sicuro limite anche alla retroattività propria delle leggi interpretative2. Con più specifico riferimento alla norme della CEDU sarebbe invece sufficiente osservare che, attraverso l’interpretazione della Convenzione, esse entrano nel nostro ordinamento come parametro interposto del giudizio di costituzionalità e che è pacifico che anche la retroattività delle sentenze della Corte costituzionale incontri nel giudicato il proprio limite3.
La violazione del principio del giusto processo, dichiarata dalla C. eur. dir. uomo4 con riferimento ad una sentenza del giudice nazionale passata in giudicato, ingenera tuttavia un conflitto tra l’obbligo dello Stato di osservare, a norma dell’art. 46 della CEDU, la pronuncia della C. eur. dir. uomo, cosa che imporrebbe di rimuovere gli effetti della decisione “ingiusta”, e l’impossibilità di rimuovere gli effetti della sentenza ritenuta ingiusta una volta che questa abbia acquisito il valore della cosa giudicata, poiché il passaggio in giudicato implica appunto che la sentenza diventi intoccabile e non più modificabile. Un problema del genere non è posto certamente adesso per la prima volta. Non è infrequente ed è nelle cose che, in un sistema di costituzionalismo multilivello qual è quello che vive soprattutto nell’ambito dello spazio comune europeo, pronunce delle corti sovranazionali dichiarino ingiuste sentenze del giudice nazionale ritenute lesive di diritti fondamentali5. Soprattutto nel caso delle pronunce della C. eur. dir. uomo, è fisiologico anche che si tratti di sentenze già passate in giudicato6, in quanto condizione di ricevibilità dei ricorsi è il previo esaurimento delle vie di ricorso nell’ordinamento nazionale; differentemente dalle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea che vengono rese su rinvio pregiudiziale dello stesso giudice nazionale, prima quindi di addivenire alla definitiva pronuncia di merito7.
Alla piena realizzazione o riparazione del diritto riconosciuto dalla pronuncia della C. eur. dir. uomo. si frappone dunque il valore di giudicato che sia stato acquisito dalla sentenza del giudice nazionale ritenuta “ingiusta”, sentenza che, stante il carattere dichiarativo della pronuncia della C. eur. dir. uomo, non viene rimossa da quest’ultima. Le pronunce della C. eur. dir. uomo non sono integrate nel sistema processuale nazionale come se fossero un quarto grado di giudizio e non rimuovono di per sé gli effetti lesivi derivanti dalla sentenza dichiarata ingiusta, ma fanno comunque sorgere l’obbligo di restitutio in integrum in capo allo Stato aderente alla Convenzione. In linea di principio, la CEDU prevede infatti che «se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa» (art. 41), fermo restando l’impegno delle Alte Parti contraenti «a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti» (art. 46). Le sentenze della C. eur. dir. uomo hanno dunque forza vincolante ed i singoli Stati sono tenuti ad osservare le sue pronunce; ma i singoli Stati conservano il potere di autodeterminarsi nella scelta delle modalità dell’osservanza, non essendo affatto esclusa l’ipotesi che la restitutio in integrum venga ritenuta impossibile nell’ordinamento interno e che venga pertanto surrogata da una ristorazione per equivalente8. Per tale ragione il Comitato dei ministri, che a norma del citato art. 46 è l’organismo deputato al controllo sull’esecuzione della sentenze, con Raccomandazione R(2000)2 del 19.1.2000 ha invitato gli Stati membri del Consiglio d’Europa a disciplinare in via generale, nell’ambito dei rispettivi ordinamenti nazionali, la riapertura dei processi ritenuti non equi dalla Corte europea.
