CARAFA, Girolamo Malizia
Nacque il 24 nov. 1647 a Ceppaloni da Tiberio, primo principe di Chiusano, e da Cristina Carafa, dei principi di Sepino. Nel 1665 fu ascritto all'Ordine gerosolimitano. Il C. manifestò ben presto un deciso orientamento antispagnolo. Al tempo della guerra di Messina il suo nome veniva incluso, dal corrispondente francese a Napoli, nella lista dei nobili napoletani filofrancesi, insieme con molti di coloro che prenderanno parte poi alla congiura del 1701. Nella prima metà degli anni '90 del secolo, il C. e i suoi compagni cercarono di ottenere dal re di Francia Luigi XIV una spedizione nell'Italia meridionale. Saranno poi gli avvenimenti internazionali successivi ad orientare il C., secondo una coerente linea politica di salvaguardia degli interessi dell'aristocrazia, in senso antiborbonico e filoasburgico.
"Uomo audacissimo, d'indole torbida e di guasti costumi", egli godeva, tuttavia, "di grande autorità presso le Piazze [di Napoli] pel coraggio e la fermezza da lui dimostrata in più riscontri in sostegno delle napolitane prerogative contro gli abusi dei reggitori" (Granito, pp. 32 s.). Di questa sua natura diede prova anche in occasione dell'arresto del duca d'Airola fatto incarcerare per le offese arrecate ad una favorita del viceré Medinaceli.
Rifiutatosi quest'ultimo di concedere la grazia all'Airola, il C. persuase la Deputazione dei Capitoli, cui competeva la salvaguardia dei privilegi concessi da Ferdinando il Cattolico e da Carlo V alla città di Napoli, a fare ricorso al re contro il Medinaceli. L'episodio fu una delle varie manifestazioni del malcontento nutrito verso il viceré da parte di alcuni settori dell'aristocrazia napoletana, nei quali trovava terreno particolarmente fertile la tensione più o meno latente che si andava accumulando nella città in relazione alla questione della successione spagnola e della conseguente sorte del Regno di Napoli.
Fin dal 1699 un gruppo di nobili, dalla vita non del tutto esemplare e già protagonisti di vari episodi di ambiguo significato politico, aveva posto le basi di una rivolta antispagnola. Ciò che accomunava questi uomini, al di là della pluralità dei motivi politici, era il desiderio di limitare il potere monarchico a vantaggio dell'autonomia della nobiltà feudale.
All'interno del gruppo, il C. si può considerare come l'esponente degli elementi più tradizionalisti dell'aristocrazia. Il nipote Tiberio Carafa, pur riconoscendo nello zio molti lati negativi, lo giudicava uomo di "molte virtù... quali... la lealtà nell'amicizia, la liberalità et un coraggioso valore". Dotato di "buon discernimento et... somma cognizione" per le questioni politiche relative al Regno e alla città di Napoli, egli, tuttavia, "per le cose grandi aveva più coraggio che mente" (Mem., III, ff. 66 s.). Il C. fu uno delle tre personalità - le altre due erano il duca di Castelluccia e lo stesso Tiberio Carafa - che a lungo tennero le fila della congiura aristocratica del 1701. A lui, tuttavia, il nipote Tiberio rimproverò più tardi di non avere svolto quella intensa attività che sarebbe stata necessaria per il buon esito dell'impresa, come, ad esempio, il prendere contatto con gli eletti della città e con i capi del popolo, omissioni dovute al fatto che si riteneva ancora lontana la scomparsa del re di Spagna o che era stato giudicato pericoloso allargare troppo l'azione cospirativa (ibid., III, f. 67).
Alla notizia della morte di Carlo III i cospiratori si riunirono a Campolieto, dove fu deciso che il C., insieme con il nipote Tiberio, tornasse a Napoli, mentre gli altri sarebbero rimasti nelle loro residenze di campagna in attesa di ulteriori decisioni e pronti all'azione. Orientatisi decisamente verso l'Austria, i cospiratori inviarono all'imperatore le loro richieste, in cui si esprimevano, sostanzialmente, gli interessi della grande aristocrazia feudale. Per il C., che fu uno dei redattori delle istruzioni e delle richieste da presentare a Vienna, la ricompensa sarebbero dovuti essere alcuni tra i maggiori feudi del Regno, i principati di Stigliano, Taranto e Salerno. Circa il modo di procedere allo scoppio del moto insurrezionale, il C. fece prevalere in un primo tempo la decisione che bisognasse uccidere il viceré Medinaceli, proposito che non fu poi messo in atto in seguito al diverso orientamento di Tiberio Carafa.
