LUNADORO, Girolamo
Nacque il 28 nov. 1575 a Siena da Orazio di Girolamo e da Ottavia Germani. Il padre era esponente di una famiglia di recente aristocrazia del Monte dei riformatori, uno dei cinque raggruppamenti politico-familiari che si erano alternati nel governo della città; nel 1575 fu tra i componenti del Supremo Maestrato. Il fratello Alibrando fu titolare delle principali magistrature della città; la sorella Vittoria sposò Armenio di Alessandro Melari.
Il L. ricevette probabilmente una formazione scientifica, visto che fu definito "gran professore delle matematiche" (Ugurgieri Azzolini, I, p. 678), ed ebbe fama di architetto militare. Nel 1594 fu a Roma come segretario dell'abate Lanfranco Margotti, segretario del cardinale Cinzio Aldobrandini Passeri, nipote di Clemente VIII. Passò quindi al servizio dello stesso cardinale come maestro di camera, e si fece benvolere al punto da meritare l'intercessione del suo protettore per il conferimento di incarichi e prebende ai suoi parenti.
Il cugino Girolamo Simoni entrò così nella Marina pontificia nel 1598 e divenne capitano della galea "S. Pietro" nel 1606, il fratello del cognato, Fausto Melari, ottenne il vescovado di Chiusi il 22 apr. 1602 e lo zio, Simone Lunadoro, dottore in legge, canonico del duomo di Siena e protonotaro apostolico, divenne vescovo di Nocera dei Pagani il 17 giugno dello stesso anno.
Per sé il L. ottenne il titolo di conte palatino e di conte cesareo e l'ammissione, come cavaliere milite, all'Ordine di S. Stefano.
L'Ordine, fondato da Cosimo I de' Medici nel 1561, prevedeva tre categorie di cavalieri: militi, ecclesiastici e serventi; si poteva diventare milite per giustizia - dimostrando i quattro quarti di nobiltà - o per commenda, fondando una commenda di patronato o subentrando in base all'anzianità in una commenda resasi vacante. Il L., che non possedeva i requisiti di nobiltà, fondò, il 20 dic. 1603, una commenda di patronato del valore di 200 scudi di rendita conferendo poderi e immobili di sua proprietà in Siena e dintorni. Il 3 apr. 1604 vestì a Roma l'abito dell'Ordine per mano del cavaliere Ascanio Buonpiani.
Dopo l'elezione di Paolo V (1605) il L. passò, insieme con Margotti, al servizio del cardinale Scipione Borghese Caffarelli; fu poi per un breve periodo maestro di camera del marchese di Castelvetere, Filippo Carafa, marito di Diana Vittori, nipote del papa, quindi entrò al servizio del duca Francesco Borghese, fratello di Paolo V.
A Roma frequentò l'orientalista ed erudito Giovanni Battista Raimondi che, nel 1584, propose al cardinale Ferdinando de' Medici l'istituzione di una tipografia specializzata nella stampa di testi nelle lingue orientali.
La tipografia, fondata il 6 marzo 1584 e finanziata dal Medici, ebbe una storia travagliata. La prima opera, un'edizione in folio in lingua araba dei quattro Vangeli in 4000 copie, uscì dalla sua sede, in piazza Monte d'Oro, nel rione Campo Marzio, solo nel 1590. L'impresa tipografica fu messa in vendita, l'11 luglio 1595, da Ferdinando I - succeduto sul trono granducale nell'ottobre 1587 al fratello Francesco I - e fu acquistata da Raimondi, il 15 apr. 1596, per l'ingente somma di 25.000 scudi. Questi, tuttavia, prostrato per lo sforzo sostenuto, tentò a sua volta di venderla. In questo frangente il L. si prestò a fare da mediatore, ma il suo tentativo di trovare acquirenti non ebbe successo.
La tipografia continuò a operare tra molte difficoltà, ma sembrò riprendere vigore con il progetto di una nuova edizione dei libri di canto fermo e dei libri liturgici riformati, che utilizzava un metodo innovativo per la stampa delle note. A tale fine, il 23 genn. 1614 fu costituita una società tipografica di venti quote, delle quali nove furono attribuite a Raimondi, titolare della tipografia, altrettante a Lodovico Angelita, maestro di camera di Clemente VIII e finanziatore dell'impresa, due al L. in qualità di sovrintendente alla stampa. La prima opera, la splendida Editio Medicea del Graduale romano, fu realizzata fra il 1614 e il 1615, ma Raimondi, morto il 13 febbr. 1614, non riuscì a vederla. Pochi giorni prima (2 febbraio) aveva fatto testamento, nominando erede universale il granduca di Toscana e disponendo legati per la sorella e per alcuni amici, fra i quali il L., al quale furono assegnati 6000 scudi dei 15.000 che il re di Spagna avrebbe pagato per l'acquisto di 3000 volumi di Vangeli in lingua araba, una quota della società tipografica e un quarto di un manoscritto (Vita dei ss. Padri) corredato di 200 intagli in legno di bosso, su disegno di Antonio Tempesta, destinati a illustrarne l'edizione. Il L. non vide mai i 6000 scudi, perché la vendita dei Vangeli non fu mai conclusa e i volumi rimasero presso l'ambasciatore fiorentino a Roma. Riuscì, invece, a vendere all'Angelita per 1100 scudi le sue tre quote della società tipografica e acquistò per 2500 scudi l'intera proprietà del manoscritto e dei disegni intagliati. Cinque anni dopo ne propose l'acquisto al granduca per 6000 scudi, con i quali contava di soccorrere il fratello Alibrando oberato di debiti e di dotargli una figlia ventenne. L'affare non fu concluso e nel 1624 il L. propose a monsignor Alfonso Giglioli, nunzio pontificio a Firenze, l'acquisto dello stesso materiale da lui nel frattempo impegnato a Napoli per 1000 scudi.
