GISULFO (Gisolfo, Gisulfus, Gisulphus)
Principe di Salerno, primo di questo nome, nacque da Guaimario (II) e da Gaitelgrima verso il maggio del 930, mentre il padre era impegnato, al fianco di Landolfo principe di Benevento, nella guerra contro i Bizantini. Non è a lui, probabilmente, che si riferisce l'autore del Chronicon Salernitanum quando ricorda un figlio di Guaimario tenuto a battesimo dallo stratega bizantino Atanasio (p. 166, cap. 158; sembra non escludere l'identificazione Taviani Carozzi, 1991, p. 367). Tra aprile e maggio del 933, all'età di soli tre anni, G. fu associato al trono e nel gennaio del 945 compare con Guaimario (II) in un documento di concessione di una terra in Forino ad alcuni uomini dell'entroterra salernitano. Il padre morì il 4 giugno 946 (non 942 come, sulla base del Necrologio di S. Benedetto di Capua: Di Meo, Annali, V, pp. 277 s.) e G., appena sedicenne, restò solo al governo del Principato, ma fino al 952 sotto la tutela di Prisco, conte e tesoriere del Palazzo, sempre affiancato dalla madre Gaitelgrima.
Non appena giunto al potere, G. dovette subito sventare una trama ordita ai suoi danni dal cognato Atenolfo, che fu espulso dalla città. Un ben più grave pericolo rappresentò invece Landolfo (II) di Benevento, il quale, alleatosi con Giovanni (III) duca di Napoli, mosse alla conquista di Salerno. G. ebbe in questa circostanza il soccorso delle milizie amalfitane del duca Mastalo, insieme con le quali sbarrò il passo a Landolfo lungo la via Nocerina nei pressi di un "fiumicello" da identificare probabilmente con il torrente Boneia nella Valle Metelliana (Carraturo, p. 426), costringendolo a rinunciare alle sue mire espansionistiche. Da questo momento l'atteggiamento del principe di Benevento mutò radicalmente: un repentino cambio di alleanze trasformò G. nell'alleato più fidato (ma in una posizione forse di dipendenza: Delogu, p. 264), ai danni tanto dei precedenti alleati napoletani, quanto dei Bizantini, contro i quali Landolfo alimentava una sommossa in Puglia.
In questo periodo G. fu chiamato dai Beneventani in aiuto dell'abate di Montecassino, Aligerno, perché i possedimenti dell'abbazia erano seriamente minacciati dal gastaldo d'Aquino Atenolfo. Egli accorse a Capua e di lì ad Aquino, che cedette alle armi salernitane.
Nel frattempo, mostrando doti non comuni di destrezza politica, riusciva a mantenere il Principato al di fuori della lotta che si andava riaccendendo nell'Italia meridionale tra la Chiesa e i due Imperi. A differenza di Landolfo, infatti, egli rifiutò ogni forma di sottomissione all'autorità bizantina, almeno fino a che la minaccia greca non divenne troppo vicina con lo sbarco in Italia del nuovo stratega Mariano Argiro. Assunse allora per breve tempo, nel maggio del 956, il titolo di patrizio imperiale che era stato del padre, ma lo abbandonò quasi subito, di certo prima del gennaio successivo.
Anche nei confronti del papa e dell'imperatore germanico riuscì a mantenere una posizione di prudente equidistanza e di difficile equilibrio che solo la politica egemonica del nuovo principe di Benevento Pandolfo Capodiferro avrebbe minato. Così, quando il pontefice Giovanni XII, dopo la morte di Landolfo (II), nel 961 tentò d'impadronirsi della città di Capua, G. intervenne in difesa di essa. Ottenne in tal modo che fosse il papa a cercare la sua alleanza: in una data imprecisata, ma certamente poco dopo questi avvenimenti, egli si recò a Terracina. Qui s'incontrò con il pontefice e stipulò con lui un trattato di cui non conosciamo i termini, ma che forse non escludeva un appoggio alla politica romana di riacquisizione territoriale ai danni dei Bizantini, per esempio nel territorio di Gaeta.
