MOLIN, Girolamo
– Nacque a Venezia in un giorno non precisabile dell'anno 1500, da Pietro, di famiglia aristocratica e inserito nei quadri dell’amministrazione della Repubblica con incarichi di secondo piano, e da Chiara Cappello, di famiglia nobile, figlia del generale d’armata Nicolò e sorella di Vincenzo, anch’egli come il padre destinato a ricoprire incarichi militari di grande rilievo, sino a essere eletto senatore. Dal matrimonio nacquero dopo il M. almeno altri due figli: Nicolò e Giacomo.
Scarse sono le notizie sulla formazione giovanile del M., ma è assai probabile che abbia inizialmente intrapreso gli studi di diritto, in vista di una carriera negli apparati della Serenissima. Ben presto però dovette dimostrare uno scarso interesse verso questi studi e un altrettanto modesto entusiasmo di fronte alla possibilità di dedicarsi alla vita pubblica, tanto che, a differenza di quanto accadde per i fratelli, avviati alla carriera forense ed entrati nel Maggior Consiglio nel 1524, il M. ricoprì sempre ruoli di minore importanza, come gli incarichi di officialis tabulae introytus nel 1524, di ufficiale alle Beccherie nel 1530, di ufficiale al Frumento a S. Marco nel 1538, secondo una scelta che caratterizzò tutta la sua esistenza e che, associata al rapporto di forte tensione con il padre, lo mise in una condizione economica talvolta non facile, come documentano i numerosi prestiti e interventi di solidarietà a lui rivolti nel corso degli anni da amici e sodali.
Alla stentata carriera negli uffici si contrappose un sincero e vivo interesse per i domini della letteratura, della musica e della filosofia, in virtù del quale il M. entrò in contatto con alcune delle figure più eminenti della cultura veneziana degli anni Trenta, a partire da Pietro Bembo, Trifon Gabriele e Gian Giorgio Trissino, i quali, secondo quanto afferma Giovan Mario Verdizzotti nella biografia del M. posta in apertura del volume di rime edito postumo (Rime di M. Girolamo Molino, Venetia, s.n.t., 1573), diventarono «i suoi precettori, e specialmente nelle cose della poesia, della quale egli sommamente era vago» (Rime, cc. 7v-8r). La vocazione per gli studi umanistici e l’impegno nelle discussioni più aggiornate nei cenacoli veneziani non sono però mai illustrati dalla produzione dei suoi scritti, in nome di un carattere schivo e restio a esporsi pubblicamente, tanto che la sua crescente notorietà e autorevolezza sono documentabili soprattutto attraverso testimonianze indirette, come, per esempio, le lettere inviategli da Pietro Aretino o da Nicolò Franco, che lo mostrano al centro di una fitta trama di relazioni. Nel Dialogo d’amore di Sperone Speroni (1542) il M. è presentato come uno dei frequentatori più assidui del cenacolo di Tullia d’Aragona, alla quale dedicò diverse poesie. Nel corso degli anni fu chiamato più volte a esprimere pareri per la concessione delle licenze di stampa da parte della Repubblica veneziana, in particolare per il commento a F. Petrarca dell’amico Giulio Camillo (18 apr. 1533), poi non andato a stampa, o per il Libro secondo degli amori di Bernardo Tasso (2 settembre 1534).
In questo periodo si venne consolidando il legame con Trissino, che dal 1540 risiedeva stabilmente a Murano e che nel novembre 1543 elesse il M. e Antonio Da Mula suoi esecutori testamentari, concedendo loro di divenire usufruttuari di parte dei suoi beni sino alla loro morte. Al 1543 data anche la prima notizia della causa intentatagli dal padre e dal fratello Nicolò per la suddivisione dei beni e, in particolare, per la gestione del patrimonio di Elena Molin, zia paterna del M., presso la quale egli da tempo risiedeva. Il contenzioso continuò di fatto per tutti gli anni a venire, anche dopo la morte del padre (1552), da parte del fratello; benché in una lettera del gennaio 1558 a B. Tasso il M. si dichiarasse soddisfatto perché era giunta al fine, e vittoriosamente, la lunga battaglia legale, negli anni successivi il fratello continuò la causa, dapprima ancora contro il M. e poi, alla morte di questo, contro il suo erede Antonio.
Nella biografia di Verdizzotti si afferma che egli non si sarebbe sposato per non rubare prezioso tempo agli studi. Se il tratto appare forzato e probabilmente motivato dal desiderio di tracciare un ideale ritratto di un sapiente esclusivamente dedito agli studi, è pur vero che non si hanno che notizie vaghe e incerte sulla vita privata del M., quasi tutte desumibili dal suo testamento. Di certo ebbe il sostegno economico di Taddea Revese, una nobildonna vicentina che in più occasioni dovette ospitarlo e soccorrerlo. Al nipote di costei, Antonio, definito nel testamento «mio creato», il M. lasciò in eredità tutti i suoi beni. Dal 1553 fu poi tutore di un ragazzo affidatogli dal capitano Lambardino Tetrico da Zara.
