CARACCIOLO, Girolamo Maria
Secondogenito di Carlo Andrea marchese di Torrecuso e di Vittoria Ravaschieri di Belmonte, nacque a Torrecuso (Benevento) il 20 settembre del 1617 e per la morte (1641) del fratello maggiore, il duca di San Giorgio, poté succedere al padre nei titoli e nei feudi. Appartenente ad una delle famiglie più in vista del ceto baronale, le vicissitudini del Regno di Napoli del 1647-48 costituirono per lui l'occasione per ribadire il lealismo istituzionale tradizionale della sua casa e per sfogare il virulento livore antipopolare e anticontadino tipico della sua casta, acutizzato dallo spavento passato quando, allo scoppiare del moto, "tremavano tutti li cavallieri vedendo mettersi mano nelle persone più cospicue, dubitandosi di esser tutti fatti in pezzi e vedendo il popolo più che mai infuriato" (Birago Avogadro).
Come racconta Vittorio Siri, nell'incalzare furibondo della folla, il 7 luglio 1647 - quando il viceré, duca d'Arcos, è rannicchiato tremante in una "carrozza vile a due mule", osando appena sbirciare se qualche nobile giunge in suo aiuto il C. accorre, con indubbio coraggio, con pochi altri e si adopera, nella calca, per la "sedatione del tumulto". Ed è ancora il C., assieme agli stessi, a fendere la turba stre,pitante, a trar fuori dalla carrozza l'atterrito viceré, e a scortarlo mentre, spargendo zecchini per accattivarsi e, nel contempo, distrarre il popolo, con la scusa di giurare davanti all'altare l'abolizione perpetua delle gabelle, riesce a riparare a stento, tutto lacero e scarmigliato, nel monastero francescano di S. Luigi. Vistasi ingannata, la folla preme minacciosa sulle porte di questo; provvidenziale il tempestivo intervento dell'arcivescovo, il card. Ascanio Filomarino, che - come ebbe a scrivere il giorno dopo al papa - mandò un'"imbasciata al viceré", facendogli sapere "che ero là per parlargli e che bisognava dar sodisfazione al popolo"; ed egli "mi mandò per il marchese di Torrecusa", tale il titolo spettante al C., "un biglietto di mano propria, col quale mi prometteva di far levar tutte le gabelle".
Più diffuso, il Siri precisa che il C., fattosi incontro "al piè delle scale" all'arcivescovo, temendo che, col seguito, non entrassero "le turbe", gli porse l'"amplissimo decreto in annullatione delle gabelle autenticato col sigillo". Leggermente diversa la versione del Capecelatro, uno spettatore degli avvenimenti, ove comunque ricorre egualmente il C., che avrebbe fatto passare "per di sotto della porta" del convento il "biglietto" autografo del duca d'Arcos, nel quale questi "toglieva ogni imposta e dazio". Ed è sempre il Capecelatro ad annoverare il C. tra quei nobili che l'8 "girono al mercato per addolcire il popolo", uscendo "dal Castel Nuovo in cocchio... più tosto tratti dalla curiosità che d'alcuna autorità che avessero coi popolari". Notizia cui va aggiunta quella del Birago Avogadro che racconta come, nell'incontro tra Masaniello e il duca d'Arcos, nel quale il primo ottenne la massima "autorità" nelle "cose tanto di giustitia come di guerra", "essendosi dal marchese di Torrecusa, ivi presente, rinunciato il titolo di duca di S. Giorgio, ne fu investito Masaniello dal viceré".
Ma la situazione, pei baroni, lungi dal tranquillizzarsi, s'aggrava, tanto più che giungono allarmanti notizie dall'interno, ove i contadini paiono decisi a scuotersi di dosso gli intollerabili gravami feudali. Perciò il C. ed altri preferiscono, il 16 luglio - così il Capecelatro -, imbarcarsi "su due galee... per girne alle loro castella, a tenere quelle alla dovuta obbedienza al re". Particolarmente violento il "moto" nel Principato Ulteriore - a causa, annota il cronista, della "natura feroce" degli abitanti e giustificato, deve ammettere, in taluni casi, dalla "rapacità ed insolvenze di molti" baroni -, ove il C. si precipita a reprimere i disordini di San Giorgio, di cui era "signore" (la cessione al Masaniello non va, ovviamente presa sul serio), castigando "i capi del tumulto" e atterrendo "con la pena dei pochi" quanti covavano desideri di ribellione. E, armata "gente", prosegue con zelo a reprimere "i sorgenti rumori". Ma, per fronteggiare la dilagante insubordinazione - "continue" le "sollevazioni dei popoli", i quali, lusingati dalla speranza "che non s'aveva a pagar più niente" e che effettivamente era possibile "tor via tutte le gabelle", aderivano "per tutto ai rubelli" -, occorreva, da parte del baronaggio, non solo un'unità di sforzi nella repressione, ma che questa fosse condotta sotto l'egida legittimante della Spagna, coll'avallo d'una delega ufficiale. Di qui la riunione, cui il C. partecipa, di Montefusco e la conseguente decisione di un impegno unitario espresso dal nutrito elenco, riportato dal Siri, di "titoli, baroni e cavalieri che, nell'occasione de' tumulti della plebe, pigliarono l'armi in servigio di Sua Maestà Cattolica, col numero della gente, tanto pedoni che cavalli, che rispettivamente vi menarono": si va, in questo, dal massimo di 780 uomini esibiti dal duca di Monteleone al minimo di 20 offerti da Luigi Minutulo. E il C. - che, da una lettera del duca d'Arcos del 13 dicembre, apprendiamo aver anche offerto, "per acudir a las ocasiones tan priesas", al "servicio de su Majestad" ben "doce mil ducados" dovutigli da Antonio Barile, duca di Marianella - non vi sfigura coi suoi 140 uomini. La concentrazione delle forze nobiliari avviene, a partire da settembre, ad Aversa e ne assume il comando Vincenzo Tuttavilla; il C., nell'ottobre, raggiunge, non senza rischi, la città, che nel dicembre vive giorni d'estrema ansia, stretta sempre più da presso dai "popolari" occupanti via via le posizioni circostanti e atterrita dalla prospettiva d'una sollevazione interna.
