PIGNATELLI, Girolamo
PIGNATELLI, Girolamo. – Nacque a Napoli il 22 aprile 1773, secondogenito di Giovan Battista Pignatelli, principe di Marsiconovo, Montecorvino e Moliterno, e di Luisa d’Avalos d’Aquino d’Aragona dei principi di Pescara.
La famiglia della madre, di antica origine spagnola, era approdata nella penisola al seguito di Alfonso I d’Aragona, il Magnanimo, nel XV secolo. Girolamo ebbe cinque fratelli: Diego, Maria Emmanuella, Francesca Maria, Maria Eleonora e Luigi.
Nel 1788, dopo aver aderito alla libera muratoria (precisamente alla loggia di Salvatore Pignatelli, principe di Strongoli), seguì a Torino il padre, nominato due anni prima ministro plenipotenziario presso il re di Sardegna in sostituzione di Marzio Mastrilli, marchese del Gallo. Attratto fin da giovane dal mestiere delle armi, allo scoppio della guerra franco-austriaca Girolamo fu tra gli ufficiali stranieri addetti allo stato generale dell’alto comando austro-sardo. Nel 1793 fu al comando di un corpo di cacciatori che protesse la ritirata del reggimento «Caprara»; fatto prigioniero alla Giletta, fu scambiato con il generale francese Luc-Julien-Joseph Casabianca. Dopo il fallimento dell’impresa di Tolone e l’adesione del Regno di Napoli alla prima coalizione antifrancese, andò in Lombardia come capitano del reggimento di cavalleria «Regina» inviato da Ferdinando IV in aiuto degli austriaci. Nel 1796, mentre il generale Jean-Pierre de Beaulieu tentava di fronteggiare l’avanzata dell’Armata d’Italia guidata da Napoleone Bonaparte, si distinse nei combattimenti al ponte di Piacenza. A Guardamiglio presso Fombio, in provincia di Lodi, caricò ripetutamente con il suo squadrone, perdendo un occhio e parte del naso. Nel 1798, dopo aver mobilitato a sue spese due reggimenti di cavalleria, prese parte alla campagna di guerra affidata da Ferdinando IV al generale austriaco Karl Mack contro la Repubblica Romana.
Dopo la catastrofica ritirata e l’avanzata delle truppe francesi nel Regno di Napoli, insieme al generale Lucio Caracciolo, duca di Roccaromana, Pignatelli tentò l’ultima resistenza affrontando e respingendo, il 4 gennaio 1799 a Capua, le truppe del generale Jean-Étienne Championnet.
Nella capitale i membri della deputazione cittadina si scontrarono con Francesco Pignatelli, conte di Laino e marchese di Acerra, nominato da Ferdinando IV di Borbone vicario generale del Regno, e rivendicarono gli antichi diritti a intervenire sull’amministrazione della città, sulla milizia urbana, sulla circolazione monetaria e sull’arsenale. Conclusa la tregua di Sparanise con gravoso pagamento di denaro, alla notizia che gli emissari francesi erano in città per ritirare la somma convenuta, il 16 gennaio 1799 il popolo insorse, prese le armi e assalì le carceri infierendo contro le persone sospettate di fede ‘giacobina’. Nello stato di diffusa anarchia la deputazione cittadina, riunita nella sede di S. Lorenzo, chiese le dimissioni del vicario, che fuggì a Palermo nominando Girolamo Pignatelli ‘generale del popolo’ con acclamazione universale. Mentre egli si adoperava per mantenere l’ordine pubblico, la deputazione propose la costituzione di una repubblica aristocratica. Negato da Championnet il riconoscimento del nuovo governo, Pignatelli, consapevole della superiorità militare del nemico e incapace di dominare la folla scatenata, con l’aiuto dei patrioti allontanò gli insorti da Castel S. Elmo da cui poi bombardò la città fino all’arrivo dei francesi.
Riconfermato da Championnet nei gradi e nella carica insieme al duca di Roccaromana, partecipò alla celebrazione del Te Deum nel Duomo e nel febbraio 1799 fu inviato come membro della deputazione della Repubblica Napoletana a Parigi per ottenerne il riconoscimento. Fallita la missione diplomatica per l’opposizione del Direttorio, chiese di restare a Parigi per motivi di salute. Obbligato a risiedere 15 leghe lontano dalla capitale perché sospettato di tiepidi sentimenti repubblicani, trovò dimora a Mareuil-sur-Ay nel Dipartimento della Marne.
