GIGLI, Girolamo
Nacque a Siena il 14 ott. 1660 da Giuseppe Nenci e Pietra Fazoni. Nel 1674, alla morte del padre, fu adottato dal prozio materno, privo di eredi, che gli impose il proprio cognome, Gigli.
Intraprese gli studi di grammatica presso il collegio gesuita di S. Vigilio, ma li interruppe per dissensi sui metodi di insegnamento. Successivamente studiò eloquenza sotto la guida del canonico Ridolfo Borghesi, pur continuando a coltivare molteplici interessi culturali. Seguì inoltre, senza portarli a termine, i corsi di giurisprudenza presso l'Università della propria città. Si unì precocemente in matrimonio con Laurenza Perfetti, proveniente da un'agiata famiglia senese, e da lei ebbe dodici figli.
Alla morte dello zio (1678) entrò in possesso di una cospicua eredità, che gli consentì, con ogni probabilità, l'iscrizione all'albo d'oro dei nobili senesi e il titolo senatoriale. Tra il 1684 e il 1690 compose oratori sacri (La Giuditta, Il martirio di s. Adriano, La madre dei Maccabei) e drammi per musica (S. Genevieffa, Lodovico Pio, La fede ne' tradimenti), che lo imposero all'attenzione del pubblico e gli valsero l'ascrizione all'Accademia degli Intronati di Siena (con il nome di Economico) e alla prestigiosa Accademia della Crusca. Fu inoltre tra gli Accesi di Bologna e i Timidi di Mantova.
La sua prodigalità ridusse però notevolmente, e in breve tempo, il patrimonio familiare, tanto da indurlo ad accettare la cattedra di eloquenza presso l'Università di Siena, che tenne dal 1698 al 1708. Nella prolusione al corso accademico del 1706 pronunciò un'orazione In lode della toscana favella, in cui sostenne la necessità di sostituire il latino con l'italiano nella trattatistica scientifica.
Successivamente il G. pubblicò a proprie spese, a Venezia, Poesie drammatiche (1700) e Opere nuove (1704), in cui raccolse versi e copioni composti nella prima fase della sua produzione teatrale. Nonostante alcuni irrisolti problemi di datazione (dovuti al fatto che la sua produzione fu pubblicata per lo più postuma), si può collocare con ogni probabilità nel ventennio 1684-1704 un iniziale periodo creativo in cui egli risentì maggiormente dell'influsso del modello spagnolo, attivo in Italia dal sec. XVII. Alle prime prove di argomento religioso seguirono così i drammi per musica La forza del sangue e della pietà, gli Amori fra gli impossibili e la commedia Un pazzo guarisce l'altro, o Il don Chisciotte (una satira dell'amore platonico ancorata al gusto seicentesco per le metafore bizzarre), opere in cui prevale l'uso dell'elemento romanzesco e la satira della cavalleria.
La commedia I litiganti, ovvero Il giudice impazzato (riduzione de Lesplaideurs di J. Racine [1668]) costituisce invece il passaggio al più impegnativo modello francese e, in definitiva, l'avvio verso il momento di maggiore maturità della sua produzione teatrale, caratterizzato da una nuova inventiva scenica e linguistica e dall'eliminazione dell'elemento serio e patetico. Le furberie di Scappino, Il Gorgoleo, Ser Lapo, ovvero La moglie giudice e parte, La scuola delle fanciulle, I vizi correnti all'ultima moda sono alcuni dei lavori in cui il G. avviò un processo di accentuazione dei personaggi caricaturali da commedia dell'arte e un uso parodistico delle finezze del linguaggio melodrammatico e petrarchesco. Si tratta dunque di commedie sottoposte a una radicale rielaborazione di contenuti e di linguaggio rispetto ai modelli francesi (Molière, J. Palaprat, A.-J. Montfleury), che il G. non si limitò a tradurre pedissequamente. Egli infatti trasferì le vicende dall'ambiente metropolitano parigino a quello provinciale toscano, piegando il fine moralismo dei modelli verso il grottesco, allo scopo di rafforzare il legame teatro-realtà; accentuò inoltre le situazioni ridicole mediante il gusto per il gioco linguistico, l'uso della parola colorita o del detto scherzoso, fornendo, in definitiva, un rilevante contributo al rinnovamento del teatro italiano, cui parteciparono anche I.A. Nelli e G.B. Fagiuoli, e che culminò nella riforma goldoniana.