L’istituto processuale comune all’esperienza dei diversi ordinamenti nazionali e naturalmente deputato a consentire la riapertura del processo come impugnazione straordinaria, rescindendo la sentenza anche se passata in giudicato, nei casi tipici e nominati espressamente previsti dal legislatore, è l’istituto della revocazione (o, in ambito penale, della revisione). Molti Stati aderenti alla Convenzione hanno espressamente incluso tra i motivi di revocazione quello del contrasto della pronuncia passata in giudicato con successiva pronuncia della C. eur. dir. uomo che abbia dichiarato la violazione dei principi fondamentali9. Laddove ciò non è avvenuto, Italia compresa, è rimasto irrisolto il conflitto tra le due anime del principio di effettività della tutela giurisdizionale; e cioè l’esigenza di giustizia sostanziale e il principio di certezza giuridica10. L’esigenza di giustizia sostanziale e il principio di certezza giuridica trovano infatti proprio nella revocazione il loro punto di equilibrio e di composizione nel momento in cui tale istituto stabilisce i casi, eccezionali, in cui l’esigenza di giustizia sostanziale può prevalere su quella di certezza giuridica rimettendo in discussione un accertamento giurisdizionale che si assumeva già definitivo. È evidente che l’assolutizzazione dell’esigenza di assicurare la giustezza della decisione nel singolo caso concreto comporta il rischio di rendere le liti perenni e che il giudicato rappresenta il limite che serve a porre fine alla ricerca della giustizia nel caso concreto ne lites fiant paene immortales. Si tratta di un limite che viene convenzionalmente stabilito dal legislatore e che quindi può essere diversamente determinato e variare nel tempo, ma è evidente che ogni spostamento comporta una ridefinizione dei confini e dell’equilibrio tra le due esigenze11, che non ha conseguenze puramente processuali ma ha riflessi di sistema sull’intero ordinamento. In assenza di un intervento del legislatore, è inevitabile che sia la Corte costituzionale ad essere investita della questione della mancata previsione del nuovo caso di revocazione, invocando le norme della CEDU come norme interposte del giudizio di costituzionalità.
Il fatto che l’Italia non abbia adottato, come auspicato dal Comitato dei ministri, una propria normativa volta a disciplinare in via generale la riapertura dei processi ritenuti non equi dalla Corte, ha fatto sì che la questione dell’ammissibilità a tal fine del rimedio revocatorio (o della revisione del processo penale) sia stata pertanto portata all’attenzione della Corte costituzionale per ben tre volte: una prima, con specifico riferimento al processo penale (C. cost., n. 113/2011); una seconda, con riferimento al processo civile (C. cost., n. 238/2014). La terza, con riferimento al processo amministrativo, è stata decisa con la sentenza 123/2017. Nella pronuncia n. 113/2011, resa con riferimento al processo penale, la Corte, ritiene fondata la questione di costituzionalità, sollevata in riferimento all’art. 117, co. 1, della Costituzione e all’art. 46 della CEDU, dell’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede la rinnovazione del processo allorché la sentenza o il decreto penale di condanna siano in contrasto con la sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbia accertato l’assenza di equità del processo, ai sensi dell’art. 6 della CEDU. Nella pronuncia n. 238/2014, resa con riferimento al processo civile, la Corte dichiara l’incostituzionalità dell’art. 3 della l. 14.1.2013, n. 5, che aveva introdotto la possibilità d’impugnare per revocazione le sentenze passate in giudicato per contrasto con la sentenza della Corte internazionale di giustizia che avesse affermato il difetto di giurisdizione del giudice civile12.
L’attesa per la nuova sentenza della Corte costituzionale era dunque giustificata dal fatto che avrebbe dovuto finalmente chiarire se l’evoluzione degli ordinamenti, allo stato attuale, sia tale da imporre l’introduzione nell’ordinamento nazionale di un principio di diritto processuale comune, secondo il quale deve essere garantita la possibilità di rimettere in discussione il giudicato già formatosi su una sentenza che la decisione della corte sovranazionale ritenga però emessa in violazione delle garanzie del giusto processo, in quanto diritto fondamentale dell’uomo.
Con la sentenza 123/2017 la Corte costituzionale, dopo aver dichiarato inammissibile per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza la questione sollevata con riferimento agli art. 24 e 111 Cost., ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 del d.lgs. n. 104/2010, e degli artt. 395 e 396 c.p.c., sollevata, in riferimento all’art. 117, co. 1, della Costituzione ed alla norma interposta dell’art. 46 CEDU.
