LIPPOMANO, Girolamo
Terzogenito del patrizio Giovanni di Girolamo e di Chiara Gussoni di Andrea, nacque a Venezia il 13 apr. 1538.
Dopo il fallimento del banco dell'omonimo nonno del L., la famiglia aveva appoggiato la sua fortuna sulle carriere ecclesiastiche dei propri esponenti; in particolare, il padre del L. si era arricchito gestendo l'amministrazione della mensa vescovile di Verona, di cui era titolare il fratello Pietro; inoltre aveva preso dimora nel monastero veneziano della Trinità, di cui era priore il suo secondogenito, pure di nome Pietro.
Poiché sin da giovanetto il L. manifestò vivacità d'ingegno, fu destinato alla politica e affidato alle cure dell'umanista Giovan Battista Amalteo; quindi, con qualche mese di anticipo sull'età consentita, nel 1562 entrò a far parte del Senato. Le nomine non tardarono: fu savio agli Ordini per il secondo semestre del 1563 e 1564 e poi ancora per il periodo 1° ott. 1565 - 31 marzo 1566 e 1° ott. 1566 - 31 marzo 1567; nel corso di tali mandati ebbe modo di segnalarsi per il tratto accattivante, l'eloquenza e l'abilità nel trattare con gli uomini, e mancò per poco, il 16 nov. 1565, la nomina ad ambasciatore, prima a Ferrara, poi a Firenze; inoltre, durante il carnevale del 1567, fu incaricato di organizzare il soggiorno a Venezia dell'inviato turco, Ibrahim Bey. Quasi contemporaneamente gli venne affidata la prima missione diplomatica e il 22 marzo dello stesso anno fu eletto ambasciatore presso l'arciduca Carlo d'Asburgo, fratello dell'imperatore Massimiliano II, che stava visitando le giurisdizioni isontine; l'incontro avvenne a Gorizia il 15 apr. 1567 e i colloqui si protrassero per quattro giorni, nell'intento di risolvere la spinosa questione degli Uscocchi, a sua volta innestatasi sul colpo di mano effettuato dai Veneti a Marano, venticinque anni prima: eventi che avevano dato motivo a pesanti recriminazioni da una parte e dall'altra. Del tutto positivo il ritratto che il L. fece dell'arciduca, personaggio "magis religiosus quam bellicosus", che "ragiona con dispiacere" dei suoi Stati "tanto infettati di diverse heresie"; quanto all'indole personale, Carlo è "talmente continente, che per comune opinione è adhuc virgo" (Relazione… di G. Lippomano ambasciatore… presso l'arciduca Carlo, pp. 20 s.).
Rassicurante, alle orecchie dei senatori, la relazione del L., che però evitava di affrontare decisamente la questione di fondo, quella dei pirati, la quale infatti sarebbe andata sempre più deteriorandosi. Il fatto è che il L. si trovava allora nella necessità di accattivarsi la benevolenza dei concittadini, visto che di lì a poco (23 dic. 1567) suo fratello Andrea, abate di Asola, sarebbe stato condannato al bando dietro l'accusa di spionaggio a favore della S. Sede: un addebito tutt'altro che infondato e che poteva benissimo venire esteso a tutti i membri della casata, fautrice del partito dei "vecchi" e notoriamente incline a Roma, alla Spagna, ai gesuiti.
Forse a causa di questa disgrazia domestica, il nome del L. non comparve più, per un biennio, nei registri del Segretario alle Voci; lo ritroviamo il 14 apr. 1570, giorno in cui viene eletto a un incarico prestigioso: ambasciatore presso Emanuele Filiberto, duca di Savoia. Un mese prima, i Turchi avevano inviato un ultimatum alla Repubblica, chiedendo la cessione di Cipro, sicché per Venezia diveniva essenziale ottenere l'aiuto pontificio, e questo forse può spiegare l'apertura di credito accordata al Lippomano. Questi, infatti, giunse a Torino il 26 sett. 1570, proprio quando l'attenzione della Cristianità era rivolta alla realizzazione di una lega in grado di opporsi alla flotta ottomana; il problema era costituito soprattutto dalla reciproca diffidenza tra Spagna e Venezia, per cui la figura del duca sabaudo, che riscuoteva credito e simpatie presso le principali corti italiane ed europee, costituiva una pedina importante del gioco diplomatico. L'ambasceria si protrasse per tre anni, durante i quali il L. riuscì abilmente a guadagnarsi la benevolenza del duca, come testimoniano alcune lettere intercorse fra i due anche diverso tempo dopo il rimpatrio del veneziano. Il L. lasciò Torino il 20 luglio 1573.
