GISULFO
Duca longobardo di Benevento, primo di questo nome, figlio di Romualdo (I), duca di Benevento, e di Teoderada figlia di Lupo, ribelle duca del Friuli. Alla morte di Romualdo, nel 687, gli succedette Grimoaldo (II), fratello di G., che tuttavia morì dopo un brevissimo periodo di governo. Nel 689, dunque, G. pervenne al potere probabilmente in giovanissima età. Non ci restano particolari che chiariscano nei dettagli l'assunzione al potere da parte di G.: secondo una fonte quasi certamente non sospetta e solitamente accolta dalla storiografia, la Vita et translatio s. Sabini, G., proprio in quanto parvus filius, nei primi tempi sarebbe stato affiancato nelle responsabilità di governo ducale (e taluni sostengono per anni) dalla madre Teoderada, da poco vedova e profondamente cattolica.
Al momento dell'insediamento sul trono beneventano, la situazione politica interna ed esterna al Ducato era quanto mai fluida. La campagna militare condotta non molti anni prima dall'imperatore bizantino Costante II, che tanto aveva inciso sulle questioni politiche e sulle vicende della società longobarda meridionale, benché terminata ai tempi del padre di G., aveva lasciato strascichi di rilievo. Aveva infatti rafforzato i già profondi legami tra la dinastia beneventana e quella friulana: ne è una prova il matrimonio dei genitori di G., appartenenti a quelle stirpi ducali. Aveva fatto emergere l'intraprendenza e, in qualche caso, l'autonomia di quel funzionariato aristocratico minore, individuabile particolarmente nella fascia intermedia dell'aristocrazia longobarda, specie del Centro e del Sud. Soprattutto gastaldi e figure comitali, infatti, insieme con uno stuolo nutrito di altri funzionari il cui incarico è talvolta a noi ancora poco chiaro, avrebbero successivamente avuto un ruolo di primo piano, benché in negativo, nel corso della prima metà del sec. VIII, durante i più drammatici frangenti delle già tormentate vicende del Ducato beneventano. I rapporti con i sovrani che si succedettero al governo del Regnum Langobardorum del Nord (Cuniperto, Liutperto e Ariperto II) erano stati progressivamente ridotti al minimo e, già negli anni della giovinezza di G., si assistette a una ripresa vigorosa della spinta espansiva beneventana: gran parte della Puglia fu conquistata, anche e soprattutto per arginare, non potendoli prevenire, i continui assalti di pirati e sbandati slavi, bizantini e musulmani, come quello avvenuto a Taranto verso il 700. Una fruttuosa incursione, infatti, era stata messa a segno dal pirata musulmano 'Abd Allah nonostante l'attenzione e la bellicosità dimostrate da G. per la sicurezza delle coste.
Con il ducato di G. si delinea un nuovo panorama, non certo privo di ombre, per quanto concerne la religione e i rapporti con la Chiesa. Con il suo avvento si assiste infatti all'esplicarsi di un'azione politica per certi aspetti incerta, non lineare e talvolta contraddittoria. Da pochi anni i Beneventani si erano convertiti a un cattolicesimo più puro, libero da pericolose quanto devianti pratiche legate al loro passato pagano.
Inizialmente orientati verso il culto di divinità già tipiche delle culture dell'estremo Nord dell'Europa, cui si era aggiunta una disomogenea conversione al cristianesimo ariano e a quello cattolico, ancora nel VII secolo e certo ancora negli anni dell'infanzia di G. non mancavano culti misti, ibridi. Nonostante la collaborazione tra la cattolica Teoderada e Barbato, il vescovo di Benevento, non mancavano le pratiche paganeggianti - il culto dell'albero sacro, l'adorazione della vipera - anche da parte di uomini già battezzati. Proprio il periodo tra il VII e l'VIII secolo fu caratterizzato da un persistente, estremo disordine confessionale e da altrettanto duraturi conflitti dottrinali in seno alla Chiesa: si pensi agli strascichi dello scisma tricapitolino, alle controversie dottrinali relative all'emergere del monotelismo, all'arianesimo e al paganesimo barbarici.
Si trattava quindi, per il Ducato di G., di una conversione che, se non era di mera convenienza politica, certo non era ancora, negli anni Ottanta-Novanta del sec. VII, profondamente sentita, almeno per una gran parte dell'entourage ducale, sulla cui tiepida adesione al cattolicesimo siamo informati grazie alla testimonianza di Barbato. Tuttavia, proprio tra le prime e principali contraddizioni della politica di G. in proposito, va sottolineato che sembrerebbe precisamente riferibile a quegli anni - e forse, secondo le più recenti e accreditate ipotesi storiografiche e archeologiche, al 694-695 o, in una più ampia cronologia, al 689-705 - la fondazione di quello che sarebbe diventato uno dei maggiori centri monastici del Mezzogiorno, se non dell'Occidente, altomedievale: S. Vincenzo al Volturno. Come già suo padre (che aveva potenziato il sentito e controverso culto micaelico presso il noto santuario sul Gargano) e sua madre (che aveva avviato, con il vescovo Barbato, un'ulteriore e fondamentale fase di irraggiamento del cattolicesimo con la fondazione di più chiese nel Beneventano) così anche G. aveva dato il suo pieno e convinto assenso alla fondazione del monastero vulturnense. Studi più e meno recenti insistono sostanzialmente sulle due principali motivazioni che spinsero G. a favorire lo sviluppo monastico nel Beneventano: egli avrebbe agito sia perché mosso da una pulsione devozionale sia perché interessato a una sorta di promozione dinastica.
