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MORONE, Girolamo

di Giovanni Battista Picotti - Enciclopedia Italiana (1934)
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MORONE, Girolamo

Giovanni Battista Picotti

Nato a Milano nel 1470, vi attendeva, seguiti a Pavia gli studî di legge, all'avvocatura, quando l'assemblea tenuta alla Rosa, dopo la fuga di Ludovico il Moro, gli diede occasione d'entrare nella vita pubblica, proponendo i capitoli della resa a Luigi XII (5 settembre 1499). Ed egli, ch'era di famiglia devota agli Sforza, figlio d'un segretario del duca, accettò dal re di Francia l'ufficio d'avvocato fiscale e con la Francia si tenne anche nella restaurazione sforzesca, di cui comprese bene il carattere effimero; si adoperò tuttavia a impedire le vendette contro i partigiani del governo caduto. Fu ambasciatore a Roma per l'obbedienza a Giulio II; più volte fu presso gli Svizzeri in servigio del re, e li tenne e ne fu tenuto in gran conto; ebbe commissioni nel Monferrato, in Valsesia, a Firenze. Fu creato senatore nel 1507, e nel 1509 governatore di Brescia, tolta ai Veneziani.

Oscuratasi la fortuna di Francia, fu tra i dodici Milanesi inviati a Pavia a giurare nelle mani del card. M. Schinner fedeltà a Massimiliano Sforza (25 giugno 1512) e, divenuto ora "totus Sfortianus", lavorò con fervore ad assicurare lo stato al nuovo duca, al quale apparve presto necessario, anche se non degno di piena fiducia. Mandato a Roma a Leone X, nel marzo 1513, lo esortò con parole eloquenti a mantenere la "libertà d'Italia"; ritornatovi dopo una nuova legazione tra gli Svizzeri, vi stette più mesi (agosto 1513-maggio 1514), adoperandosi ad avere danaro per le paghe agli Svizzeri, ad ottenere la restituzione di Parma e Piacenza, a fare comprendere il duca nella lega di Malines, anzi a promuovere una lega universale "ad defensionem Italiae". E tenendovi, il 14 dicembre 1513, il discorso per l'obbedienza del duca di Milano al pontefice, non esitò a chiamare "giogo di iniquissima tirannide" il dominio francese, a cui aveva servito. Tornò a Roma, sebbene infermo, sulla fine del 1514 per esplorare la mente così coperta di papa Leone. Il duca l'aveva premiato già dei suoi servigi, dandogli, con molti altri proventi, la contea di Lecco (23 novembre 1513).

Dopo la battaglia di Marignano si chiuse col duca nel castello di Milano e ne trattò per quello la resa (4 ottobre 1515); ma per sé provvide a ottenere la conferma della contea e la liberazione del figlio. Le promesse non vennero tenute; i Francesi non si fidavano più dell'uomo, che, pure facendo in segreto aspro giudizio del loro governo e della persona stessa del re, si offriva a servirli. Il M. non accettò l'incarico d'un'ambasceria per il re fra gli Svízzeri, che lo avevano conosciuto principale sostegno dello Sforza, né volle seguire il re in Francia; riparò a Modena e poi a Trento (1518). E, pur non interrompendo le pratiche per riavere dai Francesi le dignità d'un tempo, si volgeva già come a "sua stella" a Francesco Sforza, il duca nominale di Milano; e supplicava l'imperatore Massimiliano di accoglierlo in qualsiasi ufficio, ma non ne aveva se non qualche sussidio.

Mentre il nuovo imperatore Carlo V, alleato col papa e gli Svizzeri, andava preparando la guerra contro i Francesi, il M. organizzò una congiura per sterminarli dalle città lombarde; luogotenente generale del duca Francesco (13 agosto 1521) e commissario per lui al campo della lega, mantenne l'ordine in Milano conquistata e provvide alla difesa; entratovi il duca (giugno 1522), fu gran cancelliere e senatore e "governava il tutto assolutamente" in nome del debole principe. Fu anima della resistenza al Bonnivet e n'ebbe in compenso la contea d'Orio. Disceso in Italia Francesco I, consigliò i Milanesi a sottomettersi al giogo straniero, finché la tempesta passasse (1524); ma attese ad impedire che l'esercito imperiale si disfacesse per mancanza di paghe e consigliò che si desse battaglia a Pavia (24 febbraio 1525).