In questo periodo, su richiesta della madre, G., gravemente ammalato, acconsentì al rientro in Salerno dello zio Landolfo di Capua insieme con i suoi figli (nel 964 secondo Di Meo, Annali, VI, pp. 24 s., che colloca però la malattia nel 937: V, p. 268; i due dati sono invece tra loro contemporanei per Schipa, p. 165); non solo, ma a essi donò la contea di Conza, il castello di Laurino, nonché Sarno e Marsico, destando insieme la loro funesta ambizione e la gelosia di non pochi fra i Salernitani.
Una nuova situazione si venne a creare in seguito alla discesa di Ottone I nell'Italia meridionale. Nel tentativo di mantenere un certo margine di autonomia - a differenza di Pandolfo Capodiferro, che aveva ospitato l'imperatore nel 968 -, G. non si schierò subito al suo fianco, ma ottenne che fosse Ottone a chiedergli un incontro, che avvenne a Capua con vicendevole scambio di doni e l'impegno salernitano ad appoggiare la campagna imperiale contro i Bizantini.
La partecipazione di G. all'impresa fu in realtà piuttosto blanda e l'esercito, da lui inviato in Puglia agli ordini del gastaldo salernitano Landone, rientrò a Salerno non appena appresa la notizia della vittoria, a Bovino, del patrizio di Bari, Eugenio, sul Capodiferro (che fu condotto prigioniero a Costantinopoli). A Salerno G. accolse amichevolmente per alcuni giorni lo stesso Eugenio, il quale inutilmente aveva posto nel frattempo l'assedio alla città di Capua. Intanto, sempre in funzione antitedesca (ma insieme di equidistanza da entrambi i poteri imperiali), G. riannodava i legami con Napoli, concedendo benefici al duca Marino e ricevendone in cambio il giuramento di fedeltà.
Salito però sul trono imperiale di Bisanzio Giovanni Zimisce nel 969, nel 970 Pandolfo fu liberato e poté tornare in Italia. Subito si volse contro G. per punirlo del recente tradimento e si diresse quindi contro Salerno. Esattamente come quindici anni prima, G. riuscì a fermare l'esercito beneventano nelle strettoie di Cava e a volgere in futura alleanza una delle crisi più forti che si verificarono durante il suo principato.
Nulla poté invece contro la congiura che Landolfo (ora conte di Conza) e i suoi figli ordirono contro di lui nel 973 per sostituirgli sul trono uno dei suoi cugini, Indolfo di Sarno. Questa volta Napoletani e Amalfitani si allearono con i rivoltosi: G. e la moglie Gemma, dei quali in città era stata annunciata la morte, furono segretamente condotti ad Amalfi e Landolfo prese il potere, associandosi, dai primi giorni del 974, il figlio Landenolfo conte di Laurino. Ma la nuova situazione non durò a lungo: alcuni salernitani che erano stati tra i cospiratori, in particolare tali Riso e Romualdo, scontenti dei nuovi principi e venuti a conoscenza che G. e Gemma erano ancora vivi, nel maggio del 974, con l'appoggio del Capodiferro, costrinsero il duca d'Amalfi Mansone a liberare i legittimi sovrani. A giugno i due principi rientrarono in Salerno.
È forse legata a questo rientro la donazione che G. fece, lo stesso mese, ai conti Guaimario e Guaiferio suoi nipoti, di alcuni beni oltre il fiume Tusciano, in ricompensa dei servizi da essi prestati (Cod. dipl. Cavensis, II, pp. 209 s., 212 s.; due inserti di analogo tenore nel n. CCCLXVIII, pp. 207-213). Ora però Pandolfo, con l'imposizione di adottare il proprio omonimo figlio, pose definitivamente il trono di G. sotto l'egemonia beneventano-capuana (la prima menzione di "Pandolfus optatus" sarebbe - secondo Taviani Carozzi, 1991, p. 329 -, in un documento dell'agosto del 974: Cod. dipl. Cavensis, I, p. 84 n. CCLXXXIV, ma in realtà essa è presente già nel citato documento di giugno; purtroppo non è datata la memoria che, proprio dell'atto di adozione, è fatta in un documento del maggio 981, ibid., II, pp. 210 s., inserto a sua volta nel n. CCCLXVIII).