Tra il finire degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, mentre continuava ad assumere incarichi minori nei ranghi dell’amministrazione pubblica (nel 1553 fu provveditore sul Cottimo di Alessandria e nel 1556 sul Cottimo di Damasco), il M. strinse con il patrizio veneziano Domenico Venier un profondo legame di amicizia, destinato a durare per tutti gli anni a venire. Sebbene quest’ultimo fosse più giovane di diciassette anni, tra i due si creò una strettissima solidarietà umana e intellettuale, tanto che nei diversi omaggi letterari i due sono sempre presentati insieme: per esempio, nell’Amadigi di B. Tasso (canto 100, ottava 34). A partire dal 1549, quando Venier fu colpito da una grave malattia alle gambe, luogo privilegiato degli incontri fu il palazzo del nobile veneziano, frequentato, oltre che dal M., anche da Dionigi Atanagi, Fortunio Spira, Girolamo Parabosco, Giacomo Zane, Giorgio e Pietro Gradenigo, Celio Magno, quest'ultimo sorta di vero e proprio discepolo del M., e altri letterati veneziani. Importanti testimonianze delle attività e delle discussioni di questo cenacolo, incentrate soprattutto sulle forme della poesia, sul commento ai classici e su temi filosofici, si trovano nel Diamerone di Valerio Marcellino (Venezia 1563) e nella raccolta di novelle di Parabosco (I diporti, Venezia 1551), all’interno della quale il M. non solo è uno dei protagonisti della cornice e narra la V novella della I giornata, ma propone le Questioni d’amore che animano la discussione nella II giornata. Da queste opere si ricava che uno degli argomenti privilegiati nelle discussioni del cenacolo di Venier fosse la musica – Parabosco era organista di S. Marco –, passione che il M. aveva cominciato a coltivare in modo non dilettantesco già negli anni precedenti, come testimonia il libro di lettere di argomento musicale a lui dedicato dal musicista Giovanni Dal Lago (all'epoca inedito, ora pubblicato in A correspondance of Renaissance musicians). All’interno del volume si trova una lunga lettera indirizzatagli da Dal Lago, nella quale si presenta in termini sintetici un lessico musicale a uso di un neofita che intenda apprendere i principî di tale linguaggio.
Benché il M. fosse tenacemente legato a Venezia e ai territori della Terraferma veneta, nel 1556 andò a Roma, molto probabilmente senza alcun incarico pubblico. Del viaggio si ha notizia sia dal testamento del M., nel quale si menziona il debito contratto con Giulio Contarini per le spese sostenute durante il soggiorno, sia dal Dialogo nel quale… si forma un perfetto principe et una perfetta repubblica di G.B. Memmo (Venezia 1563), ambientato a Roma nel palazzo dell’ambasciatore veneto Bernardo Navagero e che ha tra i protagonisti il Molin. Testimonianze di questo viaggio si possono rinvenire anche tra le rime del M., tra le quali si leggono diversi sonetti dedicati alle rovine romane e al tema della gloria e della libertà, interpretato anche alla luce della contrapposizione tra l’attuale potenza della Repubblica di Venezia e l’irreversibile decadenza di Roma.
Sul finire degli anni Cinquanta il M. e Venier furono coinvolti nell’esperienza dall’Accademia Veneziana o della Fama, istituita dal giovane patrizio Federico Badoer. Benché né il M. né Venier risultassero formalmente iscritti all’Accademia, si può con certezza affermare che siano stati tra gli ispiratori del programma culturale ed editoriale dell’iniziativa e, soprattutto per i primi anni, anche tra i più solerti sostenitori. Le linee essenziali del progetto che animava l’Accademia, oltre che nei capitoli stilati da Badoer, si possono rinvenire in una lettera scritta dal M. a B. Tasso datata 22 genn. 1558 (B. Tasso, Lettere, II, Venezia 1560, pp. 359 s.). A Bernardo, in virtù di una amicizia ormai di lunga data (e che fu poi estesa anche al figlio Torquato, che ricordò il M. come uno dei suoi maestri nella prefatoria del Rinaldo), propose anche di pubblicare l’Amadigi per i tipi dell’Accademia. Dalla lettera si comprende come il discorso letterario e lirico fosse inteso come parte di un programma più ambizioso, che affondava le radici in una cultura filosofica fortemente intrisa di elementi neoplatonici, con venature di carattere ermetico. L’appoggio esterno offerto sia dal M. sia da Venier, spiegabile soprattutto in virtù del carattere naturalmente propenso a evitare esposizioni pubbliche, permise probabilmente ai due di evitare il coinvolgimento nel disastroso fallimento dell’esperienza, dovuto soprattutto all’eccessiva ambizione di Badoer.
Il M. morì a Venezia il 26 dic. 1569.