Ai primi giorni di agosto lesse in Senato la relazione, felicissima nella forma e tutta incentrata sulla figura di Emanuele Filiberto; questi viene descritto come "molto sano: cammina il giorno quanto è lungo, e la notte dorme pochissimo; è tutto nervo, con poca carne, ed ha negli occhi ed in tutti i movimenti del corpo una grazia che quasi eccede l'umanità: in tutte le azioni sue ha una meravigliosa gravità e grandezza, e veramente pare nato a signoreggiare" (Relazionedella cortedi Savoia, p. 198); parla molte lingue, è generoso, pio, moderato, in buoni rapporti con gli altri principi d'Europa. A cominciare da Venezia, di cui il duca rammenta i "gagliardi officii" praticati nei suoi confronti quando non era che un semplice privato: "E ciò di volta in volta" - continua il L. - "mi dicea con tanto affetto, che sovente gli vidi gli occhi pregni di lacrime, e mi ha affermato più volte che vuole un giorno tornare a Venezia, per visitarla" (ibid., p. 220).
Poche settimane dopo il ritorno a casa, al L. fu addossato il peso di un'altra ambasceria, stavolta al re di Polonia. In seguito all'estinzione della dinastia iagellone, infatti, il trono era stato affidato a Enrico di Valois, fratello del re di Francia, Carlo IX; una scelta che conferiva nuova importanza a quel grande e remoto Paese. Il L. lasciò Venezia nella stagione peggiore, alla fine dell'anno; doveva infatti trovarsi a Cracovia in tempo per assistere alle esequie del defunto Sigismondo Augusto e all'incoronazione del Valois; lo accompagnava il fratello minore, Paolo, che di lì a qualche anno avrebbe sposato Cornelia Gradenigo di Gabriele, dalla quale avrebbe avuto un solo figlio, Giovanni, con cui si sarebbe estinto questo ramo del casato, nel 1610. Il 10 genn. 1574 il L. giunse a Vienna, il 25 a Cracovia.
Spettacolari le cerimonie alle quali assistette: "ogni uno afferma che non solo in christianità, ma ne anco appresso i Turchi si possa veder più superba vista di questa; non tanto per il numero et bellezza de' cavalli, per la diversità delle livree et gran quantità di bandiere […] quanto per la ricchezza dei vestimenti et quantità di gioie et oro che havevano intorno li huomini et i cavalli" (dispaccio del 22 febbr. 1574). Tutto in Polonia, uomini e paesaggi, gli appare enfatizzato, dovunque spirano grandezza e vastità; un esempio è offerto dalle miniere di sale di Wieliczka, "dove si scende abbasso per tanta profondità quant'è l'altezza del campanile di S. Marco, camminandovisi con lume di torcie per cinque miglia di caverne, alcune grandi come è la nostra sala del Maggior Consiglio", e dove lavorano "più di 1500 uomini, i quali, per il gran caldo che vi fa, stanno del continuo nudi là sotto" (Relazione di Polonia, p. 276).
A leggerne i dispacci, par di capire che il L. sia rimasto piacevolmente travolto dall'ostentazione di magnificenza che accompagnò i primi mesi del nuovo regno, segnati da feste, giostre, banchetti che la nobiltà polacca fece a gara per allestire; ma questo clima non durò a lungo: il 17 giugno 1574 giunse a Cracovia la notizia della morte di Carlo IX, "per il che" - così il dispaccio del L. - "tutti i bagordi si conversero in lacrime".