La conclusione è raggiunta muovendo dalla considerazione che, nelle materie diverse da quella penale, in realtà non sussiste «un obbligo generale di adottare la misura rispristinatoria della riapertura del processo», e che i singoli Stati sono soltanto «incoraggiati a provvedere in tal senso», fermo appunto restando che è rimessa ad ogni singolo Stato la decisione di prevedere o meno come necessaria misura ripristinatoria la riapertura del processo. La Corte sottolinea che l’indicazione della obbligatorietà della riapertura del processo, quale misura atta a garantire la restitutio in integrum, è presente esclusivamente in sentenze rese nei confronti di Stati i cui ordinamenti interni già prevedono, in caso di violazione delle norme convenzionali, strumenti di revisione delle sentenze passate in giudicato; e che la della C. eur. dir. uomo ha costantemente affermato che in linea di principio non spetta ad essa indicare le misure atte a concretizzare la restitutio in integrum o le misure generali necessarie a porre fine alla violazione convenzionale, restando gli Stati liberi di scegliere i mezzi per l’adempimento di tale obbligo, purché compatibili con le conclusioni contenute nelle sue sentenze, e solo in taluni casi eccezionali ha ritenuto utile indicare il tipo di misure da adottare.
Sulla base di tali premesse la Corte evita di prendere esplicitamente posizione sul tema del giusto processo e si limita ad affermare che l’obbligo di conformazione alle sentenze della Corte avrebbe un «contenuto variabile» e che le misure ripristinatorie individuali diverse dall’indennizzo sarebbero solo eventuali ed adottabili esclusivamente laddove siano «necessarie» per dare esecuzione alle sentenze stesse; e giunge a concludere che il riesame del caso o la riapertura del processo, pur apparendo come le misure più appropriate nel caso di violazione delle norme convenzionali sul giusto processo, non rappresentano tuttavia un obbligo incondizionato per lo Stato tenuto ad eseguire la sentenza della C. eur. dir. uomo.
La Corte costituzionale ha dunque ritenuto di non estendere al di fuori della materia del diritto penale il principio per cui sussiste l’obbligo del giudice interno di riaprire il processo che sia stato dichiarato ingiusto dalla C. eur. dir. uomo, escludendo così che dalla pronuncia della Corte possa di per sé nascere un diritto ad esperire un rimedio processuale di tipo revocatorio nelle materie diverse da quella penale.
Sotto il profilo metodologico, la decisione appare sicuramente opinabile nel momento in cui procede dichiarando l’inammissibilità per difetto di motivazione della questione sollevata con riferimento agli art. 24 e 111 Cost., con la conseguenza di isolare la questione con riferimento esclusivamente all’art. 117 primo comma Cost. ed alla norma interposta recata dall’art. 46 par 1 della Convenzione. La motivazione dell’ordinanza di rimessione, infatti, identifica comunque chiaramente il thema decidendum (norma e disposizioni censurate) e non fa questione d’irragionevolezza della normativa censurata. Ben chiari sono anche i parametri rispetto ai quali è sollevato il dubbio di costituzionalità. L’intero contesto dell’atto rende poi evidente come la motivazione della non manifesta infondatezza fosse integrata da quella della stessa pronuncia della C. eur. dir. uomo, che di per sé già spiega perché nel caso a quo sussisterebbe la violazione del principio del giusto processo, ravvisata nel fatto che si è negato l’accesso al giudice; e la violazione del principio, codificato non solo nell’art. 6 CEDU ma anche negli articoli 24 e 111 Cost., avrebbe dovuto giustificare, secondo il remittente, la revocazione quanto e forse più della lettera dell’art. 46 della Convenzione.
Volendo, la non manifesta infondatezza poteva ritenersi sufficientemente motivata.
La lettura dell’ordinanza di rimessione, peraltro, rivela pianamente come, rigo più, rigo meno, le questioni fossero motivate sulla base di una trama motivazionale sostanzialmente comune e ciò avrebbe dovuto a rigore comportare, una volta ritenuta l’insufficienza della motivazione, la dichiarazione d’inammissibilità delle questioni sollevate tanto con riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., quanto agli art. 117 Cost. e 46 CEDU (simul stabunt, simul cadent). È dunque evidente che la scomposizione della decisione tra inammissibilità e infondatezza è servita “tecnicamente” ad agevolare la conclusione in punto d’infondatezza della questione.
