GIROLAMO da Treviso, il Giovane
Nacque a Treviso nel 1498 (Vasari, 1550, p. 764). Dai documenti relativi alla sua attività bolognese si ricava che fu figlio di un certo Tommaso (Supino, 1914, p. 104 doc. 78) e non del pittore Pier Maria Pennacchi, come si è creduto in passato.
Benché le fonti antiche affermino che egli si era recato giovanissimo a Venezia per studiare presso Giorgione o Tiziano (Speziali, p. 147), in realtà della sua formazione artistica si sa ben poco, nulla almeno che possa spiegare la sua futura versatile attitudine alle arti meccaniche, visto che praticò con alterna fortuna l'incisione, la pittura, la scultura e l'ingegneria bellica.
L'esordio di G. sembra essere legato al mondo dell'editoria. Nel 1515 Bernardino Benali richiese al Senato veneziano il privilegio di stampa per una xilografia raffigurante Susanna e i vecchioni, firmata col monogramma "HRTV" (Muraro - Rosand). Questo segno, interpretabile come "Hieronimus Tarvisius (o Trevisus)", è molto simile a quelli che compaiono in un gruppo di dipinti, già attribuiti a Gian Girolamo Savoldo da Longhi (pp. 162 s.), ma oggi concordemente ricondotti a G.: due piccole tele del Musée des beaux-arts di Rouen con Agar, l'angelo e Ismaele e la Benedizione di Giacobbe, la cosiddetta Nuda del Kunsthistorisches Museum di Vienna, la Venere dormiente della Galleria Borghese di Roma. Queste opere giovanili - più le altre segnalate da Fiocco, Tempestini (1989) e Lucco (1999), tra le quali meritano menzione almeno la Presentazione di Cristo al tempio della parrocchiale di Ca' Morosini (Padova) e il Cristo al limbo della Alte Pinakothek di Monaco - mostrano una cultura figurativa ancora legata all'umanesimo trevigiano, rinvigorito dalla presenza di Lorenzo Lotto e di Pier Maria Pennacchi, ma anche aggiornata su quanto si poteva vedere di nuovo a Venezia nel 1515, dall'opera di Giorgione al fondaco dei Tedeschi ai primi lavori di Tiziano, fino forse agli esordi lagunari di Savoldo.
Nel 1519, in seguito all'elezione a vicelegato pontificio di Bologna del vescovo di Treviso Bernardo de' Rossi, G. dovette trasferirsi nella città felsinea. A ridosso dell'approdo bolognese è collocabile il Noli me tangere di S. Giovanni in Monte, dove già si trovava la S. Cecilia di Raffaello. La pala rivela un'attenzione non superficiale per il raffaellismo di Francesco Raibolini detto il Francia, anche se non scompaiono i caratteri veneti, riscontrabili nel paesaggio e nella figura della Maddalena, esemplata su quella della Vergine nell'Annunciazione realizzata da Tiziano intorno al 1519 per la cappella Malchiostro nel duomo di Treviso.
Stando al racconto di Vasari (1568, p. 136), all'inizio del terzo decennio G. lavorò in S. Petronio alla decorazione della cappella di S. Maria della Pace, insieme con Giacomo Francia, Biagio Pupini, Innocenzo Francucci da Imola e Bartolomeo Ramenghi detto il Bagnacavallo. G. vi avrebbe affrescato l'Assunzione della Vergine su committenza di un rappresentante della famiglia Gozzadini (Speziali, p. 148). A testimonianza di quest'opera, perduta, come del resto tutta la decorazione della cappella, rimane un disegno conservato a Firenze (Uffizi, n. 13860 F). Nello stesso giro di anni dovrebbero datarsi i perduti disegni con episodi della Vita di Cristo, poi usati da Francesco da Nanto per una serie di xilografie, dove gli elementi veneti, giorgioneschi e savoldeschi, sono ancora predominanti (Zava Beccazzi).
