VIDONI, Girolamo
– Nacque a Cremona nel 1581 da Vidone e da Margherita Persichelli.
La sua famiglia si diceva giunta nel Nord Italia dalle Fiandre in un momento non precisato del XV secolo. Di sicuro, l’ascesa sociale dopo la metà del secolo successivo era compiuta, dacché un consanguineo di nome Giovanni aveva partecipato all’amministrazione della città, rivestendo nel 1570 la carica di decurione.
Girolamo compì i suoi studi a Pavia e a Perugia. Qui, fra il 1602 e il 1603, prendeva parte alle sedute dell’Accademia degli Insensati. Sua la dedica al cardinale Bonifazio Bevilacqua che apre la lezione di Leandro Bovarini Del Moto, pubblicata a Perugia da Vincenzo Colombara nello stesso 1603.
Vidoni si trasferì quindi a Roma, dove ricevette la nomina a cameriere d’onore di papa Clemente VIII. Passò presto dagli incarichi nel palazzo apostolico a quelli di Curia. A partire dal 1605 ebbe la carica di abbreviatore di parco maggiore, cioè di impiegato della Cancelleria pontificia adibito al compito di sintetizzare le suppliche indirizzate al papa. L’anno successivo compì il passo decisivo: fu nominato referendario di entrambe le Segnature, preludio a successive cariche con funzioni giurisdizionali e di governo.
La sua carriera prese quota nel 1606, come vicelegato della Marca. Nel 1609, poi, fu nominato chierico della Camera apostolica, ufficio venale (valutato 42.000 scudi, con rendita annuale di 3000 scudi). Fra il 1612 e il 1613, fu governatore di Civitavecchia. Rientrato a Roma, ebbe gli incarichi di prefetto dell’Archivio vaticano, nel 1619, e di presidente dell’Annona, nel 1622. L’anno successivo tornò per qualche tempo al governo di Civitavecchia; infine, ricevette la nomina a presidente di Romagna. Giunse a Ravenna, sua sede di residenza, il 25 novembre 1623, quando entravano nel vivo i preparativi per la devoluzione del Ducato di Urbino.
Il 29 giugno dello stesso anno, con la morte di Federico Ubaldo, unico figlio dell’anziano duca Francesco Maria II, la devoluzione del feudo alla Chiesa era diventata improvvisamente imminente, nonostante i malumori del Consiglio di reggenza del Granducato di Toscana, che considerava almeno il Montefeltro un feudo imperiale e ambiva a impossessarsene, facendo leva sui legami politici stretti fra Firenze e Urbino con il matrimonio del defunto Federico Ubaldo con Claudia de’ Medici e soprattutto con il fidanzamento tra la loro figlia ancora infante Vittoria e il minorenne granduca, Francesco II de’ Medici. Francesco Maria II non si era sottratto all’obbligo di riconoscere preventivamente l’alta autorità pontificia e agli inizi di novembre aveva formalmente accettato la trasformazione dell’intero suo Ducato in una provincia dello Stato della Chiesa. Ma la segreteria pontificia a Roma, guidata dal cardinale Francesco Barberini, e lo stato maggiore militare, a capo del quale era il generale di Santa Chiesa Carlo Barberini, fratello di papa Urbano VIII, non consideravano affatto il risultato già acquisito.
Al momento di entrare in carica, Vidoni aveva istruzioni di prendere possesso di una parte dello Stato alla notizia della morte del duca. Esplicite disposizioni riguardavano l’astenersi dal «pigliar gara» (Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat. 9131, c. 7r) con gli altri responsabili della prima occupazione del Ducato, che si sarebbero mossi contemporaneamente a lui. In realtà, il duca di Urbino Francesco Maria II sarebbe defunto diversi anni dopo, il 28 aprile 1631. Tuttavia, il carteggio di Vidoni con Roma, fino alla fine di maggio del 1624, è costantemente percorso da questioni organizzative legate alla futura devoluzione e da voci sempre ricorrenti di possibili ostacoli frapposti dai toscani.
