MORLINI, Girolamo
MORLINI (Morlino, de Morlinis, Merlino), Girolamo. – Non ne sono noti documentalmente il luogo e la data di nascita, così come l’origine della famiglia. Non è infatti dimostrata la parentela con un Gregorio de Morlinis da Sulmona, morto a Napoli prima del 1470, e con due fratelli, Francesco e Morlino de Morlinis da Chieti, il secondo dei quali insegnante di diritto a Napoli verso il 1530. Poiché è accertato che nel 1513 possedeva il titolo dottorale in utroque iure, si può congetturare che abbia frequentato lo Studio di Napoli nel primo decennio del secolo e far risalire la nascita al periodo compreso tra gli anni Settanta e i primi Ottanta del secolo precedente.
Nell’anno accademico 1513-14 lesse i libri II e IV degli Instituta nello Studio napoletano con la modesta provvisione annua di 12 ducati, che gli fu confermata per l’anno successivo. Tale insegnamento non consisteva in una cattedra stabile, ma in corsi di introduzione ai fondamenti del diritto, che venivano affidati con incarico annuale a lettori straordinari, utilizzando fondi eventualmente rimasti liberi nel bilancio dell’università. Spesso, per contentare i numerosi aspiranti, la lettura era divisa tra più incaricati, con conseguente riduzione del compenso, come nel caso di Morlini, che fu affiancato da colleghi che lessero i libri I e III. Poiché il suo nome non ricorre nei registri universitari dopo il 1515, si deve concludere che l’esperienza rimase circoscritta a quegli anni.
Del mondo universitario resta memoria nelle Novellae pubblicate da Morlini nel 1520: la VII si apre con un caldo elogio di Ettore Carafa conte di Ruvo, alla munificenza del quale si deve l’ampliamento dei locali dell’università a spese del convento di S. Domenico Maggiore; protagonista della LXVIII è invece uno studente inetto che riesce a conseguire la laurea grazie alla protezione paterna.
Scarse tracce restano pure dell’attività forense di Morlini. Il 18 luglio 1524 i giudici del Sacro Regio Consiglio emisero una sentenza a suo favore contro un cliente, tale Giovanni Basterio, che si era rifiutato di pagargli l’onorario pattuito. L’anno dopo, il 17 marzo, perse invece una causa contro un tale Abbondanza da Venafro. Nel 1528, insieme con il fratello Pirro Antonio, era in causa contro un certo Iacopo Vespolo. È probabile che facesse parte della numerosa schiera di procuratori legali che a Napoli si dividevano in un regime di agguerrita concorrenza il gran numero di cause, spesso di modesto rilievo e poco remunerative, che la complessa legislazione del Viceregno alimentava. Nella premessa delle Novellae si presenta in cattive acque («licet vacuus ad amara littora pauperatis ipse iacerem», p. 6) e dichiara di essersi applicato all’opera per non trascorrere senza profitto il poco tempo concesso dallo studio del diritto («ne ocio atque desidia marcesserem», ibid.).
Nella scarsezza di notizie, restano ignoti anche il luogo e la data della morte di Morlini. Poiché l’opera storica trasmessa con il suo nome, il De bello Mediolanensi, narra gli avvenimenti compresi tra il 1521 e il 1525, è probabile che sia di non molto posteriore a quest’ultima data.
Il nome di Morlini è legato alle Novellae, apparse, con questo titolo riduttivo rispetto al contenuto, a Napoli presso il tipografo di origine francese Jean Pasquet de Sallo, con data 8 aprile 1520 e privilegio decennale dell’imperatore e del pontefice. L’edizione è oggi assai rara (se ne conoscono tre esemplari). Il volume si compone di 81 novelle, 20 favole e una Comedia, in un unico atto. L’insolita misura di 101 racconti è probabilmente dovuta a una svista occorsa dall’autore nell’esemplare consegnato in tipografia, poiché nella stampa si ripete il numero LXXII e la presenza di una novella in più non può essere imputabile all’imperizia del tipografo. In una nota stampata in fine del libro dopo la nutrita tavola degli errori, Morlini lamenta di non avere avuto modo di correggere tutte le mende sparse nel testo. Il tono astioso di queste righe rivela un carattere risentito che emerge anche dalla premessa (indirizzata al lettore invece che a una personalità illustre), chiusa da un’invettiva «contra invidos, calumniatores atque malivolos» (p. 8), indice, piuttosto che di un clima apertamente ostile, dell’isolamento nel quale Morlini operava. Non contribuiscono a dare evidenza all’opera nella società letteraria napoletana i due epigrammi posti in apertura, l’uno di Pietro Gravina, l’altro di Salvatore Piccolo, il primo umanista di scuola pontaniana, il secondo personaggio di modesta caratura uscito dalla scuola del grammatico Giovanni Scoppa. Lo stesso Pasquet fu editore di indirizzo non umanistico, il che conferma l’estraneità dell’opera e del suo autore agli ambienti più prestigiosi della cultura napoletana di quegli anni.
