MORONE, Girolamo
– Nacque a Milano nel 1470 da Giovanni di Bartolomeo (1431 - post 1500), cancelliere e segretario del consiglio di giustizia, e da Anna di Taddeo Fossati (testamento 29 novembre 1499), e pertanto «non … di grande parentato» (come scrisse dopo la sua morte, pur nel contesto di un caldo elogio, Francesco II Sforza, in una lettera a Giorgio Andreasi: cit. in Sacchi, 2005, I, p. 37). Figlio non primogenito della coppia, ebbe come fratelli, tra gli altri, Giovanni Bartolomeo, frate agostiniano in S. Maria Incoronata, Giovanni Tommaso, cancelliere come il padre dal 1495, e Taddeo, canonico del duomo dal 1494.
Si addottorò in entrambi i diritti a Pavia. Almeno dal 1498 fu ascritto al collegio milanese dei giureconsulti e intraprese forse un apprendistato nella cancelleria segreta ducale. Considerate le doti intellettuali che gli vennero universalmente riconosciute dai contemporanei, a cominciare da Francesco Guicciardini, sembra legittimo supporre che sia stato uno dei protagonisti della mobilitazione di maggiorenti e popolo che seguì la partenza di Ludovico il Moro (31 agosto 1499). A quanto affermò sarebbe stato addirittura l’estensore dei capitoli presentati dalla città a Luigi XII: di certo il 17 ottobre fu uno dei due sindaci designati a quello scopo dalla parrocchia di S. Martino a Nosigia, dove risedette a lungo, come molti agnati. È possibile che a questi primi contatti col consiglio regio come procuratore della città vada ricondotta sia la prima carica nota (luogotenente del vicario di provvisione) sia la nomina ad avvocato fiscale (ottobre 1499).
Sembra che, malgrado le insistenze dei familiari, filosforzeschi e ghibellini, non abbia preso parte alla sollevazione di Milano del gennaio 1500 in favore di Ludovico il Moro, col quale non collaborò durante il breve ritorno (1° febbraio - 10 aprile 1500). Tornati i francesi, si attribuì il merito di averne ottenuto il perdono per la città, imputandone la ribellione alla pretesa tirannia di Gian Giacomo Trivulzio, luogotenente regio nello Stato di Milano dal novembre 1499 al gennaio 1500.
Almeno nel 1504 anche uno dei Dodici di provvisione, riprese la carica di avvocato fiscale, che mantenne fino al 1507, quando fu promosso senatore. Anche in questa veste svolse l’intensa attività diplomatica già esercitata in precedenza (almeno quattro missioni presso gli svizzeri tra 1503 e 1507): fu a Firenze (1508 o 1509), presso i cantoni svizzeri e presso il legato imperiale a Mantova (marzo 1511). Fu inoltre podestà di Brescia dal 26 luglio 1509 al dicembre 1510. Nel giugno 1512, quando le forze francesi incalzate dagli eserciti della Lega santa lasciarono lo Stato di Milano, Morone, a suo dire con loro autorizzazione, rimase in città, dove sembra abbia fatto parte del gruppo al governo, e forse addirittura dei Ventiquattro eletti delle porte. Certo fu uno dei due oratori di Porta nuova inviati a giurare fedeltà alla Lega e a Massimiliano Sforza (giugno 1512); pare avesse influenza sul cardinale legato Matteo Schiner, che avrebbe convinto a nominare governatore di Milano Ottaviano Sforza, vescovo di Lodi, di cui poi si vantò di aver sventato un tentativo di farsi duca di Milano (settembre 1512). Malgrado il più che decennale servizio nel regime francese, Morone ebbe cariche di rilievo nel triennio sforzesco e rimase al servizio del duca anche durante il breve ritorno