Il 22 settembre del 1701 fu stabilito di dare l'avvio alla rivolta. Malgrado fosse fallito il programma di impadronirsi di Castelnuovo in seguito ad una delazione fatta al viceré, i congiurati decisero di procedere ugualmente e, nella notte del 22, si riunirono in casa del C. donde mossero, inneggiando all'imperatore e a suo figlio Carlo, verso S. Lorenzo, sede della municipalità napoletana. Le fasi successive della rivolta condussero, come è noto, alla sconfitta dei congiurati, la maggior parte dei quali si salvò con la fuga. Il C. riuscì a giungere al villaggio di San Leucio presso Benevento, dove riteneva di poter ricevere aiuto dal principe di Riccia, che aveva fatto parte del gruppo dei congiurati. Ma questi, che si era intanto schierato dalla parte delle forze governative, fece catturare dai suoi uomini il C., che poté salvarsi soltanto per l'intervento della principessa di Riccia. Giunto, quindi, a Benevento chiese asilo nella chiesa di S. Bartolomeo, nella quale fu successivamente fatto arrestare, in nome del papa, dal cardinale Orsini, che volle così evitare un'azione delle truppe napoletane nel territorio pontificio e, allo stesso tempo, salvare la vita al proscritto.
Da Benevento il C. venne, quindi, condotto a Roma e rinchiuso nelle prigioni di castel Sant'Angelo, dove rimase fino al 1707. Mentre a Napoli egli veniva condannato alla pena capitale, a Vienna l'arciduca Carlo lo nominava suo consigliere. Al generale in capo delle forze austriache Daun, che gli chiedeva la scarcerazione del C., il pontefice Clemente XI rispose che ciò sarebbe stato possibile solamente dopo che gli Austriaci si fossero impadroniti del Regno. Continuando, tuttavia, la prigionia del C. anche in seguito, a causa del timore nutrito dal pontefice di un possibile risentimento della Francia e della Spagna se egli lo avesse messo in libertà, il Daun minacciò il nunzio pontificio a Napoli che, se entro quattro giorni il prigioniero non fosse stato liberato, egli stesso sarebbe stato imprigionato in Castelnuovo. Ciò valse a far ritornare il C. a Napoli. Dopo pochi mesi partiva per Barcellona, dove si trovava Carlo d'Asburgo. Da quest'ultimo, nel 1707, gli era già stata assegnata una pensione di 4.000 ducati, cui se ne aggiunse poi un'altra di 2.000 nel 1713. Nello stesso anno gli veniva concesso anche il principato di Avella confiscato al duca di Tursi. Il C. morì a Napoli il 2 ag. 1723.
Il C. ebbe due figli maschi, ambedue naturali e poi legittimati, di nome Francesco e Giuseppe e una figlia di nome Teresa - molto probabilmente anch'essa naturale, dato che non si ha notizia di matrimonio contrato dal C. - che si fece monaca - nel monastero di S. Maria del Soccorso.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Biblioteca, nn. 76-7715: T. Carafa, Memorie; G. B. Vico, Principum Neapolitanorum coniurationis anniMDCCI historia, in Scritti storici, a cura di F. Nicolini, Bari 1939, ad Indicem; A. Granito, Storia della congiura del principe di Macchia, Napoli 1861, ad Indicem; E. M. Martini, La prigionia di M. C. e le sue suppliche a papa Clemente XI, in Arch. stor. per le prov. napol., n.s., VI (1920), pp. 280-294; S. Mastellone, Francesco d'Andrea politicoe giurista, Firenze 1969, pp. 56, 150; G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello. Politica,cultura,società, Napoli 1972, pp. 526, 584 s., 589 s., 598, 607, 613; P. Litta, Le famiglie celebri ital., s.v. Carafa, tav. XXXIV.