Al di là delle perplessità che possono nutrirsi sotto il profilo formale e metodologico, la decisione è comunque importante per le sue implicazioni.
L’importanza della pronuncia risiede innanzi tutto nel fatto di non aver affermato che il giudicato nazionale è in linea di principio recessivo e cedevole rispetto alla pronuncia della corte sovranazionale che accerti la violazione di un diritto fondamentale dell’individuo, e in particolare del diritto al giusto processo, nelle materie diverse da quella penale.
Sotto il profilo della disciplina processuale, l’accoglimento della questione di costituzionalità avrebbe comportato una pronuncia additiva che avrebbe riscritto le disposizioni in tema di revocazione, introducendo il nuovo caso della revocazione per contrasto con successiva pronuncia della C. eur. dir. uomo che abbia accertato la violazione del diritto fondamentale al giusto processo da parte delle sentenza del giudice nazionale, anche se passata in giudicato. L’ipotesi di revocazione di sentenza passata in giudicato per contrasto con successiva sentenza della corte sovranazionale che abbia riconosciuto la violazione del diritto al giudice o all’equo processo non è infatti riconducibile nei casi di revocazione ordinaria, né in quelli di revocazione straordinaria. Il contrasto con sentenza passata in giudicato è espressamente contemplato tra i vizi di revocazione ordinaria, ma suppone che il giudicato si sia formato anteriormente alla sentenza; così come il secondo caso di revocazione ordinaria consente l’impugnativa per errore di fatto e non di diritto, ed è tipicamente di diritto la questione sul diniego della giurisdizione. I motivi di revocazione straordinaria, dal canto loro, attribuiscono rilevanza ad un fatto sopravvenuto solo se questo è in grado di provare che il giudizio di diritto si è formato con riferimento ad una rappresentazione dei fatti falsata o in presenza del fattore inquinante del dolo di una delle parti del processo (giudice compreso), mentre nel nuovo caso il fatto nuovo non viene soltanto scoperto ma viene a maturare esso stesso successivamente al passaggio in giudicato della sentenza. Il carattere tassativo dell’enumerazione recata dall’art. 395 c.p.c. rendeva quindi impossibile l’interpretazione conforme e necessaria la pronuncia additiva della Corte costituzionale (in mancanza di una esplicito intervento del legislatore) per dare ingresso alla nuova ipotesi di revocazione nel nostro ordinamento. Ciò non è avvenuto, e i casi di revocazione sono pertanto rimasti quelli espressamente previsti dal legislatore.
Ciò che più conta sottolineare, però, è che l’introduzione del nuovo caso di revocazione nei termini suddetti avrebbe avuto importanti conseguenze sull’intero sistema di tutela di tutela delle situazioni soggettive ovvero dell’ordinamento generale. Come si è già sottolineato, la revocazione è infatti l’istituto che garantisce l’equilibrio raggiunto dal sistema nel difficile e delicato rapporto tra l’esigenza di assicurare giustizia sostanziale e quella di garantire, attraverso la cosa giudicata, la certezza del diritto. L’impugnazione viene qualificata straordinaria perché consente di riaprire il giudizio di merito anche se la sentenza è passata in giudicato, ma ciò viene appunto eccezionalmente consentito se ed in quanto l’ingiustizia della sentenza venga dedotta non per un supposto errore di diritto, ma per la scoperta di fatti di per sé tali da produrre un effetto rescindente della sentenza (dolo delle parti o del giudice; falsità delle prove; ritrovamento di documenti) e da condurre ad una diversa formulazione del conseguente giudizio di diritto. Consentire la revocazione della sentenza passata in giudicato per un supposto errore