In particolare destò molto allarme in Vidoni, nel marzo del 1624, un concentramento di truppe granducali all’interno della città-fortezza di Terra del Sole, situata soltanto a circa 10 chilometri da Forlì (attualmente è frazione di Castrocaro Terme, in provincia di Forlì-Cesena). Vidoni vi mandò il suo uditore civile, Girolamo Pucci: essendo di origini toscane la sua presenza non avrebbe destato sospetti. In effetti, l’operazione di spionaggio riuscì. Vidoni poté trasmettere a Roma una relazione accurata, addirittura corredata da una pianta con la posizione delle artiglierie schierate. Gli sembrava opportuno muovere subito verso il confine gli ordinamenti militari non professionali (le milizie), ma da Roma gli giunsero ordini di coordinarsi con gli alti ufficiali della province di Romagna e Marca d’Ancona, Alessandro Sacchetti e Tarquinio Capizucchi. Vidoni non smise comunque di prendere iniziative in proprio. Il 3 aprile ordinò un censimento generale di tutti i cavalli e le cavalle esistenti in Romagna. Con un altro bando, poco dopo, vietò l’esportazione di ogni genere di viveri dalla provincia, come pure di polvere da sparo e di qualsiasi tipo di materiale bellico.
All’inizio del mese successivo gli giunse comunicazione dell’accordo concluso il 30 aprile 1624 fra Urbano VIII, Francesco Maria II e la reggenza fiorentina sui dettagli della devoluzione, trasferimento di proprietà dei beni allodiali compresi. Vidoni chiese istruzioni circa le modalità della presa di possesso della fortezza di San Leo e del Montefeltro. Carlo Barberini, tuttavia, gli diede disposizioni soltanto di recarsi a Rimini. Da qui, con le truppe che Sacchetti avesse ritenuto sufficienti, avrebbe dovuto recarsi a Pesaro, per prenderne possesso. Era oggettivamente un ridimensionamento del suo ruolo. Vidoni provò a protestare, ma non ottenne nulla. La corte pontificia, per San Leo, preferiva appoggiarsi sul membro di un’importante famiglia militare umbra, Malatesta Baglioni, vescovo di Pesaro.
L’anno seguente Vidoni insediò, sia pure con difficoltà, un presidio di soldati corsi nelle principali località della provincia (Ravenna, Rimini, Faenza, Imola, Brisighella e Casola Valsenio). Contemporaneamente, egli appare molto concentrato sulla soluzione del problema della regolazione dei corsi fluviali in Romagna.
Nel marzo del 1625 lasciò Ravenna. Tornato a Roma, il 19 dello stesso mese fu nominato tesoriere generale della Camera apostolica (carica anch’essa venale, che valeva nel Seicento più di 70.000 scudi). All’inizio del successivo aprile, Urbano VIII lo chiamò all’interno di una speciale congregazione militare, ponendolo accanto ai cardinali Antonio Barberini seniore e Lorenzo Magalotti, a monsignor Laudivio Zacchia (anch’egli cardinale dal 1626) e ai vertici delle forze armate pontificie (Carlo Barberini, Torquato Conti e Tarquinio Capizucchi). Tale commissione si occupava soprattutto dello stanziamento di truppe a Roma durante l’anno santo, in un momento critico delle relazioni interstatuali nella penisola: si trattava di due reggimenti posti sotto il comando di don Ferdinando Orsini e di Antonio Barberini, il nipote del papa che avrebbe ricevuto la berretta rossa nel 1628. Ma sul terreno vi erano anche la fortificazione del palazzo papale del Quirinale e di Castel Sant’Angelo. A protezione di quest’ultimo, nella sua qualità di tesoriere generale, con l’editto del 14 maggio 1626, Vidoni vietò la sopraelevazione delle abitazioni di Borgo.
Numerosi i provvedimenti normativi emanati nel biennio successivo: egli intervenne più volte sul pagamento degli interessi e sul rimborso dei titoli di debito pubblico (i cosiddetti luoghi di Monte); emanò editti contro la corruzione dei pubblici ufficiali e i soprusi dei sorveglianti delle torri costiere più vicine a Roma; protesse i diritti della tipografia della Camera apostolica «contro gli altri stampatori e venditori di libri» (cit. in Regesti di bandi, 1932, p. 56). Addirittura varò misure a tutela dei beni culturali: un suo editto del 15 aprile 1627 proibiva di scavare nel territorio di Anzio, senza preventiva autorizzazione, «porfidi, marmi, colonne, statue» (p. 55).