dei francesi a Milano a fine maggio 1513: almeno dal dicembre 1512 fu consigliere segreto; nell’aprile 1513 divenne uno dei quattro praefecti rei pecuniariae; nel luglio è definito «supremo segretario». Nel luglio 1514, probabilmente in connessione con un’epurazione delle magistrature dagli elementi filoimperiali pretesa dagli svizzeri, Morone, ritenuto fautore di una Lega italoelvetica mal vista dall’imperatore, fu nominato conservatore dello Stato, e tale rimase fino alla caduta di Massimiliano. Il 23 novembre 1513 ebbe, con un’investitura che fece scandalo, la contea di Lecco (che si fece poi garantire al ritorno dei francesi e recuperò, dopo la confisca del 1518, nella seconda restaurazione sforzesca; gli fu riconosciuta anche dagli imperiali dopo il suo rilascio, nel 1527, ma senza effetto per le vicende belliche, e fu ufficialmente ceduta nel 1529 dietro compenso in denaro). Tra l’aprile 1513 e il giugno 1515 fu impiegato in ripetute missioni diplomatiche a Roma, dove fu considerato insostituibile per «ingenio e experientia grande» (Müller, 1865, p. 76) e affiancò, con mandati ampi e per questioni molto rilevanti, l’ambasciatore residente Marino Caracciolo. Negli intervalli fu impiegato nei rapporti con gli svizzeri (fine maggio - inizio giugno 1513); ma venne ritenuto indispensabile anche a Milano, dove ebbe mansioni di coordinamento della politica estera e della fiscalità straordinaria, e divenne infine uno dei cinque consiglieri ammessi alla piena confidenza del duca, a fianco del quale si trovò durante i tumulti milanesi del giugno 1515 e la successiva campagna francese. Per suo consiglio, secondo il sarcastico Giovanni Andrea Prato (1842, p. 337), il duca «deliberò di provare se con la forza del populo minuto potea cacciare il re di Franza», quando, all’inizio di settembre, il popolo, in contrasto con gli accordi di capitolazione presi dai Ventiquattro eletti delle porte col consenso del duca, impugnò le armi contro i soldati francesi guidati da Gian Giacomo Trivulzio. Tuttavia Morone fu poi considerato un traditore, responsabile della capitolazione del castello di Milano (4 ottobre 1515), con patti che contenevano anche clausole a lui favorevoli (reintegrazione nella carica di senatore, feudo di Lecco, carica di maitre de requêtes). Nonostante ciò nel 1516 si ritirò nell’Alessandrino e da lì, nel luglio, a Modena, dove era governatore pontificio Francesco Guicciardini e dove si trattenne fino all’agosto 1518, quando raggiunse Trento; lì si aggregò ai fuoriusciti milanesi nel seguito di Francesco Sforza, avendo ottenuto la sospirata grazia dell’imperatore Massimiliano I.
Morone è indicato da Guicciardini, con cui rimase in rapporto epistolare, come autore di un piano fondato sulla fazione ghibellina, che prevedeva la simultanea insurrezione, nel giugno 1521, di diverse città dello Stato di Milano e attacchi di fuoriusciti filosforzeschi da Nord (via Como, sotto Manfredo Pallavicini) e da Reggio Emilia. Il piano fallì, ma la lega tra Carlo V e il papa sconfisse egualmente i francesi. Morone, nominato il 13 agosto 1521 commissario generale di Francesco Sforza presso l’esercito imperiale, fu al campo sotto Parma, «secretario inseparabile» (Guicciardini, 1996, VI, p. 237) del generale imperiale Prospero Colonna, e in novembre al governo di Milano come luogotenente ducale, affiancato da un consiglio segreto.