Nel Gorgoleo, tratto dal Monsieur de Pourceaugnac di Molière (1669), si accentua per esempio l'elemento triviale, spostando l'azione da Parigi a Nettuno, piccola città di provincia, dove il contrasto tra il protagonista, giovane calabrese giunto qui per sposarsi, e i furbi giovanotti paesani che si burlano di lui scende a un livello di maggiore rozzezza. Una comicità amara è invece quella che caratterizza il protagonista del Ser Lapo (dalla Femme juge et partie del Montfleury), uomo privo di scrupoli che perseguita la moglie, la quale riesce infine a provare la propria innocenza, secondo uno spunto narrativo tratto da una leggenda medievale e dalla commedia erudita cinquecentesca. Nei Vizi correnti (tratto da Les moeurs du temps del Palaprat) viene invece rappresentata una società corrotta, popolata da personaggi piuttosto scontati: l'ipocrita Monsù Pistacchio, avaro con suo figlio Dorante ma come questi, in realtà, dedito solo ai piaceri; il servo Patacca, complice del padroncino.
Il Don Pilone, ovvero Il bacchettone falso (Lucca 1711), commedia tratta dal Tartuffe (1664) di Molière, costituisce il momento di maggiore equilibrio compositivo e di maggior successo della produzione teatrale del G., che partecipò come protagonista alla sua prima rappresentazione, nel teatro Grande di Siena, probabilmente nel 1706 o 1707.
Al di là dello spunto occasionale, costituito dalla satira contro un ecclesiastico, tale Feliciati di Sarteano, che per le sue iniquità era stato condannato dal tribunale dell'Inquisizione di Siena, l'opera si muove in generale contro l'ondata di bigottismo ufficiale e la conseguente invadenza dei predicatori promosse in Toscana sotto il governo di Cosimo III. L'iniziale successo incontrato dalla commedia fece passare quasi inosservato il legame con l'originale francese, sul quale hanno invece insistito i biografi ottocenteschi. In realtà, la traduzione-rifacimento del G. si caratterizza per l'uso di immagini popolari e realistiche e per un ritmo più mosso, dato soprattutto dalla presenza di intermezzi fortemente satirici e da dialoghi vivaci e naturali.
Nel 1708, in seguito allo scalpore suscitato dal Don Pilone, il G. fu costretto a lasciare Siena e la carica accademica. Si trasferì a Roma, dove fu precettore in casa Ruspoli. Grazie all'amicizia del concittadino I.A. Nelli fu introdotto nell'ambiente culturale della città: conobbe infatti G.V. Gravina, S. Maffei, G.M. Crescimbeni, L.A. Muratori, P.I. Martelli (che gli dedicò la farsa satirica Il piato dell'H) ed ebbe inoltre scambi epistolari con U. Benvoglienti, A. Magliabechi, A.F. Marmi e A. Zeno. Fu ascritto all'Arcadia con il nome di Amaranto Sciaditico.
Durante uno dei suoi brevi rientri a Siena il G. compose e fece rappresentare dagli accademici Rozzi La sorellina di don Pilone, ovvero L'avarizia più onorata nella serva che nella padrona (1712, ma pubblicata a Venezia solo nel 1721), una satira che sfrutta con forza elementi autobiografici legati ai dissapori avuti con la moglie, avara e bacchettona.
Nella commedia il G. si prende gioco di Credenza, un'anziana governante vedova al servizio della moglie, fingendola combattuta tra il desiderio di riprendere marito e il proprio senso dell'onore. La commedia fu poi recitata da Goldoni nel periodo in cui muoveva i primi passi nel teatro amatoriale proprio dei collegi e, poiché le donne erano escluse dalle scene, gli venne affidato un ruolo femminile.
A Roma, tra il 1712 e il 1714, il G. compose inoltre alcuni scritti polemici. Tra questi gli Avvisi ideali o Gazzettino, singolare cronaca fantastica, diffusa a Roma sotto forma di lettere nel 1717, in cui utilizzò la vocazione a cogliere le ridicolezze del suo tempo. Allo stesso ambito è ascrivibile La Brandaneide. Poesia fanatica (pubblicata postuma a Lucca nel 1757).