Più in generale, per quello che riguarda i compiti precipui della sua carica, il tesorierato di Vidoni è ricordato per un’importante messa a punto. Con un chirografo a lui indirizzato, il 2 luglio 1627, infatti, papa Barberini riformò il funzionamento della computisteria, divisa in tre sezioni, mirando alla razionalizzazione della tenuta del registro generale dei conti della Camera apostolica (il cosiddetto libro mastro). Vidoni riprese in un suo editto quelle norme e ne aggiunse altre di natura regolamentare.
Venivano cassati i registri separati, relativi a differenti centri di spesa: Palazzo apostolico, Tesoreria segreta, Galere, Spogli, Abbondanza. Queste voci, nella nuova organizzazione, dovevano tutte confluire nel libro mastro generale. Solo le spese «per dentro Roma» (cit. in Pastura Ruggiero, 1984, p. 190), cioè quelle relative agli uffici del governatore di Roma, del camerlengo, dell’auditor Camerae, dello stesso tesorierato generale, avrebbero avuto un particolare registro. Altre disposizioni riguardavano la presentazione dei conti in computisteria, sia da parte dei tesorieri provinciali e degli appaltatori di imposte, sia da parte dei fornitori. Entro il 31 marzo di ogni anno avrebbero dovuto essere presentati quelli relativi all’anno precedente, in duplice copia. Pena una considerevole multa di 500 scudi.
Il posto di tesoriere generale, per regola non scritta (ma non per questo meno efficace, nel XVII secolo), conduceva al cardinalato. Vidoni fu creato cardinale in pectore il 19 gennaio 1626. La sua nomina fu pubblicata più di un anno e mezzo dopo, il 30 agosto 1627. Gli fu assegnato il titolo dei Ss. Quattro Coronati, ove fece alzare un altare per la reliquia di s. Sebastiano. Commissionò anche a Giovanni Baglione la tela raffigurante S. Sebastiano curato da Irene e da Lucina. Per festeggiare il suo cardinalato, a Cremona, Niccolò Corradini musicò sia un componimento in versi di Giuseppe Bresciani dal titolo Al suon, al canto, sia una messa dello Spirito Santo a tre cori.
Vidoni entrò a far parte di diverse congregazioni cardinalizie: quella de Bono Regimine (per il governo delle comunità dello Stato della Chiesa), quella della Fabbrica di S. Pietro, quella delle Acque, fonti e vie.
Morì a Roma il 30 ottobre 1632.
Aveva acquistato una cappella nella chiesa di S. Maria della Vittoria nel 1626, dedicandola all’Assunta. Qui lo scultore Pompeo Ferrucci preparò il suo monumento funebre, voluto anche per il nipote Giovanni, morto agli inizi di aprile del 1626. Lo stesso Ferrucci realizzò due busti in marmo per Vidoni e il suo consanguineo.
Gli erano state dedicate diverse opere: il Tractatus de confessione rei contra fiscum, et pro fisco (Romae 1626) e le Disceptationes forenses criminales ad reorum defensam (Maceratae 1630) di Almonte Ciazzi; il Discorso astrologico delle mutationi de’ tempi dell’anno 1629 di Giovanni Antonio Roffeni (Bologna 1629), le Rime spirituali di Filippo Nicoletti, maestro di cappella della SS. Madonna di Loreto in Roma (Roma 1627).
Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat. 9131-9132.
Regesti di bandi, editti, notificazioni e provvedimenti diversi relativi alla città di Roma ed allo Stato pontificio, IV, Roma 1932, ad ind.; L.F. Tagliavini, Un musicista cremonese dimenticato, in Collectanea historiae musicae, II, Firenze 1957, pp. 418 nota 17, 424; M.G. Pastura Ruggiero, La reverenda Camera apostolica e i suoi archivi, Roma 1984, pp. 190 s.; Die Hauptinstruktionen Gregors XV. für die Nuntien und Gesandten an den europäischen Fürstenhöfen (1621-1623), a cura di K. Jaitner, Tübingen 1997, ad ind.; M.C. Giannini, Note sui tesorieri generali della Camera apostolica e sulle loro carriere tra XVI e XVII secolo, in Offices et papauté (XIVe-XVIIe siècle). Charges, hommes, destins, a cura di A. Jamme - O. Poncet, Rome 2005, pp. 877, 883; P.P. Piergentili, La Legazione di Romagna in Archivio Segreto Vaticano, in La legazione di Romagna e i suoi archivi, a cura di A. Turchini, Cesena 2006, pp. 538-539.