di diritto minerebbe alla radice l’istituto della cosa giudicata, inficiando al tempo stesso l’effettività della tutela sostanziale che rimarrebbe pur sempre opinabile e precaria. L’importanza della decisione si coglie dunque nel fatto di aver mantenuto fermo il punto di equilibrio tra l’esigenza di assicurare giustizia in senso sostanziale e quella di certezza del diritto, come attualmente assicurato nell’ordinamento nazionale dalla disciplina della revocazione straordinaria. Collocata nell’ambito dello scenario europeo o più in generale del diritto pattizio internazionale, la tutela dei diritti fondamentali si rivela infatti insofferente rispetto ai limiti che possono derivare dal diritto positivo dei singoli ordinamenti, poiché privilegia la logica tipica della common law della decisione case by case, e tende ad accentuare il momento della garanzia della giustezza intrinseca della decisione, distinguendolo dalla garanzia del giusto processo in quanto tale. Ciò è sicuramente più funzionale alla costruzione di un sistema giuridico di tutela multilivello dei diritti fondamentali rimessa al dialogo tra le diverse corti, ma tende appunto a dequotare il valore degli istituti tradizionali deputati nel diritto dei singoli Stati ad assicurare la certezza del diritto. Ampliare i margini dell’apprezzamento secondo equità della giustizia del singolo caso, implica inevitabilmente che ciò avvenga a discapito della necessità di assicurare la giustizia secondo le regole predeterminate dal diritto positivo13. La Corte ha ritenuto di mantenere fermi i confini tra le due esigenze, come attualmente definiti dalla disciplina della revocazione straordinaria, evitandone lo spostamento a tutto vantaggio dell’esigenza di giustizia sostanziale in nome del primato del diritto europeo o derivante dalle fonti pattizie internazionali.
Se l’importanza della sentenza n. 123/2017 si coglie innanzi tutto per quello che non ha fatto (non avere introdotto nell’ordinamento il nuovo caso di revocazione straordinaria per errore di diritto, conservando l’equilibrio esistente tra l’esigenza che venga assicurata giustizia sostanziale e al tempo stesso la certezza del diritto) è perché la dichiarazione d’infondatezza della questione era in realtà tutt’altro che scontata. I già ricordati precedenti C. cost., n. 113/2011 e C. cost., n. 238/2014 potevano lasciar presagire una sentenza additiva dichiarativa della incostituzionalità nel momento in cui la questione risultava impostata in termini volti ad accrescere e non a comprimere l’effettività della tutela giurisdizionale; ed è un dato di fatto che in ambito sovranazionale sia ampiamente diffuso l’orientamento incline ad affermare la cedevolezza del giudicato rispetto alle pronunce dalla Corte di giustizia europea14, nonostante queste, differentemente da quelle CEDU, vengano solitamente rese in via pregiudiziale e quindi prim’ancora che si formi la decisione del giudice nazionale passibile di acquisire l’autorità del giudicato.
La motivazione della sentenza, scomponendosi tra inammissibilità e infondatezza, ha evitato di impiegare la teoria dei controlimiti15 per impedire che la norma pattizia internazionale potesse fungere da parametro del giudizio di costituzionalità. In tal modo, così come ha evitato di affermare che l’esigenza di assicurare la giustizia sostanziale nel caso concreto debba prevalere rispetto al valore della certezza giuridica garantita dalla cosa giudicato, ha evitato anche di dover affermare il contrario, e cioè che la certezza del diritto e l’effettività della tutela giurisdizionale, per come garantiti dal giudicato, siano da annoverare tra i principi fondamentali della Costituzione in grado di poter appunto operare come controlimiti.