Di contro alle disposizioni del 27 dicembre loro ingiungenti il mantenimento d'Aversa, i baroni, il 6 genn. 1648, dettisi, peraltro, pronti a "morire" in essa, visto che non è "difendibile", decidono d'abbandonarla e di difendere, invece, Capua, allora pericolante. Decisione sottoscritta anche dal C., colla formula "mi conformo a quello hanno concluso... i baroni" che fa supporre l'abbia più accettata che sostenuta. E, in effetti, ci fu chi la ritenne più pavida che saggia: "restò sfregiata la nobiltà - così Vittorio Siri - d'onta ed ignominia per essersi lasciata con 4 mila cavalli imprigionare dentro le mura d'Aversa senza fracassare il blocco e qualche quartiere delle truppe popolari". Ed un'anonima relazione del tempo osserva che "senza aver visto comparire il nemico li cesseno quella piazza".
Una volta a Capua, il C. ne parte ben presto, il 18 gennaio, al seguito del Tuttavilla, per Castellammare; qui s'imbarca il 21 su di una galea, e la sera del 22 è a Napoli, ove - dopo aver offerto, il 30, d'assoldare 100 fanti a sue spese e di "mantenerli per il medesimo tempo ove fosse stata la guerra" - sottoscrive, il 31, la "scrittura" o "memoriale", resa pubblica il 6 febbr., in cui "li deputati del baronaggio", auspicando il ritorno della pace, confermavano il perdono ai popolari per le "offese" apportate alle "robe" e alle "vite". Il C. viene nominato, il 21 febbr., da don Giovanni d'Austria, maestro di campo d'un "tercio" d'italiani colla retribuzione mensile, precisata dal Capecelatro, di "500 scudi... come grande di Spagna"; e gli fu pure affidato il comando già detenuto dal primogenito del duca d'Arcos, della compagnia di 100 "ufficiali riformati napoletani" "Compagno" di Ferrante Carriglio nel duello, del 28 marzo, tra questo e Antonio Enriquez, rimase ferito ed una gota "nello spartire"; assai leggermente comunque se può partecipare, e in forma rilevante, alla definitiva vittoria sui popolari del 6 aprile - il giorno in cui, come scrive il residente veneto Andrea Rosso, "le genti civili, stanche delle barbarie della plebe, hanno aderito alla venuta delle militie spagnole" (in Storia... d'Italia raccontata dai veneti ambasciatori a cura di F. Mutinelli, III, Venezia 1858, p. 226).
Dopo essere avanzato sino a Sant'Aniello e quindi a San Giovanni a Carbonara, fatto ammazzare un francese che stava di guardia (a sua volta questi aveva ucciso, nell'opporre resistenza), occupò la residenza del duca di Guisa, imprigionandovi quanti vi si trovavano.
E - come rileva il Birago Avogadro -, anche se don Giovanni d'Austria aveva ordinato che "nessuno saccheggiasse né maltrattasse le case né la gente del popolo", volle ci fosse "il sacco alla casa". Proseguì quindi baldanzoso la facile avanzata, facendo gridare dai suoi e da quanti, sempre più numerosi, s'accodavano "viva Spagna" e debellando i timidi accenni di resistenza di sparuti gruppetti di popolari; e, per più umiliarli, volle fosse uno di loro a portare "il petardo" destinato alla porta del castello della Vicaria, "dandoli tale impaccio si preoccupa d'informare il Capecelatro - in pena della passata rubellione". Ma non ci fu bisogno d'usarlo, ché, dall'interno di questo, gli si gridò "pace"; e, entrato, gli si fece incontro, ad ossequiarlo, pieno di timore e riverenza, Orazio di Rosa (o, secondo il Siri, Razzullo di Rosa, il cui vero nome era, in realtà, quello di Orazio Rossetti) "creato dai popolari loro maestro di campo e carceriere maggiore" nonché "castellano" del "luogo". Il C. gli risparmiò la vita, non rinunciando però a far "rompere in mille pezzi" il "bastone" simboleggiante il comando datogli dal popolo. E, altrettanto agevolmente, il C. partecipò infine all'occupazione del monastero del Carmelo, donde si dominava il torrione di cui Gennaro Annese stava trattando la resa.