Il suo duraturo impegno in ambito linguistico fu caratterizzato sin dagli esordi da una forte avversione alla politica dell'Accademia della Crusca in un momento in cui la rivendicazione linguistica della tradizione senese (promossa in passato da S. Bargagli, D. Borghesi, C. Cittadini) si era ormai attenuata. Egli ipotizzò nel 1707, senza però riuscire a realizzarla, una collezione di volumi comprendente le opere edite e inedite di tutti gli scrittori senesi, che si sarebbe dovuta intitolare Accademia Sanese. Riprese più tardi l'idea limitandola però alle sole Opere di Caterina da Siena (Siena-Lucca 1707-21) e di C. Cittadini (Roma 1721), nell'intento di legittimarle quali testi di lingua nel canone della Crusca. Il dissidio con quest'ultima si manifestò apertamente quando il G. sottopose all'arciconsolo M.A. Mozzi la prefazione alle Opere della santa, ricevendone in risposta l'invito a sostituire le voci senesi con espressioni fiorentine equivalenti. Successivamente, e sempre mosso da aspro spirito polemico, il G. avviò la pubblicazione del Vocabolario cateriniano, libello lessicografico inizialmente ideato quale illustrazione dei vocaboli senesi. Egli, in realtà, dopo aver cercato consensi - in realtà assai esigui - presso i letterati dell'epoca, finì per alternare ai problemi fonetici e morfologici e allo studio delle forme lessicali aneddoti satirici e allusioni polemiche contro gli accademici. Le proteste suscitate dall'opera negli ambienti letterari fecero sì che il granduca Cosimo III ordinasse di bruciare pubblicamente tutte le copie del Vocabolario (giunto alla lettera R). Il rogo, avvenuto il 7 sett. 1717, fu però piuttosto simbolico, tanto che, come ricorda F. Corsetti (p. 22), biografo settecentesco del G., nel cortile di palazzo Vecchio si dovettero bruciare volumi di simile formato in mancanza di esemplari dell'opera, rimasti nelle biblioteche private. Il Vocabolario fu probabilmente portato a termine e ristampato integralmente dal Nelli con false note tipografiche (Manilla s.d., ma Lucca 1717). Nelle Regole di toscana favella (Roma 1721) e nelle Lezioni di lingua toscana (pubblicate postume a Venezia nel 1729) il G. rafforzò le proprie teorie linguistiche.
Nonostante le precedenti esperienze negative, lo spirito polemico del G. non si placò e, quando compose, a nome di alcuni Arcadi, un'invettiva contro G.M. Crescimbeni, fu espulso da Roma e dalla Toscana, oltre che, ovviamente, dall'Arcadia. Rifugiatosi a Viterbo, scrisse una pubblica ritrattazione inviandola al granduca e a monsignor Alessandro Falconieri, governatore di Roma, ottenendo infine il perdono.
Nel 1719 compose e pubblicò a Roma la commedia Relazione del collegio petroniano delle balie latine, una satira del classicismo imposto dalla Ratio studiorum dei gesuiti.
Nel testo il G. immagina che nel 1695 venisse realizzato dal senese Niccodemo Forteguerri un progetto elaborato nel sec. XIII dal cardinale Riccardo Petroni, che prevedeva la fondazione di un collegio in cui i fanciulli, affidati alle cure di balie provenienti dai paesi dell'Europa settentrionale nei quali si parlava ancora latino, avrebbero imparato tale lingua, restituendole l'antico splendore.
Ormai ridotto a vivere negli stenti, il G. morì a Roma il 4 genn. 1722.
Componimenti poetici e alcune lettere del G. sono custoditi, manoscritti, presso la Biblioteca comunale di Siena e la Biblioteca nazionale di Firenze. I Componimenti teatrali furono pubblicati a Siena nel 1759; una raccolta integrale delle sue opere fu avviata alla fine del secolo, ma degli otto volumi previsti ne furono stampati soltanto tre (Collezione completa delle opere edite ed inedite, Aia [ma Siena] 1797). Numerose furono le ristampe, complete o parziali, ottocentesche, tra le quali gli Scritti satirici in prosa e in verso, a cura di L. Bianchi, Siena 1865 e il Vocabolario cateriniano, a cura di P. Fanfani, Firenze 1866.
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