Il 3 nov. 1523 G. stipulò con i serviti dell'ospedale di S. Maria dei Servi, detto ospedale di S. Biagio, il contratto relativo alla pala dell'altare maggiore (Supino, 1927, pp. 13 s.), rappresentante la Madonna col Bambino in gloria tra i ss. Petronio, Pietro, Paolo e Filippo Benizzi, già conservata nella Gemäldegalerie di Dresda e scomparsa nel 1945.
Anche se Longhi (pp. 164 s.) ne aveva indicato l'autore in Girolamo Sellari da Carpi sulla base di confronti stilistici assai suggestivi ma non del tutto convincenti, l'evidenza documentaria non lascia alcun dubbio sulla paternità di G. che, nei primissimi anni Venti, subito dopo il Noli me tangere, doveva essere venuto in contatto con la maniera dei ferraresi, e del Dosso (Giovanni Luteri) in particolare, cui si rifaceva anche Girolamo da Carpi. Il che spiega l'indubbia consonanza tra i due artisti omonimi.
Nel 1524 G. risulta essere iscritto nella matricola delle quattro arti di Bologna (Supino, 1938, p. 208).
Nello stesso anno ottenne la commissione di due formelle in marmo per il portale laterale destro di S. Petronio (I fratelli consegnano a Giacobbe la veste insanguinata di Giuseppe), per la quale esistono i documenti di allogazione e di pagamento (Id., 1914, p. 103 nn. 75 s.) e il Ritrovamento della coppa nel sacco di Beniamino, a lui attribuibile per la vicinanza stilistica.
Si trattava di una commissione particolarmente prestigiosa, che lo poneva a confronto diretto con gli altri artisti coinvolti nell'impresa: Niccolò Tribolo, Alfonso Lombardi detto il Cittadella, Amico Aspertini, Zaccaria da Volterra ed Ercole Seccadenari, ingegnere della Fabbrica e responsabile dell'opera. Benché non si conoscano suoi precedenti impegni scultorei, in questi bassorilievi, terminati entro il marzo del 1525, G. mostra un'insolita facilità nello scavo del marmo a incisione e sottosquadro, come pure nella disposizione pausata e potente delle figure, purtroppo contraddetta dalla presenza incongrua delle troppe teste nello sfondo, aggiunte dal Seccadenari in ossequio a un discutibile horror vacui (Brugnoli, p. 64). Fu proprio in queste formelle, d'altronde, che avvenne il definitivo salto stilistico che condusse G. lontano dagli esordi giorgioneschi, verso la sperimentazione di un possente e statico raffaellismo.
Il 17 ag. 1525 G. stipulò una "conventio" con Gregorio Magnani della Mirandola, cittadino bolognese, impegnandosi a istruire nella pittura il figlio Lucino per un periodo di due anni (Supino, 1914, pp. 103 s., doc. 77).
Sempre nel 1525 ottenne l'incarico di decorare la cappella della famiglia Saraceni in S. Petronio con i Miracoli di s. Antonio da Padova, completati nel maggio 1526 (ibid., p. 104 doc. 78).
Committente dell'opera era Giovanni Antonio Saraceni, ricco mercante bolognese, che voleva così magnificare e perpetuare la sua devozione per il santo taumaturgo, suo eponimo e protettore. Le otto scene dipinte a olio su muro, a grisaille, si ispirano, almeno nella composizione, alle stampe di Marcantonio Raimondi, come la serie degli Apostoli, e a quelle di Agostino De Musi, il Veneziano. G. riprende poi dai maestri romani la tendenza a stipare e concentrare sul proscenio le figure che, avvolte in pesanti drappeggi, si muovono con elegante compostezza, anche se la ripetitività degli atteggiamenti e la monotonia delle espressioni non giovano alla perfetta riuscita dell'opera.
Negli stessi anni G. ottenne da Giovan Battista Bentivoglio, già garante del pittore nel contratto della pala di S. Biagio, l'incarico di trasporre in pittura l'Adorazione dei magi che Baldassarre Peruzzi aveva lasciato allo stato di cartone al momento della sua partenza per Roma alla metà del 1523.