Sconfitti e avviliti i popolari, si tratta ora, per i nobili, di valorizzare la vittoria; e il C. è tra i più decisi nella volontà di sfruttarla. Grazie al Capecelatro sappiamo della sua partecipazione alla riunione, tenuta "privatamente" dai "cavalieri", il 15 aprile, allo scopo "d'inviare, in loro nome, un ambasciatore al re... per darli contezza dello stato presente... e del modo con che la nobiltà lo aveva servito e sopra li particolari bisogni dei fiscali... nelli quali avevano interesse molti di loro, che fu la principale cagione di farli riunire": Il C. è dei cinque "deputati" aggiunti ai "primi" già esistenti, e, in quanto tale, è di quelli "che favellarono al viceré sopra la... materia dei fiscali". L'esito non dovette essere soddisfacente se il C., annoverato dal cronista tra quelli cui "dispiaceva la perdita delle loro rendite sopra i fiscali ancorché comprati a vilissimo prezzo", è uno dei promotori d'un'altra riunione in proposito, che si svolse il 16 luglio 1648. Preoccupazioni, queste del C., per la salvaguardia dei suoi cespiti finanziari in parte giustificate dalle spese affrontate nel 1647-48, che dovevano aver fortemente compromesso il suo patrimonio.
Così si spiega una successiva notizia tramandataci dal Fuidoro, il quale osserva- a proposito dell'arrivo a Napoli, nell'aprile dal 1660, del prete Elpidio Benedetti, per chiedere, da parte del principe di Monaco, la restituzione, "in virtù della capitolazione della pace tra le due corone", del feudo di Campagna confiscato e ceduto al padre del C. - che il C. è caduto "in gran perplessione d'animo", temendo di "perdere l'acquistato". Era infatti, precisa il diarista, "povero signore", nemmeno in grado perciò di addivenire ad una qualche forma di transazione finanziaria. Ed è allo scopo di "perpetuare il grandato per suoi eredi e successori, atteso [che] suo padre l'ottenne per due vite et anco per mantenersi in possesso di Campagna d'Evoli" che non solo impegna "tutta la sua roba feudale ma s'imbarca a Napoli - spesato da Ippolito Centurione commisario generale" delle tre galee genovesi destinate al trasporto di truppe - il 7 sett. 1660, alla volta della Spagna, per servire come "maestro di campo dell'italiani nell'essercito contro Portogallo". Né, d'altronde, si può dire abbandoni una posizione di prestigio, poiché non risulta abbia ricoperto, antecedentemente, altre cariche oltre a quella di governatore, nel 1650 e nel 1656, dell'ospizio dell'Annunziata Di lì a due anni però - così il minuzioso Fuidoro - il "corriero" reca, il 19 sett. 1662, a Napoli l'"avviso... che" il C., il 16 agosto, "era morto... nel campo di Portogallo, in casa di don Giovanni d'Austria" - agli ordini del quale aveva combattuto in Estremadura, partecipando alla presa di Aronghes e agli scontri presso Grumefia, in campagne peraltro prive di episodi risolutivi dopo tre mesi di febbre violenta. "Cavaliero dell'abito di Alcantara, persona degna di maggior vita - commenta -, di nobili costumi, di affabilità grande; e la nobiltà napolitana ha perduto assai, avendo un protettore compatriota affettuoso verso la sua patria".
Sposatosi, nel 1646, con Caterina figlia del conte di Conversano Giovanni Girolamo Acquaviva d'Aragona, il C. lasciò due figli, Vittoria (1649-1672), che si mariterà col duca di Bovino Giovanni Guevara, e CarloAndrea, il quale, nato nel 1650, si batterà, al soldo della Spagna, in Catalogna, Fiandra e, nella difesa di Orano, in Africa, e morrà a Madrid il 30 luglio 1691 il 25 ag. 1691, precisa ulteriormente il Bulifon, "arrivò" a Napoli il "corriere di Spagna, il quale portò la nuova esser morto in due giorni nella città di Madrid Carlo Andrea Caracciolo marchese di Torrecuso, maestro di campo d'un reggimento italiano nella Fiandra". A. Bulifon, Giornali di Napoli..., a cura di N. Cortese, I, Napoli 1932, p. 279).
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