G. regnò ancora per poco più di tre anni: morì alla fine del 977, probabilmente tra novembre e dicembre.
Gran parte di quel che conosciamo della vita di G. è narrato dall'autore del Chronicon Salernitanum, rimasto anonimo fino in tempi recenti, quando ne è stata proposta l'identificazione con il monaco cassinese Radoaldo, abate del monastero di S. Benedetto di Salerno (Taviani Carozzi, 1991, p. 81). Si è molto discusso sul valore storico da attribuire alla sua narrazione: accanto a chi ne evidenzia il carattere letterario prestando poco credito alla sua effettiva veridicità (Oldoni), altri, pur con diverse sfumature, ne valorizzano invece maggiormente i contenuti. Per l'autore del Chronicon, che scrisse poco dopo la morte di G. ma riallacciandosi alla tradizione longobarda che faceva capo a Paolo Diacono, G. fu un buon sovrano poiché ebbe quelle virtù belliche che rappresentavano le più alte qualità del principe e soprattutto perché seppe tenere unito il Principato, al punto che, al momento del maggiore splendore, "regnum Grecorum, Agarenorum, Francorum, Saxonumque ei obediebant" (p. 171, cap. 167). Perciò G. è collocato in una linea che, attraverso il padre Guaimario (II), lo lega direttamente ad Arechi (dunque all'età dell'oro della fondazione del Principato di Benevento) e, parimenti, gli è riconosciuto il titolo di "eminentissimus princeps" (Taviani Carozzi, 1991, pp. 76 s.). Perfino il confronto con la dinastia imperiale di Ottone I viene risolto dal Chronicon con la presunta parentela di G. con la moglie di Ottone, l'imperatrice Adelaide, che, in occasione dell'incontro capuano del 968, lo apostrofa con le parole: "confrater meus Gisulfe, quare non venisti tuamque sororem non requisisti?" (pp. 172 s., cap. 169). L'affermazione di un legame di tal genere, visibilmente impossibile, si giustifica ancora una volta alla luce del mito longobardo che si rifà ad Arechi, il cui matrimonio con Adelperga, figlia del re Desiderio e sorella di Ermengarda sposa di Carlomagno, legava i regnanti longobardi alla dinastia imperiale dei Franchi. Di là dal ritratto volutamente eroico che di lui tratteggia il Chronicon (il quale deliberatamente interrompe la narrazione subito prima della rivolta di Landolfo di Conza), G. si dimostrò un sovrano diplomatico, accorto e religioso. Evitò in ogni modo i conflitti con le potenze circostanti, con le quali mirò a instaurare un rapporto che non fosse mai di sudditanza; tentò anzi di rafforzare l'immagine della propria sovranità attraverso l'imitazione delle forme del potere imperiale, per esempio nelle pratiche di cancelleria, dove per la prima volta sotto di lui vennero introdotti particolari caratteri di solennità che si rifacevano espressamente ai diplomi imperiali. Ricercò poi l'alleanza in particolare di Amalfitani e Greci - nel gennaio del 959 "concessit Grecis et Siculis terra extra Salernum" nei pressi di Vietri sul mare (Carraturo, pp. 221 s.; Cherubini, p. 19) - ed effettuò consistenti donazioni alle Chiese di Salerno e Benevento e al monastero di Montecassino; nel 954, infine, dispose il trasporto a Salerno del corpo di s. Matteo, da poco rinvenuto ai confini della Lucania, e la sua collocazione nella chiesa cattedrale di S. Maria, che prese perciò il nome di Ss. Maria e Matteo.
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