Dopo di che la situazione precipitò con la ignominiosa fuga di Enrico, impaziente di cingere la più appetibile corona francese, mentre il Senato ordinava al L. di non lasciare il Paese, per non inimicarsi gli animi (contro le infiltrazioni protestanti era in atto una ripresa del cattolicesimo, iniziata vent'anni prima durante la nunziatura di un cugino del L., Luigi [Alvise] Lippomano); un mese dopo, però, il L. indirizzò a suo padre una lettera ove manifestava esplicitamente il timore di "gran sangue, et ruina, perché le facioni sono grandissime et gli humori diversi", benché lui personalmente fosse "tanto confidente loro, et accarezzato […], che non è alcun palatino, castellano o senatore che non mi sia venuto a visitare, et più di una volta". E concludeva, facendo intravvedere la speranza del rimpatrio: "direi molte altre cose a Sua consolatione, ma spero di dirle presto a bocca" (Arch. di Stato di Venezia, Senato, Dispacci, Polonia, f. 1, n. 28). La lettera è datata 27 luglio 1574, ma la missione del L. si prolungò ancora qualche mese, a causa della laboriosa convocazione della Dieta che doveva procedere alla designazione di un nuovo sovrano: l'ultimo suo dispaccio da Cracovia, infatti, è del 16 novembre; il 17 dicembre lasciò Vienna per Venezia, ove giunse agli inizi del nuovo anno.
Anche di questa missione possediamo la relazione, documento di grande spessore storico e steso con la consueta felicità espressiva, incentrato soprattutto sulla geografia dei luoghi e le relazioni che i Polacchi intrattenevano con gli altri principi, in particolare russi e turchi.
Al rientro a Venezia lo attendeva un posto tra i savi di Terraferma per il primo semestre del 1575, ma l'elezione a una nuova ambasceria non gli lasciò neppure il tempo di concludere il mandato: il 10 giugno, infatti, ricevette l'incarico di rappresentare la Repubblica presso don Giovanni d'Austria, a cui il re di Spagna Filippo II suo fratellastro aveva conferito la luogotenenza generale in Italia.
Don Giovanni rappresentava una sorta di variabile indipendente nel contesto della politica mediterranea, data l'autonomia di azione che gli consentiva di prendere decisioni che probabilmente il re di Spagna non si sarebbe mai assunto in prima persona; inoltre, non era ignoto al Senato il risentimento del principe nei confronti della Serenissima, dopo la pace separata da essa conclusa con i Turchi nel 1573; di qui l'opportunità di "far verso l'Altezza Sua quella dimostrazione di affezione e di onore che si conviene", come espressamente sottolineava la commissione del Lippomano.
Avrebbe dovuto essere una missione di breve durata, ma così non fu, visto che si prolungò per nove mesi (non per espressa volontà del Senato, sicché non si può escludere che il L. abbia cercato di rimanere il più a lungo possibile lontano da una Venezia travagliata dalla peste); don Giovanni, infatti, da Nizza, dove si trovava, passò a Napoli, dove il L. lo raggiunse dopo esser giunto a Bari per nave.
Anche di questa legazione del L. siamo bene informati, dal momento che, oltre ai lunghissimi dispacci, egli lasciò una relazione giustamente famosa e che godette di larga diffusione. Essa fonde in sé la descrizione geografica, economica, sociale, amministrativa e militare del Mezzogiorno ("uno delli più belli Stati che oggidì abbia l'Italia e forse l'Europa tutta", Relazione di Napoli, p. 268) con un penetrante ritratto dell'eroe di Lepanto, principe "ben formato e di bellissimo aspetto e di mirabili grazie […], di modo che è uno stupore vederlo" (ibid., p. 290). Le potenziali risorse del Regno, l'ingegno degli abitanti, la feracità del suolo soffrono tuttavia le conseguenze di una cattiva amministrazione; può aversene una spia dalla gestione delle numerose fortezze, "riedificate ormai tante volte, che è difficile il poter far giudizio certo se siano perfette o no […], perché i viceré di quel regno ed altri ministri hanno avuto quasi per ordinario di far rovinar quello che han fatto gli altri, e di nuovo farlo riedificare ciascuno secondo il parer suo; la qual cosa […] dà comodità ai ministri di commetter fraudi ed arricchirsi" (ibid., p. 287). Esemplare poi il ritratto psicologico del principe, tutto incentrato sul nesso cruciale tra le sue aspirazioni di gloria e di fama e le frustrazioni derivanti dall'insoddisfazione di non aver potuto ancora cingere una corona che, con il suo valore, aveva ampiamente meritato.
Tornato a Venezia nel giugno 1576, il L. riprese tra i savi di Terraferma il posto che gli era stato conferito per il secondo semestre dell'anno, ma ancora una volta lo abbandonò dopo poche settimane, essendo risultato eletto, con incalzante successione, a un'altra ambasceria, stavolta nella prestigiosa corte di Francia (21 luglio 1576), presso quell'Enrico III che egli già conosceva dai tempi della legazione polacca. Lasciò Venezia agli inizi di marzo 1577 e il 23 maggio giunse a Parigi, dove si sarebbe trattenuto per trenta mesi.