Per rendere degno omaggio all’amico, G. Contarini lo fece seppellire nella chiesa di S. Maria del Giglio e fece erigere un busto dallo scultore Alessandro Vittoria. Sempre per volontà di Contarini e degli amici e discepoli, nel 1573 furono edite le sue rime, per le cure di D. Venier e Celio Magno, che firmò la prefatoria. Il libro raccoglie tutta la produzione del M., mai andata a stampa negli anni precedenti, in nome di una consuetudine alla scrittura lirica come pratica intima e personale, da condividere con i sodali piuttosto che concepita per essere presentata al pubblico. Le caratteristiche del volume ricordano quelle di altri libri curati dal circolo degli amici di Venier, in particolare le Rime di Giacomo Zane (Venezia 1562) e quelle di Girolamo Fenaroli (Venezia 1574), pubblicati anch’essi postumi e corredati da una biografia mirata a disegnare un ideale ritratto nel quale la poesia si configura come parte di una più articolata e impegnativa riflessione filosofica.
La raccolta è organizzata per nuclei tematici (rime amorose, morali, politiche, obituarie, spirituali e in «varii soggetti»), a loro volta articolati in sezioni differenziate per metro (sonetti, canzoni, canzonette, sestine, ecc.). La poesia testimoniata dal volume si colloca idealmente, per temi e movenze stilistiche, a cavallo tra le istanze del bembismo maturo e quelle tipiche della generazione che dominò la scena veneziana degli ultimi decenni del secolo. L’esperienza poetica è aliena da sperimentalismi troppo esibiti (salvo qualche rara eccezione, come, a esempio, una sestina tripla), ma capace di animarsi soprattutto per il raffinato dialogo con la tradizione classica e volgare, e per l’attenta e sentita riflessione moraleggiante che innerva buona parte delle liriche. Se le poesie di carattere amoroso si muovono sostanzialmente all’interno della topica petrarchesca, sia pure con qualche incursione in territori di più spinto sensualismo, è soprattutto la poesia civile e morale a esprimere forme e modi che allargano il discorso lirico oltre le misure più consuete del petrarchismo cinquecentesco. Vanno in questo senso ricordate le canzoni di carattere civile, nelle quali il M. esorta le forze europee a una nuova crociata, e le molte liriche dedicate al tema del trascorrere inesorabile del tempo e alla morte, capaci, nel loro insieme, di costruire una sorta di intimo e meditato diario personale. La raccolta è completata da una serie di sonetti di corrispondenza con Giovanni Francesco Bonomo, D. Venier, Curzio Gonzaga, Giorgio e Pietro Gradenico e da un’ampia sezione di poesie in morte del M., con testi di D. Venier, dei Gradenico, Federico Frangipane, Celio Magno, Nicolò Macheropio, Lauro Badoer, Girolamo Fioretti e cinque sonetti di incerti autori.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Notarile, Testamenti, b. 1259, n. 508 (Cesare Ziliol); Consiglio dei capi, Notatorio, reg. 10, cc. 16, 142r; rime, tutte confluite nell’edizione a stampa, si trovano a Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Lat. XIV 165 (4254), cc. 213v-219v, 286r; Ed. nazionale delle opere di Pietro Aretino, Le lettere, a cura di P. Procaccioli, III, Salerno 1999, n. 192; IV, ibid. 2000, n. 18; V, ibid. 2001, n. 346; VI, ibid. 2002, n. 89; N. Franco, Le pistole vulgari, Venezia 1542, n. CLXIII; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, III, Venezia 1830, pp. 210, 308 s.; V, ibid. 1842, pp. 212, 245, 248 s.; A. Zilioli, Vite di gentiluomini veneziani del secolo XVI tratte dalle Vite dei poeti italiani, Venezia 1848, pp. 17-19; B. Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un gentiluomo letterato del XVI secolo, Firenze 1891, pp. 433 s.; E. Greggio, G. da M., in Ateneo veneto, XVIII (1894) 2, pp. 188-202, 255-323; C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, pp. 216-219; P. Pagan, Sulla Accademia «Venetiana» o della Fama, in Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, CXXXII (1973), pp. 363 s.; E. Taddeo, Il manierismo letterario e i lirici veneziani del tardo Cinquecento, Roma 1974, pp. 73-91; F. Erspamer, Petrarchismo e manierismo nella lirica del secondo Cinquecento, in Storia della cultura veneta, Il Seicento, 4/I, Vicenza 1983, pp. 207-210; L. Bolzoni, Variazioni tardocinquecentesche sull’«ut pictura poesis»: la «Topica» del Camillo, il Verdizzotti e l’Accademia Veneziana, in Scritti in onore di Eugenio Garin, Pisa 1987, pp. 85-115; A Correspondance of Renaissance musicians, a cura di B.J. Blackburn - E.E. Lowinsky - C.A. Miller, Oxford 1991, pp. 200 s., 897-926; L. Bolzoni, «Rendere visbile il sapere»: l’Accademia Veneziana fra modernità e utopia, in Italian Academies of the Sixteenth century, a cura di D.S. Chambers - F. Quiviger, London 1995, pp. 61-77; Id., Le stanze della memoria, Torino 1995 pp. 36 s.; M. Feldman, City culture and the madrigal at Venice, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1995, pp. 113 s.; Lirici europei del Cinquecento. Ripensando la poesia del Petrarca, a cura di G.M. Anselmi et al., Milano 2004, pp. 665-668.