Riguardo alla pietas personale di G., benché non si abbiano motivi o prove per poterne mettere in dubbio l'efficacia, qualche perplessità rimane. Non sembra quindi possibile attribuire alla mera devozione ducale un eccessivo peso; il temporaneo fervore religioso cui G. si sarebbe abbandonato, con un vistoso ringraziamento alla divinità, va forse esclusivamente circoscritto ai momenti di esaltazione e di esultanza per la vittoria conseguita in una spedizione antibizantina ai confini nordoccidentali di Benevento che, si badi, aveva consentito un notevole ampliamento dei confini politici del Ducato.
Favorendo, inoltre, il cenobio vulturnense fondato, va detto, da monaci beneventani probabilmente di origini aristocratiche - Paldo, Taso e Tato - pare altrettanto sicuro che G., cavalcando l'onda lunga dei successi militari, abbia condotto una mirata e lungimirante politica di valorizzazione dinastica, non disgiunta dai risvolti politico-economico-sociali a essa legati. Si sarebbe trattato, in altre parole, di un'oculata manovra di propaganda politico-religiosa a proprio vantaggio, con un occhio attento ai rapporti con la Chiesa di Roma, anche se non mancano le prove delle attestazioni di stima ducale all'operato dei monaci, e non solo di quel monastero.
L'apertura di G. al cattolicesimo, però, non avrebbe implicato anche una sua sottomissione o, almeno, una sua politica sempre favorevole al Papato. Delle difficoltà, infatti, incontrate dai papi Sergio I e Giovanni VI nei loro rapporti con la corte orientale durante l'impero di Giustiniano II, dei suoi successori Leonzio, Tiberio III, e nuovamente di Giustiniano II, G. aveva saputo approfittare organizzando una serie di fortunate spedizioni militari ai danni del Ducato romano.
Il Papato, con le prime avvisaglie iconoclastiche e con lo svolgersi del drammatico concilio Trullano II del 692 - noto anche come Pentecto o Quinisesto - le cui deliberazioni si era rifiutato di accettare, aveva in quei frangenti dovuto sopportare l'aperta ostilità dell'autorità d'Oriente. Ostilità che si ripercuoteva gravemente in ambito italico anche a causa delle effervescenze antibizantine in area esarcale. Infatti, la popolazione romano-italica sottoposta al rigido governo orientale dell'esarca, il cubicularius Teofilatto, aveva addirittura favorito le incursioni di G. contro il Ducato romano.
Durante la bellicosa campagna, con ogni probabilità riferibile all'anno 702, egli era riuscito ad annettersi Sora, Arpino e Arce, nell'area del fiume Liri, di elevato valore strategico ed economico. La fulminea avanzata aveva avuto il suo culmine in una serie di azioni belliche - condotte evidentemente da G. con finalità dimostrative delle capacità e potenzialità militari longobarde - fino a poca distanza da Roma, presso la località denominata "Horrea", probabilmente collocabile sulla via Latina (sull'episodio cfr. Paolo Diacono, p. 174, che si compiace della vittoriosa bellicosità di Gisulfo). Il pontefice, Giovanni VI, ottenne, attraverso l'opera di mediatori e diplomatici ecclesiastici appositamente inviati a G., la restituzione, se non delle terre - che restarono a G. - di parte dei molti prigionieri fatti dai Beneventani e, ciò che forse più contava, il ritiro delle truppe longobarde nei loro territori.
Si assistette quindi a un vigoroso quanto, per certi aspetti, confuso reinserimento a pieno titolo del Ducato di G. nella politica italica. In quei frangenti veniva per esempio emesso dalla Zecca beneventana un solido che presentava caratteristiche di una certa originalità, rispetto alla monetazione bizantina già presente e sfruttata. Si trattava di una moneta che rappresentava pienamente non solo un aspetto im-portante della politica economica di G., ma anche e forse soprattutto la grandezza delle sue ambizioni che - nell'emblematica raffigurazione del monogramma ducale "G" su un lato della moneta - esprimevano chiaramente sia l'euforico clima politico-dinastico beneventano sia le aspirazioni del duca verso un potere "quasi regio"; resta, quale esempio d'uso dei solidi gisulfiani, un solo atto privato degli anni di G., una charta venditionis datata Benevento, 7 marzo 703 (Codice diplomatico longobardo).
G. morì nel 706, anno in cui gli succedette Romualdo nato dal suo matrimonio con Winiperga, un'aristocratica le cui origini ci sono rimaste ignote.
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