La grande tavola, ora alla National Gallery di Londra, è un felice tentativo di fondere la cultura dell'ultimo Raffaello con la cromia veneto-ferrarese: l'Eterno in alto ricalca quello che l'urbinate aveva inventato nella Visione di Ezechiele, dipinta per la famiglia bolognese degli Hercolani (Firenze, Galleria Palatina); mentre nel paesaggio costellato di ruderi classici s'intravede un omaggio tanto alla moda archeologica propria della Roma di Leone X quanto alle preferenze antiquarie dello stesso Peruzzi. Un gusto simile caratterizza anche l'Adorazione dei magi del Museo civico di Treviso, dove però, oltre alle autocitazioni dai disegni usati da Francesco da Nanto per le sue xilografie, si possono riconoscere influssi nordici, düreriani, nella resa del paesaggio e nella definizione dei costumi. Fu dunque a Bologna, entro il complesso e ricco teatro della cultura artistica del terzo decennio del Cinquecento, che l'artista ebbe il tempo e le opportunità di temprare la sua personalità e maturare le scelte stilistiche. Qui poté approfondire le tematiche classicistiche meditando sulla lezione del Garofalo (Benvenuto Tisi) e del Francia, studiando l'evolversi dell'arte di Girolamo da Carpi e le ricchezze cromatiche del Dosso; ma a colpirlo profondamente furono soprattutto le novità spaziali proposte da due toscani attivi occasionalmente in città, Baldassarre Peruzzi e Niccolò Tribolo. In particolare quest'ultimo fu l'incentivo decisivo a irrobustire e nobilitare il suo linguaggio, solo più tardi impreziosito dall'influenza delle forme eleganti del Parmigianino (Francesco Mazzola), presente a Bologna tra il 1527 e il 1531.
Nell'estate del 1527 si può presumere che G. abbia lasciato Bologna alla volta di Mantova, dove entrò a far parte dell'équipe impegnata nella decorazione di palazzo Te sotto la direzione di Giulio Romano (Mancini, p. 4). Tra il settembre e il dicembre di quell'anno egli lavorò all'ornamentazione della sala dei Venti, affrescando i nove esagoni della volta con Mesi e Divinità classiche e, forse, quattro dei sedici medaglioni sulle pareti, di mano molto simile, che rappresentano la Vendita di antidoti, la Pesca del mostro marino, la Clemenza di Scipione, il Nuoto.
Per probabili dissapori con Giulio, G. dovette abbandonare presto Mantova, anche se non prima dell'estate del 1528. Da Mantova passò direttamente a Genova, dove fu incaricato di dare inizio alla decorazione del palazzo di proprietà di Andrea Doria a Fassolo: il suo intervento, che Vasari (1568, p. 614) localizzava sulla facciata meridionale verso il giardino, è oggi difficilmente riconoscibile. L'opera, però, non doveva aver raccolto unanime consenso; e all'arrivo di Perin del Vaga (Pietro Buonaccorsi), forse alla fine del 1528, l'ammiraglio finì per affidare a quest'ultimo l'intera esecuzione dell'apparato decorativo.
La presenza di G. a Genova è confermata dal suo coinvolgimento nella progettazione degli stalli del coro della cattedrale di S. Lorenzo: esiste, infatti, un pagamento del 20 ag. 1529, quando il pittore era già tornato a Bologna, per un disegno con una storia di s. Giovanni Battista, che tuttavia non sembra sia mai stata intagliata (Alizeri). Una traccia della sua partecipazione a quest'impresa si può forse trovare in alcuni dossali del coro con Storie di Gesù, come si può desumere dalle xilografie di Francesco da Nanto.
Dunque, nell'estate del 1529 G. si trovava di nuovo a Bologna. A questo periodo dovrebbero risalire le due versioni dell'Adorazione dei pastori, una a Oxford (Christ Church Library, Picture Gallery) e l'altra a Dresda (Gemäldegalerie), nelle quali, soprattutto nell'accostamento di tinte fredde che rilucono con delicate dissonanze di toni pastellati, si fa sentire l'esperienza accanto ai due allievi di Raffaello.