La Francia era travagliata dalle guerre di religione, e il sovrano, debole di carattere, era preda delle pressioni e degli intrighi delle diverse fazioni, in particolare di quella facente capo a suo fratello Ercole Francesco già duca d'Alençon, ora (dal 1576) duca d'Angiò, autore, nel 1578, di una inconcludente spedizione antispagnola nelle Fiandre. Nella circostanza, il L., notoriamente legato alle istanze controriformistiche facenti capo alla S. Sede, inviò allarmati dispacci al Senato, provocando l'invio a Parigi di un ambasciatore straordinario nella persona di Giovanni Michiel; in quale concetto, poi, il L. tenesse l'Angiò è noto dalla relazione conclusiva dell'ambasceria, ove fornisce, con l'abituale perizia, il quadro di un uomo nato "sotto cattivo influsso e pianeta", "di piccola statura", con il "volto tutto mangiato dal vaiolo, la guardatura poco grata". Roso dall'ambizione e dall'invidia, il duca mira al trono, donde il preoccupato, esplicito allarme del diplomatico: "Viene stimato che, quando questo principe potesse assolutamente governare, farebbe di gravissime e pericolose risoluzioni col metter tutto il mondo in confusione, vivendo sopra tutte le cose capital nemico del re di Spagna" (Relazione di Francia, p. 34). È questo il nocciolo dello scritto del L., tutto incentrato sulle lacerazioni del paese, anche in ordine alle crescenti difficoltà finanziarie che facevano temere il rischio di una paralisi politica. Alquanto sobrio, invece, il ritratto di Enrico, di cui evita di evidenziare difetti e manchevolezze (a cominciare dalle vantaggiose condizioni offerte agli ugonotti con il trattato del 19 marzo 1579), sottolineandone invece l'amicizia con la Repubblica.
Lasciata Parigi con le insegne di cavaliere il 26 nov. 1579, a Venezia il L. riuscì finalmente a occupare il suo posto tra i savi di Terraferma per tutto il primo semestre del 1580, quindi (8 ottobre) fu eletto provveditore ai Confini e, nello stesso giorno, ambasciatore straordinario presso Filippo II, insieme con Vincenzo Tron, per congratularsi dell'acquisto della corona portoghese. La Repubblica non vedeva di buon occhio questo ulteriore accrescimento della potenza spagnola, per cui trovò nel L., legatissimo alla corte madrilena, la persona adatta a una missione formalmente di pura rappresentanza, ma in realtà tesa a valutare il nuovo quadro politico e le possibili intenzioni del sovrano, specie in rapporto al commercio delle spezie. Partiti il 28 marzo 1581, i due ambasciatori, che ebbero per segretario Girolamo Ramusio il Giovane, tornarono a Venezia il 18 dicembre di quello stesso anno; appena cinque giorni dopo, il L. si vide affidata l'ennesima ambasceria, stavolta presso l'imperatore.
Naturalmente la partenza avvenne dopo qualche mese, che il L. poté trascorrere presso il fratello Pietro, priore della Trinità, e durante i quali sostenne invano, nel Senato, la "risolutione santissima" (Stella, p. 62) di accogliere l'invito di papa Gregorio XIII alla guerra contro il Turco. Lasciata Venezia alla metà di aprile 1582, il L. raggiunse Vienna per la via di Trento e rimase tre anni presso la corte asburgica (l'ultimo dispaccio risulta spedito da Halle il 5 dic. 1584). Trascorse l'estate del 1582 ad Augusta, dove era convocata la Dieta imperiale, fornendo ulteriore prova delle sue ormai consolidate capacità diplomatiche: "Io vado visitando tutti questi principi […], dai quali sono stato corrisposto con parole honoratissime" (dispaccio del 30 giugno 1582). Nonostante queste positive premesse, riuscì ad assolvere solo una parte, e la meno importante, delle commissioni affidategli, che prevedevano la definizione dei confini in Cadore con gli Arciducali e la concessione di condannati da impiegare nell'armata navale, mentre non gli fu dato di risolvere l'annosa questione degli Uscocchi, che ancora a lungo avrebbe continuato ad avvelenare le relazioni tra Venezia e Vienna.
