GIROLAMO
Nacque presumibilmente nel primo quarto del sec. XII; nulla si sa circa la sua famiglia di origine.
Depone a sfavore di una sua eventuale provenienza aretina - da taluno sostenuta pur senza addurre alcuna prova convincente - il fatto che fu chiamato dal papa Innocenzo II all'ufficio episcopale quando era priore della importante canonica di S. Frediano a Lucca. La dedica del sermonario di G. al lucchese Ubaldo Allucingoli, cardinale vescovo di Ostia (poi papa Lucio III), conferma questa ipotesi.
Alla morte del vescovo Mauro, ad Arezzo non si era riusciti a trovare un accordo per la successione; le autorità religiose e civili si rivolsero quindi a Innocenzo II, che indicò G. e il 22 nov. 1142 gli comunicò l'avvenuta elezione all'unanimità da parte dei principali esponenti civili e religiosi della città. Tale travagliata successione indusse G., prima del 1154, a elaborare per iscritto una specifica normativa (della quale abbiamo solo notizie indirette) che agevolava i canonici della chiesa maggiore nell'elezione vescovile e stabiliva altresì le procedure per la nomina dell'arcidiacono e del primicerio.
Nella gestione della diocesi G. cercò di costruire un quadro istituzionale chiaro e definito.
Tra i suoi primi atti ufficiali documentati troviamo la conferma delle immunità e delle concessioni fatte dai suoi predecessori all'eremo di Camaldoli (22 febbr. 1144) e alla canonica di S. Donato (agosto 1147), cui riconobbe tra l'altro il controllo di una fitta maglia di pievi nel comitato di Siena, oggetto di una lunga contesa col vescovo di quella diocesi. All'abate di S. Maria di Prataglia nel 1147 concesse il viscontado e il guardiatico del castello e della corte di Montefatucchio che aveva ottenuto temporaneamente nel 1130 dal vescovo Buiano per 60 libbre; G. ricevette in cambio la corte e il castello di Marciano.
Nel 1150 fissò i confini della parrocchia urbana di S. Michele, senza tuttavia riconoscere a essa il diritto di amministrare il battesimo. G. mirava a rafforzare la coerenza territoriale delle parrocchie, ma senza intaccare la solidarietà plebanale. Infatti, anche quando concedette al monastero di Pratovecchio la chiesa di S. Ilario nel castello di Puglia (1149) e a quello di Cultobono la chiesa di Camprato (1162), specificò che le cappelle avrebbero dovuto continuare a riconoscere l'autorità delle rispettive pievi. Tali concessioni erano in linea con il suo atteggiamento generalmente positivo verso i monasteri, in particolare nei riguardi di quello di S. Michele in Pian di Radice, i cui beni confermò nel 1154, e di quello delle Ss. Flora e Lucilla, al quale fece una donazione nel 1157. Di un certo rilievo fu anche il suo contributo alla nascita dell'ospedale di Vigna del Re, per conto del quale ricevette nel 1146 una cospicua donazione da parte di una coppia di laici.
Nel 1147 e nel 1164 riesumò, come si vede nella documentazione prodotta a suo nome, la qualifica comitale, che i vescovi aretini non utilizzavano dal 1130. Tale richiamo ai poteri civili dei vescovi di Arezzo, oltre a comparire in due carte concernenti le relazioni con i prepositi della canonica di S. Donato - che quindi avevano scarsa rilevanza politica - è del tutto assente nella restante e cospicua documentazione che lo riguarda. G. non alimentava la nostalgia per l'epoca dei vescovi conti, ma, ben sapendo che il comitato era ormai una circoscrizione priva di reali contenuti politici, mirava piuttosto a conferire un significato nuovo all'istituto episcopale, coordinando le forze politico-militari del contado e inserendosi efficacemente nella vita del Comune consolare, senza peraltro rinnegare i fondamenti della tradizione vescovile aretina, sostanziata da un diuturno e solido legame con l'Impero.
Nei primi anni del suo episcopato fu impegnato soprattutto nel contado, ove, non come rappresentante della città, ma in quanto signore, insieme con i suoi fautori conquistò il castello di Sasseto prima del giugno 1144, quando si accordò con Rolandino di Bivignano. Questi promise di rinunziare a ogni lamentela per i danni subiti durante l'operazione militare e si dichiarò suo fedele. Invece Enrico da Bivignano e suo suocero, Ugo dei marchesi di Colle, ricorsero al papa Eugenio III, che impose a G. il risarcimento dei danni riportati da questi potenti signori del contado nella stessa vicenda (17 ott. 1145). Rientra sempre nel quadro dell'attività signorile di G. e non nella sfera dei suoi rapporti con il Comune l'accenno ai quattro laici appartenenti alla clientela vassallatica del vescovo che nel 1151 lo stesso G. diffidò dall'importunare la canonica della chiesa maggiore. Prima del 1153 i rapporti di G. con le autorità comunali, che pure avevano concorso alla sua elezione, non sono documentati.
L'avvento di Federico I di Svevia e la conseguente scelta del vescovo di schierarsi dalla sua parte crearono i presupposti per un rinnovato impegno di G. nella vita cittadina, improntato alla collaborazione con il ceto dominante urbano e in particolare con il potente Arengerio, con cui condivideva la scelta filoimperiale. A partire dal 1153 i documenti relativi a G. furono vergati in diverse sedi poste non più nel contado o nel suburbio bensì all'interno delle mura urbane. Ad Arezzo fu seguito da un suo familiare, il nipote Monaldo, attestato nel 1164 come visdomino, ma che non è identificabile - come pure è stato fatto - con l'omonimo governatore e rettore della città in carica nel 1153.