Sprovvista di una cornice che funga da connettivo dei singoli racconti, la raccolta di Morlini privilegia la misura breve, che comporta esilità di intreccio e rinuncia all’approfondimento psicologico e d’ambiente. Uniti alla scelta del latino e all’inedita partizione tra novelle e favole, questi fattori collocano la raccolta lontano dal modello boccacciano, destinato a imporsi nella novellistica cinquecentesca. Il contenuto delle novelle è calibrato su una dimensione quotidiana di basso rango, fatta di inganni, adulteri, motti e canzonature, raggiri, astuzie meschine, soddisfazione dei più bassi istinti, con protagonisti e contenuti che mai si distaccano dalle passioni meno nobili dell’essere umano. Elemento di unità è l’ambientazione napoletana, con limitate escursioni in altre località del Regno (il santuario di Montevergine, presso Avellino, nella novella LVI) o in altre regioni d’Italia (a Roma le novelle XXXIX, XLII; a Milano la novelle XLI, LXII; nelle Fiandre la novella XLVII). L’ambientazione, per altro, è puramente esteriore e non diviene mai componente dinamica della narrazione, così come pure i personaggi storici che si affacciano restano per lo più presenze sullo sfondo, non partecipi alle vicende narrate, o altrimenti la manipolazione dei fatti avviene con tale sprezzo della verità storica da non conservare alcun rilievo documentario (come nella novella V, protagonisti Sisto IV e il nipote Girolamo Riario). Molti materiali narrativi risalgono alla tradizione medievale dei predicatori, degli exempla, dei fabliaux, riproposta in epoca piu vicina a Morlini dalla facezia umanistica, oppure si è voluto ricondurli alle fonti orali dell’aneddotica popolare. Allo spunto pedagogico del narrare breve Morlini si riaggancia sin dalla premessa, dove presenta le sue narrazioni come «non minus facetas quam utiles [...] novellas ac fabulas» (p. 6), ma esso diventa elemento strutturale con il finale moraleggiante di tipo esopiano presente non solo nelle favole, ma pure nelle novelle. Redatte in forma stringata e schematica, tali morali sono però quasi sempre inadeguate al contenuto dei racconti, spesso licenzioso e apertamente osceno, da cui solo in maniera molto artificiosa si può pretendere di ricavare insegnamenti.
Il dialogo con le fonti letterarie riconoscibili in maniera più precisa risulta limitato e superficiale. Dichiarato è l’impiego di Apuleio, dal quale Morlini ricava però soltanto due aneddoti (novelle XXXI, XXXV) già resi celebri da Boccaccio nelle novelle di Pietro da Vinciolo e di Peronella (V, 10; VIII, 2). Da Decameron, IX, 2 deriva la novella XL; da X, 1, con rimaneggiamenti, la novella V. Poco più numeroso è il contributo del Liber facetiarum di Poggio Bracciolini, riconoscibile nella trama di sei novelle, ma lo sfruttamento degli esili raccontini braccioliniani avviene senza introdurre un vera evoluzione narrativa. Emerge al contrario costante lo sfruttamento dell’Asino d’oro al livello del linguaggio, in direzione di un’espressività giocata soprattutto sul piano del lessico, mentre la sintassi non rivela doti di grande prosatore. Gli inserti da altri autori della latinità aurea e argentea (Cicerone, Orazio, Virgilio, Ovidio, Seneca) o estranei alla norma classica e fornitori di curiosità linguistiche (Festo), la presenza del latino ecclesiastico, le interferenze fonetiche e morfologiche con il volgare, le incertezze grammaticali danno luogo a un singolare impasto, dai toni a tratti gergali e di ardua decifrazione, che pone Morlini decisamente al di fuori della linea selettiva del classicismo cinquecentesco, ma costituisce l’elemento più originale e vitale dell’opera. Dietro l’ispido latino di Morlini, lontano dallo stile elegante e raffinato della scuola napoletana erede del magistero pontaniano, si deve pertanto vedere il tentativo, destinato a rimanere senza seguito, di forgiare uno stile adatto a rappresentare in maniera icastica la realtà bassa eletta a oggetto della narrazione, rispetto alla quale l’autore intende introdurre un elemento di scarto linguistico.
