RAMUSIO, Girolamo
RAMUSIO, Girolamo (Ramusius pauper Ariminensis). – Nacque a Rimini, da Benedetto e da Elisabetta di Stefano degli Uberti, nel 1450 secondo la Cronaca Ramusia, compilata a inizio Seicento da Girolamo Ramusio juniore.
Nulla dei suoi anni riminesi è noto né quando, o per che motivi, si trasferisse in territorio veneziano. Nel 1464 era a Padova: lo si desume da una nota, collocata tra due altre del 1478, apposta sulla sua copia dei Problemata di Aristotele (oggi in Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Inc., 28), in cui afferma di aver trascorso «annos bisseptem Patavi». Qui, Ramusio seguì il corso di arti e filosofia.
Fu testimone alle lauree del domenicano Terenzio de la Rosa (27 luglio 1467; nell’atto si precisa che abitava presso il nobile Bartolomeo Capodilista); di Urbano Diana (28 maggio 1471); di Lorenzo Beraldi (8 settembre 1474: Ramusio abitava ora «in contrada Sanctae Caterinae»); di Bonifacio de Bassiano e di Pietro de Sestino (2 gennaio 1476). In quell’anno concluse il percorso di studi: l’8 luglio, su sua domanda, fu esentato dalle tasse per il dottorato in artibus; il 17 si tenne l’esame (promotori Pietro Roccabonella, Paolo Dal Fiume, Cristoforo da Recanati, Francesco da Noale, Conte Facino). Tra i testimoni, il patrizio veneto Girolamo Donà, cui Ramusio era legato da un’amicizia costruita sui comuni interessi di studio e di pratica poetica.
Affrontò quindi gli studi di medicina, postillando il testo dei già citati Problemata con note e versi latini, spesso datati a documentare i suoi spostamenti: da Arlesaga, nel Padovano (29 luglio-4 ottobre 1478), a Padova (9 novembre), a Montefiore Conca nel Riminese (agosto 1479), forse per visitare i luoghi di origine o per affari: nel 1473, morto il padre, ne aveva ereditato i beni assieme con i fratelli Paolo e Francesco. Nel 1479 risiedeva a Padova nel collegio di S. Caterina, che riservava posti agli scholares pauperes; dalla relazione con Pace Del Bianco, abitante nei dintorni (Lucchetta, 1982, p. 17 n. 65), gli nacque il figlio Orlando Antonio. Il 30 maggio 1480 assistette alla laurea in medicina di Benedetto Redaldo, poi si spostò a Seiane, in Istria (18 agosto-29 settembre).
Continuava intanto a comporre versi. Sul piano stilistico è forte lo stacco tra le prime rime d’occasione (il carme latino del 1473 per Angelo Probo da Atri, ambasciatore a Venezia di re Ferdinando I d’Aragona, o i quattro distici compresi nell’edizione, a cura di Giovanni Iacopo Dal Pozzo e Pietro Nardi, dei commenti di Egidio Romano ai Posteriora analytica, Padova, 26 febbraio 1477) e i canzonieri del 1481-82, esito di un intenso impegno. Nel maggio del 1481 terminò una prima raccolta di versi latini suoi e di Donà (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Strozzi 143), forse ordinati cronologicamente (il secondo, Dum subirem artium lauream, è del 1476; gli ultimi sono del 1481) e intessuti in un dialogo dai toni spesso assai licenziosi (il che spiega il loro inserimento nei Quinque illustrium poetarum [...] lusus in Venerem (1791). L’operetta circolò certamente tra gli studenti; la apprezzò anche Giovanni Pico, giunto a Padova nel 1481 ed entrato in relazione con Donà e Ramusio, che gli dedicò la raccolta. Altre due raccoltine, in volgare, furono completate rispettivamente nel febbraio (Napoli, Biblioteca nazionale, Mss., XIII.D.45) e settembre del 1482 (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Mss. it. IX.255 [=6363]). La prima è dedicata al nobile veneziano Domenico Bon, patron, ossia appaltatore e capitano di una delle galere da mercato in rotta, da fine maggio 1481, per Aigues-Mortes. Ogni sonetto reca a lato l’indicazione del porto in cui era stato composto: dunque Ramusio fu a bordo, forse come medico, incarico che poteva esercitare in quanto dottore in arti e studente in medicina. L’altra è dedicata al patrizio Antonio Marin (figlio di Rosso per Lucchetta, 1982, p. 29 n. 123; si tratta più verosimilmente del più giovane figlio di Giovanni e fratello di Marco, all’epoca in relazione con Paolo Ramusio: cfr. King, 1986, pp. 399 s.); vi sono compresi due sonetti, del giureconsulto riminese Roberto Orsi e ancora di Pico, in risposta ad altrettanti di Ramusio.
Motivi conduttori, in queste raccolte e nei versi latini disseminati da Ramusio sulla già citata copia dei Problemata, sono, da un lato, l’ammirazione e l’imitazione di Petrarca, dall’altro, la costruzione del proprio personaggio di poeta povero, sfortunato e innamorato di una donna eletta a musa ispiratrice, nonché a simbolo di perfezione e guida spirituale dell’intera esistenza, cantata (esclusivamente post mortem) sotto il nome di ‘Catta’. La giovane è identificabile con Caterina da Narni, figlia naturale di Giannantonio di Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, il quale ultimo era stato capitano generale dell’esercito veneziano. In base ad alcuni versi del 1481 in cui Ramusio dichiara di aver trascorso «tri lustri amando» (Lucchetta, 1982, pp. 4 s.), egli l’avrebbe incontrata nel 1466, quando Caterina era undicenne e già da sei anni maritata al padovano Francesco Dotti; nell’ottobre del 1476 morì, incinta del terzo figlio, testando a favore del marito.