In occasione delle celebrazioni per l'incoronazione imperiale di Carlo V nel 1530, sembra potersi collocare la pala Boccadiferro (London, National Gallery), già in S. Domenico a Bologna, che raffigura la Madonna col Bambino in trono, s. Giuseppe, s. Giacomo, s. Paolo e Ludovico Boccadiferro, eseguita con certezza dopo il 1527, anno in cui il committente fu richiamato a insegnare a Bologna. Considerata già da Vasari il suo capolavoro (1568, p. 137), la tavola rivela una personalissima adesione al classicismo emiliano, risolta in forme sciolte e libere, nient'affatto fredde o eclettiche, anzi predisposte a una declinazione cromatica dolce e mesta.
All'inizio del quarto decennio, G. si trasferì a Venezia, dove strinse amicizia con Pietro Aretino e realizzò la pala per l'altare di S. Giacomo nella chiesa, allora ancora in costruzione, di S. Salvador, forse su commissione del priore generale del convento agostiniano, Pellegrino da Bologna (Lucco, 1996, p. 130 n. 307). Il quadro, riscoperto da Rearick (1985, p. 129), è firmato e datato, e rappresenta i Ss. Giacomo, Lorenzo, Giovanni Evangelista e Maria Maddalena. Gravemente danneggiato da un incendio, se ne può ricostruire la composizione grazie al disegno preparatorio conservato al British Museum di Londra (Id., 1976).
Nella città lagunare G. riprese anche l'attività di frescante. Le fonti ricordano, infatti, e lodano ampiamente (Vasari, 1568, pp. 135 s.), la decorazione esterna, oggi perduta, della casa di Andrea Odoni presso le fondamenta dei Tolentini, che ospitava una ricca collezione di sculture classiche.
Il 3 sett. 1532 riscosse un pagamento per un'opera, perduta, destinata all'oratorio di S. Croce a Castelbolognese (Gaddoni, p. 16). La presenza di G. nel piccolo centro romagnolo ha indotto parte della critica a datare intorno a quell'anno l'affresco con la Madonna e santi nel locale oratorio di S. Sebastiano (Supino, 1938, pp. 208 s.), di qualità però molto modesta e in pessimo stato di conservazione.
La firma e la data 1533 suggellano la decorazione ad affresco della chiesa della Commenda a Faenza, eseguita per il cavaliere gerosolimitano Sabba da Castiglione: nel catino absidale la Vergine col Bambino in trono tra s. Giovanni, s. Caterina d'Alessandria, s. Maria Maddalena e il donatore, nella calotta in alto l'Eterno in gloria tra gli angeli, ai lati S. Michele Arcangelo e S. Girolamo, questi ultimi a monocromo e molto rovinati.
I dipinti faentini, dopo la scomparsa delle realizzazioni genovesi e veneziane, rappresentano la migliore e più estesa testimonianza di quell'opera di frescante che tutte le fonti ricordano come la sua attività di maggior successo. Profondamente apprezzati dallo stesso committente (Casadio, p. 209), essi mostrano effettivamente un artista maturo, in grado di gestire con disinvoltura l'ampia rete di riferimenti e di conoscenze che si era costruito nel decennio precedente: dal raffaellismo di Garofalo e Bagnacavallo al manierismo del Correggio (Antonio Allegri) e del Pordenone (Giovanni Antonio de' Sacchis), fino alle raffinatezze del Parmigianino. Contribuisce notevolmente alla felice riuscita dell'opera l'uso avveduto di una gamma coloristica chiara e luminosa, cui ben si addicono l'impostazione compositiva armonica, l'attenta architettura prospettica e la curata costruzione delle figure, di una grazia tutta raffaellesca. D'altro canto, l'idea di continuare l'ambiguo compromesso tra spazio reale e spazio pittorico sulla superficie del catino absidale attraverso una finta balaustra, che separa le figure in primo piano dallo sfondo, sembra il risultato della conoscenza delle sperimentazioni di Giulio Romano nei disegni per palazzo Te e per il duomo di Verona. La preziosa sensibilità formale, che fa di quest'opera il frutto più compiuto della sua carriera, sembra essere anche l'espressione più coerente rispetto al gusto e alla cultura del colto committente, Sabba da Castiglione, cavaliere e poeta dilettante dalla vena sottilmente malinconica, ma soprattutto convinto umanista, pienamente fedele agli aristocratici ideali di "ingegno, politezza, civiltà, cortigiania" (ibid., p. 211). Relativi a questo lavoro, di cui si conoscono anche le sinopie, sono due disegni preparatori a inchiostro bruno conservati agli Uffizi (nn. 1854, 15842).