Evitando di prendere espressamente posizione in uno dei due sensi, la Corte in tal modo non esclude la possibilità che il conflitto possa esser composto dal legislatore. Anzi, la Corte afferma esplicitamente che è il legislatore che deve intervenire a trovare la giusta composizione del conflitto: «Anche nel nostro ordinamento la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell’art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore». La ratio decidendi della pronuncia della Corte cost. è resa evidente dall’esplicito insistito richiamo fatto alla decisione della C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 5 febbraio 2015, Bochan c. Ucraina: «Quest’ultima, dopo avere riportato i dati di uno studio comparativo sullo stato della legislazione degli Stati contraenti (paragrafi 26 e 27), osserva che non vi è un approccio uniforme sulla possibilità di riaprire i processi civili in seguito a una sentenza della CEDU che abbia accertato violazioni convenzionali (paragrafo 57). La sentenza, poi, pur incoraggiando gli Stati contraenti all’adozione delle misure necessarie per garantire la riapertura del processo, afferma che è rimesso agli Stati medesimi la scelta di come meglio conformarsi alle pronunce della Corte, «senza indebitamente stravolgere i princìpi della res iudicata o la certezza del diritto nel contenzioso civile, in particolare quando tale contenzioso riguarda terzi con i propri legittimi interessi da tutelare» (paragrafo 57). 13.Questo passaggio della motivazione è di particolare rilievo, ai fini della risoluzione dell’odierna questione di costituzionalità, perché, nel perimetrare l’obbligo di conformazione discendente dall’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, individua nella tutela dei soggetti diversi dallo Stato che hanno preso parte al giudizio interno la principale differenza fra i processi penali e quelli civili, differenza che riguarda pure quelli amministrativi, anch’essi caratterizzati dalla frequente partecipazione al giudizio di amministrazioni diverse dallo Stato, di parti resistenti private affidatarie di un munus pubblico e di controinteressati. È la tutela di costoro, unita al rispetto nei loro confronti della certezza del diritto garantita dalla res iudicata (oltre al fatto che nei processi civili e amministrativi non è in gioco la libertà personale), a spiegare l’atteggiamento più cauto della CEDU al di fuori della materia penale».
Da ciò la già ricordata conclusione che, nelle materie diverse da quella penale, non sussisterebbe un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, e che la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso con la dovuta attenzione per i vari e confliggenti interessi in gioco16.
Dunque, nessuna scelta di principio sulla prevalenza dell’esigenza di giustizia sostanziale rispetto a quella di certezza del diritto o viceversa. Nessun riposizionamento dei confini tra le due suddette esigenze per come attualmente fissati dall’istituto della revocazione. La decisione d’infondatezza riposa in ultima analisi sulla considerazione che le sentenze della C. eur. dir. uomo non sono passibili di esecuzione in senso stretto, ma piuttosto di ottemperanza, come sarebbe più corretto dire adottando la terminologia propria dei casi in cui l’attuazione della pronuncia passa necessariamente attraverso la spendita di poteri pubblicistici che possono presentare margini più o meno ampi di scelta sulla modalità di conformazione al decisum17.
La scelta delle modalità di conformazione alla decisione della C. eur. dir. uomo che abbia dichiarata ingiusta una sentenza passata in giudicato è rimessa al prudente apprezzamento del legislatore e, in mancanza di una scelta che venga da quest’ultimo compiuta, nelle materie diverse da quella penale, rimane fermo il valore della cosa giudicata anche nei confronti della pronuncia della Corte poiché è sempre comunque garantita la possibilità di fruire di una tutela per equivalente nei casi in cui lo Stato rifiuti di conformarsi alla decisione della C. eur. dir. uomo. Come infatti si è già ricordato, fermo l’obbligo degli Stati di «conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti» contemplato dall’art. 46 della CEDU, è altresì previsto dall’art. 41 della Convenzione medesima che «se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa».
Tra inammissibilità e infondatezza della questione sollevata, la Corte costituzionale ha evitato di introdurre nel nostro ordinamento il nuovo caso di revocazione per contrasto della sentenza passata in giudicato con pronuncia della C. eur. dir. uomo che l’abbia dichiarata assunta in violazione dei principi fondamentali del giusto processo; ritenendo che, se del caso, il riposizionamento, nell’ambito del principio di effettività, dei confini tra l’esigenza di giustizia sostanziale e quella di certezza del diritto, per come attualmente definiti dall’istituto della revocazione (straordinaria), debba essere operato dal legislatore.
Questo può significare che, in teoria, la decisione sia stata soltanto rinviata.
Sul problema della possibile impugnazione della sentenza del giudice amministrativo di ultima istanza per contrasto con la pronuncia della C. eur. dir. uomo che abbia dichiarato la violazione del principio fondamentale del giusto processo, la parola fine non può essere però ancora scritta non solo perché la decisione definitiva risulta in realtà rimessa alla volontà del legislatore, ma anche perché analoga questione è stata sollevata dalla Corte di Cassazione con riferimento all’impugnazione per motivi di giurisdizione.