Questa ricerca perseguita in toni accentuati nelle novelle si ridimensiona nelle favole, in cui Morlini opta per il registro fantastico e la formula esopiana del racconto zooepico, rinnovata nella cultura napoletana dalle traduzioni latine di Lorenzo Valla e di Francesco Del Tuppo. Nella lingua la presenza dominante resta Apuleio, ma integrato dal lessico mutuato dai favolisti latini (Fedro, Aviano) e dalle parabole evangeliche. A differenza del clima generalmente vizioso che pervade le novelle, i contenuti delle favole si orientano verso una medietas più conveniente alle dichiarazioni di utilità formulate da Morlini nella premessa, con il risultato di un maggior equilibrio tra racconto e insegnamento finale, ma anche con il prevalere di un registro sermoneggiante che occupa lo spazio del racconto assorbendo la narrazione.
In calce al volume delle Novellae è collocato il breve atto unico intitolato Comedia, in esametri, preceduto dal prologo e dall’argomento, e chiuso da un congedo di quattro versi, tutti in senari giambici. Manca un vero intreccio. Il personaggio di Leucasia, la quale, amata a un tempo da Oreste e da Protesilao, disdegna il primo, desiderosa di unirsi al secondo, adombra le vicende di Napoli, contesa negli anni a cavaliere tra il XV e il XVI secolo tra Luigi XII e Ferdinando d’Aragona. Oreste (Luigi XII) si lamenta con Pontico di essere stato abbandonato, entra in scena Leucasia ed egli tenta di riguadagnarla, ma è respinto, appare infine Protesilao (Ferdinando), che mette in fuga il rivale e si congiunge felicemente con l’amata. È chiaro l’intento celebrativo di rappresentare la sconfitta dell’effimero tentativo francese di impadronirsi del Regno e l’imporsi della monarchia spagnola, alla quale Morlini dichiara la sua devozione. La commedia va collocata dopo il 1503, quando a seguito delle sconfitte di Cerignola, Seminara e del Garigliano le truppe francesi furono costrette ad abbandonare l’Italia meridionale, e in sostanza festeggia questo avvenimento, ma i versi in cui si accenna a Spagna, Germania, Inghilterra e Italia congregate contro la Francia (c. CIXr-v) sembrano alludere alla costituzione della Lega Santa per volere di Giulio II e dunque spostare la datazione al 1512. Sebbene un passo del prologo paia alludere a una messa in scena, non resta notizia di rappresentazioni, cosa del resto non sorprendente, data la scarsità di informazioni sul panorama teatrale a Napoli per i primi decenni del Cinquecento.
Il manoscritto miscellaneo settecentesco della Biblioteca reale di Torino, Saluzzo, 23, cc. 1r-61r, conserva col nome di Morlini il De bello Mediolanensi inter Franciscum I regem Gallorum et Carolum V imperatorem gesto, in quattro libri, sul conflitto tra Francesco I e Carlo V per il possesso del ducato di Milano tra il 1521 e la prigionia di Francesco I dopo la battaglia di Pavia (1524-25). Ancora in attesa di essere studiata, l’opera è redatta in un latino piano e corretto, che la colloca nel solco della storiografia umanistica, con cui condivide tratti tipici come i discorsi dei protagonisti. Nonostante Giovanni Villani (1983, pp. L s.) abbia rilevato nell’opera intenti narrativi e stilistici che la collegherebbero al resto della produzione morliniana, allo stato delle conoscenze si deve pensare piuttosto a un Morlini in grado di dominare il latino classico e che pertanto la lingua ibrida delle novelle sia risultato di una precisa ricerca espressiva.