La Cronaca Ramusia (c. 3v) fornisce una versione romanzata della vicenda: la fanciulla, «maritata [...] in casa Capodilista», sarebbe morta di veleno, e Ramusio, grazie all’aiuto del fratello Paolo, avrebbe cercato rifugio in Oriente «per fuggir qualche sinistro incontro», quasi fosse implicato nella vicenda. A parte le diverse cause della morte di Caterina, non sembra che, nei quasi sette anni trascorsi fino all’imbarco per la Siria, la vita padovana di Ramusio lo esponesse a pericoli.
Nel 1483 si colloca una netta svolta esistenziale: nel marzo fece donazione al fratello dei propri beni, riservandosene l’usufrutto; nell’atto, rogato a Verona dove il fratello Paolo era giudice, Girolamo, allora «habitator Venetiis», si diceva deciso a «varias mundi medendo nationes peragrare» (Lucchetta, 1982, p. 54). In luglio si imbarcò sulle galere da mercato dirette in Egitto; sbarcato ad Alessandria a inizio ottobre, risiedette nel fondaco veneziano, dove il 13 novembre testò prima di partire per Damasco, a ricoprirvi l’incarico di medico della Nazione veneta. Ramusio era già stato in Oriente: lo attesta egli stesso, in una delle sue postille, datata genericamente 1482: «Ipse Ramusius vidi, cum essem in Syria...». Su questo viaggio (forse su di un altro convoglio di galere da mercato?) non si hanno notizie di sorta.
Giunto a destinazione, si dedicò alla principale impresa della sua vita: la traduzione interlineare dall’arabo in latino del Canon di Avicenna, per correggere la traduzione di Gerardo da Cremona (fine XII secolo).
L’evidente sensibilità umanistica di Ramusio (che lo porta anche a consultare o, almeno, a informarsi sul contenuto della versione ebraica di Avicenna: Jacquart, 1989, p. 404) va rapportata alla sua effettiva preparazione e al metodo seguito. Come scrisse nella lettera all’amico ‘Flavio’ che chiude il codice, il suo lavoro mirava all’utilità, più che a obiettivi di tipo sistematico-erudito: si trattava, per lui, di assemblare una guida per diagnosi e terapia mediche. Di qui il carattere disordinato e incompleto della traduzione, viziata d’altra parte dalla sua «imperitiam arabicae linguae» (Lucchetta, 1982, p. 42 n. 166), di cui fu consapevole, e che sperava di superare con il tempo. Dopo la sua morte il codice fu riportato a Venezia e conservato «nello studio di casa Rannusio», ove fu consultato dai «più principali medici», tra cui Andrea Grazioli (Cronaca, c. 3v). È vero che questi citò l’opera di Ramusio nella sua traduzione del Canon, ma più per omaggiare un precursore che per effettiva utilità del testo (Jacquart, 1989, p. 414). Nel XVII secolo il manoscritto fu acquistato dall’orientalista Jean Bourdelot, passò in seguito alla Bibliothéque national (Arabe, 2897).
Il 1° luglio 1486 Ramusio testò una seconda volta. Ammalato, era in partenza per l’aria più salubre di Beirut, sulla costa. L’atto conferma la sostanza del precedente: erede universale era Orlando Antonio, contravvenendo di fatto alla donazione del 1483; è possibile che quest’ultima celasse «una cessione di pegno per debito» (Lucchetta, 1982, pp. 44 s.).
Secondo la Cronaca morì di dissenteria a Beirut il 5 giugno 1486: data anteriore a quella del testamento, e quindi inattendibile. La stessa fonte gli attribuisce un’opera inedita, De nexu utriusque philosophiae, a cui Francesco Sansovino (Venetia descritta, Venezia 1581, c. 250r) aggiunge un De differentiis pulsuum, et de dignoscendis pulsibus; entrambe risultano perdute.
Fonti e Bibl.: Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It., VII.325 (=8839): Cronaca Ramusia; Quinque illustrium poetarum [...] lusus in Venerem, a cura di B. Mercier de Saint-Léger, Parisiis 1791, pp. 54-96; E.A. Cicogna, Inscrizioni veneziane, II, Venezia 1827, pp. 310 s.; F. Flamini, G. R. (1450-1486) e i suoi versi latini e volgari, in Atti e memorie della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Padova, n.s., XVI (1899-1900), pp. 11-41; M.T. d’Alverny, Survivance et renaissance d’Avicenne à Venise et à Padoue, in Venezia e l’Oriente tra tardo Medio Evo e Rinascimento, a cura di A. Pertusi, Firenze 1966, pp. 75-102; F. Lucchetta, G. R. Profilo biografico, in Quaderni per la storia dell’Università di Padova, XV (1982), pp. 1-60; M.L. King, Venetian humanism, Princeton 1986, pp. 399 s.; D. Jacquart, Arabisants du Moyen Age et de la Renaissance: J. Ramusio († 1486) correcteur de Gérard de Crémone († 1187), in Bibliothèque de l’École des chartes, CXLVII (1989), pp. 399-415.