Di ritorno a Bologna, G. realizzò la Madonna col Bambino in gloria e i ss. Girolamo e Caterina d'Alessandria (1534-35), già nella cappella Belloni in S. Salvatore e oggi al Museo nazionale di Varsavia. La pala, firmata, è un discreto tentativo di interpretare la S. Cecilia di Raffaello - il cui paradigma informa le positure e le espressioni dei due santi - alla luce delle novità ferraresi del Dosso, probabilmente filtrate tramite la pittura di Girolamo da Carpi.
Il 15 maggio 1537 Pietro Aretino (I, p. 195), scrivendo a Francesco dell'Arme, mandava a G. i suoi saluti, chiamandolo "compare". Fino al dicembre del 1537 G. si trovava ancora a Bologna, e si offriva, senza successo, di finire il monumento sepolcrale di Francesco II Gonzaga rimasto incompiuto alla morte del Cittadella, come si ricava da una lettera dello stesso Francesco dell'Arme a Giovanni Giacomo Calandra, segretario dei Gonzaga (Speziali, p. 149).
Di questo periodo dovrebbe essere la Morte della Vergine della Walters Art Gallery di Baltimora, dove si fa maggiormente sentire l'eredità dei lasciti pordenoniani a Cortemaggiore e Piacenza: le figure, stagliate su un fondale architettonico a colonne ioniche, sono colte in atteggiamenti patetici o scorciate all'inverosimile. La tavola, a dispetto delle ridotte dimensioni, ha un respiro monumentale tale da lasciar supporre che si tratti di una prova d'artista, e forse la si può identificare con quella presentata da G. per il concorso dell'ospedale della Morte, indetto in quegli anni a Bologna.
Proprio l'esclusione da questo concorso, secondo Vasari (1568, p. 138), avrebbe spinto il trevigiano a lasciare Bologna per l'Inghilterra. In realtà, il canale che consentì a G. di stringere quei contatti che lo portarono al servizio di Enrico VIII fu l'esecuzione per la cappella degli studenti inglesi in S. Salvatore della Presentazione della Vergine al tempio con s. Thomas Becket: la tela, molto danneggiata, e forse mai terminata, è databile plausibilmente alla vigilia della partenza di G. per l'Inghilterra (Dillon, p. 172), anche se si è a volte pensato di retrodatarla di quasi un decennio (Speziali, p. 148). Se ne conosce un bel disegno preparatorio agli Uffizi (n. 1389 E), dove però manca il santo di Canterbury.
Nell'agosto del 1538, come si evince da una lettera di Pietro Aretino ad Andrea Odoni (II, p. 81), G. si trovava in Inghilterra, ed era già apprezzato dal re, non per le sue qualità di pittore, bensì per quelle di ingegnere militare. Quattro anni dopo, il 22 maggio 1542, Pietro scriveva direttamente a G. congratulandosi per la notevole posizione raggiunta: 200 ducati di pensione, la costruzione di un palazzo dove abitare e la nomina a gentiluomo (ibid., p. 379).
Del periodo inglese rimangono scarse testimonianze e nessuna opera certa. Problematica è infatti l'attribuzione, proposta da Pouncey, del quadretto a monocromo con lumeggiature giallo-oro raffigurante gli Evangelisti lapidano il papa della Royal Collection di Hampton Court, interessante esempio di iconografia antipapista; più sicura l'assegnazione di altri due monocromi con la Natività e l'Adorazione dei pastori, entrambi a Cambridge, MA, Fogg Art Museum (Fredericksen - Zeri).
Come si desume da una lettera di Pietro Aretino (III, p. 235), G. morì poco prima del settembre 1544 a Boulogne, in Piccardia, colpito da una cannonata mentre provvedeva ai bastioni e alle fortificazioni per le artiglierie inglesi impegnate nell'assedio della città francese.
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