Dall'inizio del 1617 il L. fu a Napoli per cinque anni, chiamato da Pedro Fernández de Castro conte di Lemos (viceré fino al luglio 1616), come provveditore delle armi e sovrintendente generale delle fortezze del Regno, di cui curò la manutenzione e il rafforzamento. Agì anche come rappresentante dell'Ordine di S. Stefano nel Regno, difendendone gli interessi dell'Ordine e reclutando nuovi cavalieri. Si occupò anche dei problemi del fratello, che non riuscì a onorare i suoi debiti neanche impegnando i beni di famiglia e fu condannato alla prigione e poi al confino a Livorno. Nel tentativo di aiutarlo, il L. azzardò ogni sorta di iniziativa imprenditoriale - dall'impianto di una fonderia di ferro e rame nel ducato di Fondi all'introduzione in Toscana di un nuovo tipo di mulino di cui chiese al granduca la privativa - con il risultato di minare anche la sua situazione patrimoniale: non riuscì a restituire un debito contratto con il Monte Pio di Siena e si vide sequestrati i beni della sua commenda di patronato.
Tornato a Siena nel 1624, rimase invischiato in un estenuante conflitto giuridico con i suoi creditori e con le istituzioni di Siena e del Granducato, e finì in prigione per cinque anni. Scarcerato, non cessò di sostenere le sue ragioni con suppliche al granduca, ricorsi, produzione di pareri giuridici, appelli al segretario granducale Andrea Cioli. Chiese di ricoprire incarichi pubblici (come quelli di provveditore dell'arsenale di Pisa e della dogana di Livorno), tentò di entrare nel Collegio di balia di Siena e ripropose l'affare dei mulini, ma tutto fu inutile. Emarginato dalla vita pubblica e ridotto in povertà, progettò di tornare a Roma, ma il granduca non glielo permise e anzi, nell'agosto 1636, lo inviò al confino a Pisa, concedendogli tuttavia alloggio in un edificio dell'Ordine di S. Stefano e una provvigione di 10 scudi al mese. Anche da Pisa non smise di seguire le sue vertenze: cercò di riavere i beni sequestrati, rivendicò il rimborso delle spese fatte a Napoli per l'Ordine, chiese una commenda di anzianità, ma senza esito.
Nel 1640 tentò di nuovo, ancora invano, di recarsi a Roma al servizio degli Orsini duchi di Bracciano. Costretto a Pisa, vi morì il 1( ottobre 1642.
Forte della sua esperienza presso la corte pontificia, il L. aveva scritto nel 1611, su incarico della granduchessa Cristina di Lorena, una Relatione della corte di Roma e de' riti da osservarsi in essa, e de' suoi magistrati, e offitii, con la loro distinta giurisdittione. L'opera, che doveva servire di istruzione per Carlo de' Medici, figlio di Cristina, destinato al cardinalato, fornisce un quadro dettagliato dell'organizzazione della corte pontificia, delle gerarchie, delle mansioni di ciascun funzionario di governo, dei riti, delle cerimonie e delle forme da rispettare in ogni situazione. Considerata a lungo il manuale del cerimoniale pontificio, circolò in numerose copie manoscritte senza che il L. si preoccupasse di farla stampare. Nel 1621 Francesco Sestini da Bibbiena, anch'egli maestro di camera del cardinale Cinzio Aldobrandini, ne fece una parziale edizione a suo nome, intitolandola Il maestro di camera. Solo nel 1635 il nipote del L., Romolo Lunadoro, la fece stampare integralmente a Padova da Paolo Frambotto, dedicandola al cardinale Carlo de' Medici, per il quale in origine era stata composta. Le numerose edizioni apparse fino alla metà dell'Ottocento ne testimoniano il successo: a Bracciano nel 1641, 1645, 1646, 1649, 1650; a Viterbo nel 1642; a Padova nel 1650; a Napoli nel 1652; a Londra nel 1654 (in inglese); a Roma nel 1654, 1664, 1765 (a cura di A. Tosi), 1774 (a cura di F. Zaccaria), 1824, 1830, 1850; a Genova nel 1656; a Venezia nel 1660, 1661, 1664, 1672, 1677, 1689, 1702, 1764, 1800; a Marsiglia nel 1774. Gregorio Leti, autore avvezzo a usare concetti, parafrasi e perfino interi capitoli di opere altrui, utilizzò ampiamente la Relatione( per la seconda parte del suo Itinerario della corte di Roma( (Bisanzone [ma Ginevra] 1673-75), pur dichiarandolo esplicitamente. Da ciò forse l'equivoco, tuttora persistente, ma insostenibile se non altro per ragioni anagrafiche, che gli attribuisce l'opera del Lunadoro.
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