Nel maggio del 1800 mentre a Napoli infuriava la reazione e i beni del padre, fuggito dalla capitale, venivano confiscati, Pignatelli entrò in polemica con Mack nel difendere la reputazione dell’esercito napoletano: il generale austriaco, fuggito da Parigi senza attendere lo scambio concordato di prigionieri, gettava discredito sull’esercito napoletano e su di lui, accusandoli in una lettera inviata ai giornali francesi di vigliaccheria e fellonia. Per confutare le calunniose affermazioni Pignatelli lo sfidò a duello, senza tuttavia averne soddisfazione. In seguito, quando nel 1805 Mack ripeté le sue accuse su un giornale di Berlino tramite un suo aiutante di campo, l’ormai principe di Moliterno, nuovamente rimasto senza risposta da parte dell’interlocutore, avrebbe fatto recapitare ai giornali stranieri la traduzione in tedesco della sua seconda replica al generale Mack.
Resta oscura e da chiarire l’adesione di Pignatelli a una congiura ordita durante il suo soggiorno in Francia contro Ferdinando IV con l’aiuto di Chiara Spinelli, principessa di Belmonte, e di emissari inglesi, tra cui l’irlandese Dorinde Ausler che Pignatelli sposò civilmente nel 1801. Arrestato a Calais nel settembre 1802 e liberato nell’agosto 1803, non rientrò a Napoli perché escluso dall’amnistia concessa dai Borbone.
Morto a Roma il 20 gennaio 1805 il padre, rimasto vedovo e senza aver avuto eredi dalla seconda moglie, Felice Orsini, Pignatelli gli subentrò nei feudi e nei titoli, ma a causa della nuova invasione francese del Regno fu costretto a vivere lontano dalla patria senza godere i frutti delle sue rendite. Trasferitosi a Berlino, all’approssimarsi delle truppe napoleoniche, nel settembre 1806, dovette fuggire rifugiandosi in Sicilia sotto l’ala protettrice della regina Maria Carolina. Scagionato dall’accusa di aver complottato contro la Corona, svolse apertamente la sua attività contro i francesi. Nel 1808 promosse incursioni e azioni di disturbo, organizzando bande armate allo scopo di conquistare Capri, le isole pontine e la Calabria. Nel 1813 accompagnò la regina Maria Carolina a Trieste e nel 1814 promosse tentativi di sommossa nelle Marche e negli Abruzzi contro Gioacchino Murat. Sconfitto, andò esule a Roma da dove inutilmente cercò il consenso dei legittimisti borbonici e del duca – murattiano – di Roccaromana per promuovere un piano per l’indipendenza italiana di stampo ‘carbonaro-borbonico’. Avendo sfidato a duello Murat, venne espulso dallo Stato pontificio su richiesta del governo napoletano.
Tornati i Borbone a Napoli, nel 1816 Pignatelli presentò una supplica al trono per il riconoscimento del grado di generale e chiese l’assegnazione di un comando provinciale. Il sovrano gli riconobbe di aver svolto missioni militari e diplomatiche per ordine della Corona durante il decennio francese e lo riammise in servizio nell’esercito borbonico. Il patronage reale non lo salvò però dagli antichi procedimenti giudiziari promossi dai creditori contro la famiglia, e in particolare contro il padre durante i soggiorni a Torino, Firenze e Roma, nonché da quelli avviati negli anni del suo esilio; nonostante la gratificazione regia di godere dei diritti sulle acque del fiume Sarno, non recuperò le rendite feudali concesse durante il governo napoleonico allo zio Vincenzo Pignatelli a condizione di saldare tutti i debiti del casato. Anche le entrate delle terre comunali, ormai divise e smembrate tra i nuovi distretti amministrativi di Potenza e Lagonegro, furono assorbite dai creditori.
Pignatelli di Moliterno visse in continue ristrettezze economiche fino alla morte, avvenuta a Napoli il 14 ottobre 1848.
Pochi mesi prima era stato collocato a riposo con il grado di maresciallo di campo e con il ruolo di giudice dell’Alta corte militare.
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