Le novelle morliniane furono messe all’Indice nel 1559 per la loro oscenità. Pochi anni prima Giovanfrancesco Straparola tradusse 23 racconti dello scrittore napoletano e li inserì con i necessari adattamenti nel secondo libro delle sue Piacevoli notti (Venezia 1553), operazione generalmente giudicata nei termini di un plagio – fenomeno abbastanza diffuso nella novellistica cinquecentesca –, operato disinvoltamente dal novelliere settentrionale per costituire in tempi rapidi una seconda raccolta e sfruttare il successo ottenuto della prima (ibid. 1550). La favola sesta della giornata VIII delle Piacevoli notti, tradotta dalla novella XXXII di Morlini, fu inclusa da Francesco Sansovino ne Le cento novelle scelte da’ più nobili scrittori della lingua volgare, Venezia 1562, giornata VIII novella 9. Dimenticate altrimenti dai contemporanei e dai posteri, le Novellae riscossero un non comune interesse editoriale in età moderna. Nel 1794 Anton Maria Borromeo diede notizia di un codice delle sole novelle in suo possesso, oggi introvabile, in cui Morlini lamentava degli errori commessi nella princeps e progettava una seconda edizione delle sole novelle con l’aggiunta di nove inedite. Di queste Borromeo pubblicò una sola, che non offendeva le orecchie dei lettori, mentre tutte e nove furono trascritte da Giulio Bernardino Tomitano in un manoscritto miscellaneo datato 1825, ora alla British Library (segn. 12470.i.9 degli stampati), dove una nota dello stesso Tomitano su una guardia avverte che esse furono composte nello stile di Morlini dall’abate Michele Colombo per prendersi diletto di Borromeo («una spiritosa burla» la definisce Gamba, 1835, p. 138; per l’attribuzione degli apocrifi a Daniele Franciosini, amico di Borromeo e bibliotecario padovano, cfr. Villani, 1980, p. 191; si aggiunga che la misura insolita di nove inediti era giusto quella necessaria per arrivare al numero tondo di 90 novelle). Un’edizione integrale della stampa Napoli 1520, Opus Morlini, complectens novellas, fabulas et comoediam, integerrime datum, fu eseguita in soli 56 esemplari, a Parigi nel 1799 per cura del bibliofilo Pierre-Simon Caron. Édouard-Thomas Simon de Troyes nel 1800 approntò il testo latino delle sole novelle, aggiungendone altre 18 di sua fattura per arrivare, con la novella apocrifa pubblicata da Borromeo, al numero canonico di 100. La stampa, con traduzione francese, non fu poi eseguita (nel 1853 il manoscritto fu acquistato dalla Bibliothèque municipale et Archives anciennes di Troyes, dove oggi si trova). L’edizione delle Novellae, fabulae, comoedia, Parigi 1855, curata da Étienne-François Corpet, che redasse anche un sobrio ma utile commento, segue la princeps, ma con errori e interventi che la rendono inaffidabile, e raccoglie in appendice le 19 novelle spurie aggiunte da Simon de Troyes. Per le edizioni successive (tra cui si segnala quella a cura di Albert Wesselski, München 1908) cfr. l’edizione critica delle Novelle e favole, a cura di Villani, Roma 1983, pp. 488 s., che si è utilizzata per le citazioni.
Fonti e Bibl.: E. Cannavale, Lo Studio di Napoli nel Rinascimento, Torino 1895, docc. 1233-1235, 1281 (con il cognome Merlino); Notizia de’ novellieri italiani posseduti dal conte Anton-Maria Borromeo, Bassano 1794, pp. 58-60, 209-215; B. Gamba, Delle novelle italiane in prosa. Bibliografia, Firenze 1835, pp. 137 s., 162, 266, 272; M. Radin, A disputation in an Italian novel, in The Jewish quarterly review, n.s., III (1913), pp. 511-516; B. Croce, I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo, Bari 1916, pp. 14 s.; L. Di Francia, Novellistica, I, Milano 1924, pp. 580-591, 714; I. Sanesi, La commedia, I, Milano 1954, pp. 172 s., 768; C. De Frede, G. M. novellista napoletano del ’500, in Il Fuidoro, III (1956), pp. 100-102; Id., G. M. lettore nello Studio di Napoli e dimenticato novellista del Rinascimento, Firenze 1958; F. Secret, Notes sur les hébraïsants chrétiens, in Revue des études juives, CXXIV (1965), pp. 166-168; P.O. Kristeller, Iter Italicum, II, London-Leiden 1967, p. 187; P. Manzi, La tipografia napoletana del ’500, Firenze 1971, pp. 246 s., tavv. VIII-X; M. Guglielminetti, Introduzione a Novellieri del Cinquecento, I, Milano-Napoli 1972, pp. X-XIII; G. Villani, Appunti per un’edizione delle novelle e delle favole di G. M., in Filologia e critica, I (1976), pp. 190-225; M. Guiglielminetti, Dalle «novellae» del M. alle «favole» dello Straparola, in Medioevo e Rinascimento veneto con altri studi in in onore di Lino Lazzarini, II, Padova 1979, pp. 69-81; G. Villani, Seconda premessa all’edizione delle novelle e favole di G. M., in Filologia e critica, V (1980), pp. 183-208; Id., Da M. a Straparola: problemi di traduzione e problemi del testo, in Giornale storico della letteratura italiana, CLXIX (1982), pp. 67-73.