Morone si provvide allora di una guardia insolitamente folta (più di 300 «schiopeteri», fanti e «cavalli»: Sanuto, 1879-1903, XXXII, col. 272), grazie alla quale scampò (gennaio 1522) a un attacco di Ettore Visconti detto Monsignorin, abate commendatario di S. Celso ucciso qualche mese dopo, per ordine di Girolamo e forse dello stesso duca; uno dei sicari fu Gian Giacomo Medici detto il Medeghino, che sarebbe divenuto poi castellano di Musso, plausibilmente non senza l’appoggio di Morone, che più tardi (1528) fu mediatore dell’accordo tra Medici e il capitano e governatore imperiale Antonio de Leyva. Come governatore e luogotenente ducale e poi, dopo l’arrivo di Francesco II Sforza a Milano (4 aprile 1522), come supremo cancelliere dello Stato (con autorità pari non solamente a quella del primo segretario sforzesco, ma anche a quella dei «Principum et Regum Cancellarii magni» secondo il decreto istitutivo del 18 maggio 1522), «persona di iuditio che aveva in mano il governo dello stato» (Sanuto, 1879-1903, XXXVIII, col. 257), dovette fronteggiare i problemi posti dalla perdurante guerra contro la Francia; all’occasione prese anche il comando di fanti arruolati dalla città (1522); partecipò a consigli di guerra e trattò coi generali alleati a nome del duca, che il 21 settembre 1524 lo investì della contea di Orio nel lodigiano. Il 19 ottobre 1524 Morone dovette abbandonare Milano ai francesi, e si stabilì per lo più a Lodi, accanto al marchese di Pescara, Ferdinando Francesco d’Avalos, comandante dell’esercito imperiale, poi al campo vicino a Pavia.
Di fronte allo strapotere imperiale determinatosi dopo la sconfitta francese a Pavia (25 febbraio 1525), Morone (rientrato con il duca a Milano e personalmente acclamato dal popolo) concepì, con il papa e Venezia, quella che venne poi chiamata la sua congiura: un’alleanza antimperiale degli Stati italiani (incluso il duca di Milano, vassallo dell’imperatore) col sostegno della Francia. Morone credette di poter contare sulla partecipazione dello stesso marchese di Pescara, cui si era promessa la corona del Regno di Napoli. D’Avalos, tuttavia, fece il doppio gioco e fece arrestare Morone a Novara il 15 ottobre 1525. Accusato anche di aver tramato a favore di una successione di Massimiliano Sforza in caso di morte del duca e sottoposto a tortura, Morone dopo una decina di giorni confessò. Rimase per poco più di un anno in dorata prigionia nel castello di Pavia (da cui tentò invano di evadere), poi a Trezzo e infine a Milano, dove nel novembre 1526, sotto minaccia di decapitazione, acconsentì a pagare una taglia di 20.000 ducati al duca Carlo III di Borbone, di cui divenne da quel momento fido collaboratore. Al seguito di Borbone Morone (che compare nell’elenco dei capitani imperiali che firmarono la capitolazione del papa Clemente VII) si trovò a Roma al tempo del Sacco e vi rimase coadiuvando il governo militare almeno fino al febbraio 1528.
Considerato dagli imperiali un esperto nel cavare denari, fu impiegato in tal modo a Milano (1527) e a Napoli (1528); commissario generale dell’esercito imperiale in Italia, fu al governo di Napoli dopo la fine dell’assedio (1528), condusse i processi contro i ribelli e ottenne l’investitura della città di Boiano e di altre terre in Molise e Terra di Lavoro; nel settembre 1529 partì con superbo seguito per raggiungere l’esercito e, raggiuntolo, morì improvvisamente per apoplessia al campo presso Firenze, il 15 dicembre 1529. Un mese dopo Francesco II Sforza, di fresco restaurato duca di Milano, gli decretò solenni esequie; fu sepolto nel sepolcro paterno a S. Maria della Scala.
Morone aveva sposato nel 1501 Amabilia di Antonio Fissiraga e di Elena Cadamosto, ereditiera lodigiana e vedova, da cui ebbe Giovanni Antonio (n. 1505), Giovanni (n. 1509), vescovo di Modena e poi cardinale, Sforza, sposato a Camilla Doria, nipote di Andrea, un numero imprecisato di figli maschi ancora minorenni alla sua morte, nonché almeno cinque femmine che furono sposate la prima a Giorgio Corio, Chiara a Alessandro Pallavicino, Anna (n. 1507) al conte Massimiliano Stampa, Eleonora (n. 1508) a Gerolamo di Bergonzio Botta, Amabilia (n. 1510) a Catellano Gallarati.