Sempre con riferimento all’esecuzione delle sentenze della C. eur. dir. uomo, Mottola e Staibano, in alcuni casi si è infatti verificato che fossero ancora pendenti i termini per l’impugnativa della decisione del Consiglio di Stato in Cassazione, e la decisione, sempre in quanto contrastante con le pronunce della Corte europea, è stata impugnata ponendo la questione in termini di rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo. Con ordinanza 8.4.2016, n. 6891, le Sezioni Unite hanno pertanto rimesso anch’esse alla Corte costituzionale la questione se l’ingiustizia della sentenza, per contrasto con successiva sentenza della C. eur. dir. uomo che abbia riconosciuto la violazione del diritto al giudice, possa essere dedotta come motivo di giurisdizione, sub specie di rifiuto di giurisdizione, ai sensi dell’art. 111 Cost.18 .
Si rimane pertanto in attesa della prossima sentenza della Corte costituzionale per sapere se la violazione del principio del giusto processo dichiarata dalla C. eur. dir. uomo, che allo stato non può essere dedotta come motivo di revocazione della sentenza passata in giudicato, possa giustificare l’impugnativa innanzi alle Sezioni Unite, per rifiuto di giurisdizione, della sentenza non ancora passata in giudicato.
1 L’ordinanza n. 2/2015 è commentata da Francario F., Revocazione per contrasto con pronuncia di corte di giustizia, in Libro dell’anno del diritto Treccani 2016, Roma, 2016, 745 ss.; Vitale, S.L., Revocazione del giudicato civile e amministrativo per violazione della CEDU? Il Consiglio di Stato porta la questione alla Corte costituzionale, in Corr. giur., 2015, 1249 ss.; Carbone, A., Rapporti tra ordinamenti e rilevanza della CEDU nel diritto amministrativo (a margine del problema dell’intangibilità del giudicato), in Dir. proc. amm., 2016, 531 ss.
2 Il tema è trattato diffusamente da Caponi, R., Corti europee e giudicati nazionali, in Atti del XXVII Congresso nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, “Corti europee e giudici nazionali”, Verona, 2526 settembre 209, Bologna, 2011. Sul tema più in generale della resistenza del giudicato alle sopravvenienze retroattive sia consentito rinviare a Francario, F., Osservazioni in tema di giudicato e legge interpretativa, in Dir. proc. amm., 1995, 277 ss.
3 Al riguardo v. Corea, U., Il giudicato come limite alle sentenze della Corte costituzionale e delle Corti europee, in Judicium.it, 1/2017.
4 Per un inquadramento della problematica del giusto processo nei suoi profili generali v. da ultimo Sinisi, M., Il giusto processo amministrativo tra esigenze di celerità e garanzie di effettività della tutela, Torino, 2017, 15 ss. ed ivi ulteriori riferimenti a dottrina e giurisprudenza sul tema.
5 Cfr. Bilancia, P.De Marco, E., a cura di, La tutela multilivello dei diritti. Punti di crisi, problemi aperti, momenti di stabilizzazione, Milano, 2004; Zanon, N., a cura di, Le corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, Napoli, 2006; D’Atena, A.Grossi, P., a cura di, Tutela dei diritti fondamentali e costituzionalismo multilivello, Milano, 2004; Cardone, A., Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), in Enc. dir., Annali, IV, 2011; Malfatti, E., I livelli di tutela dei diritti fondamentali nella dimensione europea, Torino, 2015.
6 Cfr. Vitale, S.L., Violazione della CEDU e principio di intangibilità del giudicato civile e amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015, 1269 ss.
7 Per tutti v. Romboli, R., Corte di giustizia e giudici nazionali: il rinvio pregiudiziale come strumento di dialogo, in Rivista AIC, 2014, 3 e Briguglio, A.R., Pregiudizialità comunitaria, in Enc. Giur. Treccani, XXIII, Roma, 1997.
8 Cfr.: C. eur. dir. uomo, 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta c. Italia; Id., 29 marzo 2006, Scordino c. Italia; in dottrina, ex multis, v. Pirrone, P., L’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2004 nonché Raimondi, S., L’obbligo degli Stati di adeguarsi alle sentenze definitive della Corte europea dei diritti umani negli affari nei quali essi sono parti: l’art 46 , comma 1, della CEDU, in La Corte europea dei diritti umani e l’esecuzione delle sue sentenze (Atti del convegno internazionale, Roma, 67 giugno 2002), Napoli, 2003, 44 ss.