Esultò della vittoria di Carlo V; ma sentì presto l'intollerabile peso del dominio spagnolo e si avvide che il duca non poteva essere più che un temporaneo luogotenente imperiale. Quando Clemente VII, sotto l'energico impulso del datario Giberti, volle unire gli stati italiani e la Francia, il M., accogliendo un'idea che era balenata alla Curia, volle fare partecipe di quella che ebbe il nome di sua "congiura" il comandante supremo delle milizie imperiali in Italia, il Pescara, offrendogli la corona di Napoli; e a lui, del quale pure conosceva la scarsa fede, rivelò intiero il trattato. Il Pescara forse non fu del tutto sordo all'invito; ma, vedendo troppo bene che non era da fidare della Francia, né della concordia fra gl'Italiani, ritenne più sicuro informare Carlo V. E simulò tuttavia favore all'impresa per scoprire terreno e cavare denaro. Poi, data sicurtà al M. di venire al campo a Novara, lo fece prigioniero (15 ottobre 1525). Il M. si abbassò allora a scrivere una confessione, nella quale dava grande carico al duca e si vantava d'avere provveduto perché, morendo questo, lo stato passasse a Carlo V. Fu tuttavia tenuto prigioniero a Pavia, e poi a Trezzo e a Milano, quantunque il Pescara gli conservasse i suoi beni e lo raccomandasse, anche morendo, all'imperatore. Questi volle che gli fosse imposta un'enorme taglia; il M. non la soddisfece che in parte; ma dal connestabile di Borbone, luogotenentee imperiale, ebbe un "privilegium gratiae" (1° gennaio 1527), con la restituzione delle contee.

Il M. è ora "schiavo" di Carlo V, segue l'esercito del Borbone e del Frundsberg, procura anzi denaro per pagare i mercenarî ed è "potissima parte" dello sciagurato trionfo di quell'esercito. Dopo l'entrata di questo in Roma, vi resta nove mesi, adoperandosi alla liberazione del papa, che se l'è guadagnato con la promessa d'un vescovato al figlio. Ma, quanto all'Italia, egli pensa al modo perché sia tutta in mano di Cesare: giunge fino a cedere a Giacomo Medici la sua contea di Lecco per trarlo a parte imperiale. È "commissario generale" dell'esercito nell'impresa di Napoli, e dall'Orange, di cui è l'uomo di fiducia, ha Boiano e altri castelli con ricchissime entrate (1528). Caldeggia l'impresa contro Firenze ed è nel campo dell'Orange, quando lo coglie improvvisa la morte (15 dicembre 1529).

Uomo d'ingegno, d'attività, d'accortezza singolari, oratore eloquente anche se trascurato nella forma, scrittore di lettere ricche di avvedutezza politica, fu ambizioso, avido, sempre pronto, come un contemporaneo scrisse di lui, a sedere su due scranne, "costumato - scrisse egli stesso - ad servire con tutta la forza dell'animo e del corpo ad chi gli accadesse promettere sua servitude". E parlò per vero più volte e forse, in qualche momento, sentì altamente come italiano; ma cacciò sé stesso e il ducato milanese, al cui ingrandimento pur voleva servire, e contribuì a cacciare l'Italia nei viluppi d'una politica tortuosa. Rappresentante caratteristico di un'età, in cui l'Italia, fra tanta fioritura d'ingegni e acutezza d'uomini politici e tanto splendore di lettere e d'arti, perdeva, non in tutto per sua colpa ma certo non senza sua colpa, la libertà.

Bibl.: D. Promis e G. Müller, Lettere ed orazioni latine di G. M., in Miscell. di stor. it., II (1863); G. Müller, Documenti che concernono la vita pubblica di G. M., ibid., III (1863); C. Gioda, G. M. e i suoi tempi, Torino 1887, dove sono ricordati gli scritti prec. Cfr. poi T. Pandolfi, in Arch. della R. Soc. rom. di st. patr., XXXIV (1911), p. 196 segg.; L. Pastor, St. dei papi, trad. it., IV, Roma 1921; F. Ercole, Da Carlo VIII a Carlo V, Firenze 1932.

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