Rainaldo di Dassel, legato imperiale, considerò G. il proprio interlocutore istituzionale privilegiato, di fatto facendo leva sui poteri comitali dei quali continuava a essere almeno formalmente investito. G. non partecipò al concilio di Pavia voluto dal Barbarossa nel 1160, ma il 9 nov. 1163 lo raggiunse a Lodi insieme con Arengerio, facendo confermare diritti e proprietà del preposito della chiesa maggiore aretina e per ribadire la protezione imperiale su di essa. Per il legato imperiale Cristiano di Magonza, più volte presente ad Arezzo a partire dal 1165, costituì un sicuro punto di riferimento istituzionale, insieme con i consoli e la canonica di S. Donato, mentre il monastero di Camaldoli, favorevole ad Alessandro III, gli si oppose decisamente.
La tensione tra le parti si stemperò quando G. si accordò con Camaldoli circa i rispettivi diritti sulla pieve di Micciano (1169), cedendo le prerogative temporali e conservando quelle spirituali, che avrebbero rafforzato la sua presenza in territori dove i monaci avevano una posizione di sicura egemonia. Intanto G. e il Comune schierarono Arezzo a fianco di Guido Guerra contro Firenze. Il trattato di pace concluso nel 1170 sancì la vittoria dei Fiorentini. Alla pacificazione interna si arrivò nell'agosto del 1173, quando G. e Arengerio intervennero alla permuta di castelli fatta dal priore di Camaldoli e dal preposto della canonica al termine di una vertenza che durava dal 1160.
Da quel momento fino al 1175, anno della morte di G., non abbiamo più notizie sul suo conto.
G. è autore di 115 omelie in cui commenta il testo biblico secondo il metodo allegorico-figurale. Nel codice Vat. lat. 1248 della Bibl. apost. Vaticana (cc. 1-165), la raccolta più completa, esse sono distribuite lungo tutto l'anno liturgico. Il sermonario raggiunse la sua veste definitiva quando il dedicatario dell'opera, Ubaldo Allucingoli, era cardinale vescovo di Ostia cioè dopo il 1158, ma, considerata la scelta filoimperiale di G. e quella fermamente filopontificia di Ubaldo possiamo escludere che fino alla fine degli anni Sessanta i rapporti tra i due potessero essere meno che conflittuali. Si deve così ipotizzare che se il sermonario fu scritto tra il 1158 e il 1160 si possa trattare di un omaggio al concittadino recentemente elevato al cardinalato; oppure che esso sia stato composto nei primi anni Settanta, quando la tensione tra Papato e Impero andò progressivamente scemando, nel qual caso potremmo pensare a un tentativo di G. di riavvicinarsi alla Curia pontificia.
I sermoni godettero di una notevole fortuna testimoniata da una tradizione manoscritta abbastanza cospicua (cfr. Schneyner, 1970). Furono editi da É. Baluze, in Id., Miscellanea, II, Lucae 1761, pp. 454-559.
Fonti e Bibl.: Die Urkunden Friedrichs I. 1158-1167, a cura di H. Appelt, in Mon. Germ. Hist., Die Urkunden der deutschen Könige und Kaiser, X, 2, Hannover 1979, n. 412 pp. 295-297; Innocentii II pontificis Romaniepistolae et privilegia, in J.-P. Migne, Patr. Lat., CLXXIX, n. 537 col. 604; Documenti per la storia della città di Arezzo nel Medioevo, a cura di U. Pasqui, I, Firenze 1899, pp. 472-507, 536, 552; P.F. Kehr, Italia pontificia, III, Etruria, Berolini 1908, pp. 155, 159, 428; P. Guidi - O. Parenti, Regesto del capitolo di Lucca, II, Roma 1912, n. 1314 p. 189; F. Inghirami, Storia della Toscana, XIII, Fiesole 1844, p. 174; R. Davidsohn, Storia di Firenze, I, Firenze 1956, pp. 646 s., 697, 717; M.H. Laurent, Codices Vaticani Latini. Codices 1135-1266, Città del Vaticano 1958, pp. 302-313; J.P. Schneyner, Wegweiser zu lateinischen Predigtreihen des Mittelalters, München 1965, pp. 23, 43 s., 152, 215, 236, 286, 321, 350, 439; Id., Geschichte der katholischen Predigt, Freiburg 1969, p. 113; Id., Repertorium der lateinischen Sermones des Mittelalters, II, Münster 1970, pp. 706-713 (con dettagli sulla tradizione manoscritta dei sermoni); A. Tafi, I vescovi di Arezzo, Cortona 1986, pp. 62-64; G. Nicolay, Storie di vescovi e di notai ad Arezzo fra XI e XII secolo, in La memoria delle chiese. Cancellerie e culture notarili nell'Italia centro-settentrionale (secoli X-XIII), a cura di P. Cancian, Torino 1995, p. 110; J.P. Delumeau, Arezzo. Espace et sociétés. 715-1215, Rome 1996, ad ind.; C. Caby, De l'érémitisme rural au monachisme urbain. Les camaldules en Italie à la fin du Moyen Âge, Rome 1999, pp. 85, 94; Dict. d'hist. e de géogr. ecclésiastiques, XXVII, col. 1030.