La non disprezzabile dote della moglie, 3000 ducati, era il doppio del terzo a lui spettante dell’eredità paterna, pervenutogli nel 1503; fino al 1507, come avvocato fiscale, dovette percepire un salario di 400 lire tornesi annue, e poi di 600 come senatore. Nel 1524, all’apice della sua carriera, era tra i maggiori estimati di Milano, il ventitreesimo in ordine decrescente, con 32.000 ducati; nel 1526 aveva dovuto indebitarsi per pagare la taglia per il suo riscatto; nel 1529, come commissario generale cesareo, percepiva una provvigione di 200 scudi al mese; i feudi assegnatigli fruttavano oltre 2000 scudi l’anno.
Malgrado le riserve di Guicciardini e l’ostilità suscitata dalla prontezza con la quale metteva la sua «professione» (Müller, 1871, pp. 230 s.) al servizio di padroni diversi, nelle fonti coeve prevale l’ammirazione per la sua abilità diplomatica, per molti anni volta a sostenere uno Stato di Milano autonomo e governato da un principe «naturale» (il che fu all’origine della sua fortuna storiografica risorgimentale), e anche per le «astuzie moronesche» (Sanuto, XLVIII, 1897, col. 482) con cui riusciva a spillare soldi a popolazioni non collaboranti. Molto attento alla costruzione del consenso, soprattutto con Francesco II Sforza Morone impostò un’organica politica interna, offrendo garanzie alle élites – con l’istituzione di un senato dotato di pieni poteri di controllo sulle decisioni e le leggi del principe e formato, oltre che da tecnici giuristi, da rappresentanze cetuali (ecclesiastici, milites, casato Visconti) – e anche alla città, col ricorso a varie forme di comunicazione politica basate sulla partecipazione: organizzò una milizia stabile con un conestabile per ciascuna parrocchia e un capitano per ciascuna porta, coinvolse la popolazione nelle decisioni, anche fiscali, riformò l’estimo (1524) e non trascurò l’uso politico dei predicatori. Il risultato fu una buona collaborazione (anche nella caccia ai sospetti filofrancesi) e un diffuso lealismo sforzesco nella popolazione milanese.
Morone (che scrisse anche poesie ed epigrammi) lasciò tre volumi autografi di lettere e orazioni latine dal 1499 al 1518 (lacuna fra il 1509 e il 1511). Delle Epistolae è perduto l’autografo del libro I (già in Biblioteca Belgioioso, cod. 294), mentre l’autografo del libro II in 2 volumi si conserva presso la Biblioteca Trivulziana di Milano (mss. triv. 821-822) e quello del libro III a Venezia, nella Biblioteca Marciana (classe XIII cod. LXXV ms; copie non identiche in Milano, Biblioteca Ambrosiana, Z 151-153 sup e Trotti 130 e 117). Benché si tratti di una «esposizione storica in forma epistolare» (Ranke, cit. nell’introduzione a Lettere ed orazioni latine ..., a cura di Promis e Müller) ben più che di lettere effettivamente spedite, del tutto verosimili sono i destinatari: oltre al poeta Lancino Curti, e al medico ducale Luigi Marliani, familiari quali il padre, il cognato Giovanni Marco Della Croce, il cugino Giovanni Angelo Salvatici, il parente d’acquisto Lorenzo Toscani, vari amici, tutti membri della cancelleria segreta di Ludovico il Moro, colleghi e superiori con cui Morone aveva studiato o lavorato, diplomatici e uomini di governo con cui aveva trattato. Anche i temi delle lettere riflettono, forse con qualche forzatura e protagonismo, la sua attività, soprattutto quella diplomatica; di grande interesse le analisi della società e della vita politica milanese, fazioni e ceti, di fronte ai mutamenti politici. Il criterio ordinatore seguito negli autografi è sostanzialmente cronologico, e fu perfezionato, ma non sovvertito, dagli editori ottocenteschi, che espunsero alcuni decreti e inclusero altre lettere latine da loro rinvenute, fino al 1519 (Lettere ed orazioni latine di G. M., a cura di D. Promis - G. Müller, in Miscellanea di storia italiana, II, Torino 1863). Non è opera di Morone, ma di un omonimo nipote, la raccolta manoscritta di scritti e documenti relativi agli anni 1520-1530 in parte trascritti da Tullio Dandolo nel volume Ricordi inediti di G. M.… che ebbe due edizioni (Milano 1855 e 1859).
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