9 Per la ricognizione v. Elefante, F., La responsabilità dello Stato e dei giudici da attività giurisdizionale. Profili costituzionali, Napoli, 2016, 302-303.
10 Luciani, M., Garanzie ed efficienza nella tutela giurisdizionale, in Rivista AIC, 2014, 4, 27 ss., sottolinea come «la matrice illuministica e la relativa rigidità dei princìpi di certezza e di affidamento li rendono inidonei ad assicurare la giustizia del caso singolo e ad essere in armonia con la realtà di una società pluralistica in continuo mutamento».
11 Valaguzza, S., Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, 2016, 35 ss.; Colesanti, V., La revocazione è diventata un istituto inutile?, in Riv. dir. proc., 2014, 26 ss.; Mari, G., Giudice amministrativo ed effettività della tutela. L’evoluzione del rapporto tra cognizione e ottemperanza, Napoli, 2013, 40 ss.
12 Per una più analitica considerazione delle precedenti pronunce della Corte costituzionale e per più ampi rilievi sul tema si rinvia a Francario, F., La violazione del principio del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di revocazione della sentenza, in federalismi.it, 13/2017.
13 Criticamente v. Luciani, M., Interpretazione conforme a costituzione, in Enc. dir., Annali, IX, 2016.
14 Nonostante il giudicato sarebbe di per sé «protetto dal rinvio pregiudiziale» (così Valaguzza, S., Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, 2016, 49), la problematica riesce ugualmente a delinearsi «per effetto dell’enfatizzazione dell’effetto esterno del giudicato» (così Cacciavillani, C., La cosa giudicata, in Francario, F.Sandulli, M.A., a cura di, Profili oggettitivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017, 158 ss.). Il principio viene affermato negli ormai classici casi Kuhne & Heitz, Lucchini e Olimpiclub e, più di recente, anche nel caso Klausner Holtz.
15 La formulazione originaria risale a Barile, P., Il cammino comunitario della Corte, in Giur cost., 1973, 2417 ss. Più di recente per tutti v. Silvestri, G., Sovranità vs diritti fondamentali, in Questione giustizia, 2015, 60 ss.; Luciani, M., Un brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, in Rivista AIC, 2016, 2, 7 ss.; Mastroianni, M., La corte costituzionale si rivolge alla Corte di giustizia in tema di “controlimiti” costituzionali: è vero dialogo?, in federalismi.it, 7/2017.
16 Conclusione che si accompagna all’invito fatto alla C. eur. dir. uomo, nella prospettiva del dialogo tra le Corti, di garantire «l’adeguato coinvolgimento dei terzi nel processo convenzionale. È noto, infatti, che quest’ultimo vede come parti necessarie il ricorrente e lo Stato autore della violazione, mentre l’intervento degli altri soggetti che hanno preso parte al giudizio interno – cui peraltro il ricorso non deve essere notificato – è rimesso, ai sensi dell’art. 36, paragrafo 2, della CEDU, alla valutazione discrezionale del Presidente della Corte, il quale «può invitare» «ogni persona interessata diversa dal ricorrente a presentare osservazioni per iscritto o a partecipare alle udienze». Non vi è dubbio, allora, che una sistematica apertura del processo convenzionale ai terzi – per mutamento delle fonti convenzionali o in forza di una loro interpretazione adeguatrice da parte della CEDU – renderebbe più agevole l’opera del legislatore nazionale».
17 Cfr. Sandulli, A.M., Consistenza ed estensione dell’obbligo delle autorità amministrative di conformarsi ai giudicati, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, ripubbl. in Scritti giuridici, Napoli, 1960, V, 468 ss. Il dato è sottolineato già da Greco, G., La convezione europea dei diritti dell’uomo e il diritto amministrativo in Italia, in Riv it dir pubbl com., 2000, 30.
18 Amplius v. Francario, F., Il sindacato della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione, in Treccani Libro dell’Anno del Diritto 2017, Roma, 2017.