Rimpatriato senza avere steso la relazione (era la prima volta che succedeva), il L. fu eletto conservatore delle Leggi (14 genn. 1585), savio di Terraferma per il semestre aprile-settembre dello stesso anno, provveditore sopra i Danari (9 novembre), quindi ambasciatore in Spagna (14 nov. 1585). Ancora una volta il L. veniva chiamato a servire lo Stato lontano dalla sua città e prima di partire (ricevette le commissioni il 22 marzo 1586), fece testamento; era il 10 genn. 1586 e l'unico fratello sposato, Paolo, aveva avuto quel figlio maschio che pareva garantire la continuità del casato; donde il fidecommesso istituito a suo beneficio.
Attraverso Genova e Barcellona, il L. giunse a Madrid l'11 giugno 1586, e anche questa volta la missione si protrasse per tre anni.
Dopo Lepanto, ora Filippo II guardava all'Atlantico, ai suoi domini delle Antille minacciati dalle devastanti imprese di F. Drake; il L. assistette all'allestimento di quell'Invincibile Armata che avrebbe dovuto piegare l'insolenza inglese e anche al tragico epilogo dell'impresa, sempre schierandosi a favore del buon diritto spagnolo, della esemplarità della missione espletata in favore del cattolicesimo, sia contro i protestanti europei sia contro gli Arabi musulmani. Ovviamente, una tale condotta non mancò di essere apprezzata dalla corte madrilena al punto che, al momento del commiato, nel giugno 1589, Filippo II donò alla Repubblica il palazzo che sarebbe divenuto sede dell'ambasciata veneziana.
In patria attendeva il L. l'ingresso tra i savi del Consiglio per il semestre ottobre 1589 - marzo 1590 e l'elezione a una nuova ambasceria, la nona, stavolta alla corte del sultano (19 nov. 1589): una missione per sua natura impegnativa, ma accompagnata da una positiva ricaduta economica, per cui non si può escludere che fosse stata sollecitata dallo stesso L. e accordatagli come premio per tanti dispendi sostenuti in passato. A riprova, le commissioni gli furono consegnate giusto alla scadenza del saviato del Consiglio, il 31 marzo 1590; dopo di che, il L. partì alla volta di Costantinopoli, per una legazione che l'orizzonte politico lasciava prevedere tranquilla, dal momento che l'Impero ottomano era allora impegnato in fronti lontani dal Mediterraneo, contro i Persiani e i Tartari.
Quello che però poteva costituire il coronamento di una prestigiosa carriera, doveva tramutarsi invece nella disgrazia del Lippomano. Era appena trascorso un anno dal suo insediamento, quando il Consiglio dei dieci inviò Lorenzo Bernardo a sostituirlo, ordinando al L. l'immediato rimpatrio. Il 25 giugno 1591 il L. lasciò Costantinopoli sotto l'accusa di tradimento per aver propagato segreti di Stato; il giorno dopo suo fratello Pietro, priore della Trinità, fu bandito da Venezia. Tutta la famiglia, dunque, veniva colpita, trascinata nella rovina per aver passato informazioni riservate ai ministri di Filippo II.
Quando la nave che riportava in patria il L. fu in vista del porto del Lido, egli si gettò in mare, annegando: era il 30 ag. 1591.
Così si esprimono gli scarni documenti ufficiali, ma sull'oscura vicenda esistono più versioni. Alcune lo vogliono suicida, altre ucciso per ordini superiori, altre ancora lo dicono imprigionato nelle carceri del Consiglio dei dieci, torturato, riconosciuto colpevole e strangolato: dopo di che, onde evitare scandali e complicazioni politiche, il cadavere sarebbe stato buttato in mare, simulando il suicidio. Impossibile far luce sull'intricata ridda di notizie e di ipotesi sorte in proposito. Quel che è certo, è che a perdere il L. fu la sua sviscerata adesione alla politica spagnola, che probabilmente lo indusse a favorire oltre il lecito l'operato dell'ambasciatore a Venezia, Francisco de Vera y Aragón.
Fu sepolto, senza alcuna iscrizione, nella chiesa di S. Maria dei Servi, presso le tombe degli antenati, come aveva espressamente indicato nel testamento.
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