GIROLAMO da Santacroce
Figlio di Bernardino di professione "sartor", nacque in data imprecisata, ma probabilmente all'inizio del nono decennio del Quattrocento, nel borgo da cui prende il nome: Santa Croce (ora frazione di San Pellegrino Terme), in Val Brembana.
Sotto questa denominazione - "da Santa Croce" - è conosciuto un gruppo di pittori di origine bergamasca attivi a Venezia tra il XV e il XVI secolo, che grazie agli studi di Ludwig (1903) sappiamo essere distinti in due rami: il primo facente capo a Francesco di Simone da Santacroce e successivamente a Francesco detto Rizzo De Vecchi (De Galizzi), il secondo composto da G., dal figlio Francesco e dal nipote Pietro Paolo. Con i primi, G. non sembra avere avuto legami di parentela; d'altro canto la mancanza di suoi contatti diretti con la terra natia induce a credere che egli si fosse trasferito giovanissimo a Venezia o, perfino, che fosse nato nella città lagunare da genitori bergamaschi.
La formazione artistica di G. avvenne sicuramente a Venezia, dove fin dall'ultimo decennio del Quattrocento frequentò la bottega di Gentile Bellini. Due importanti documenti provano, infatti, che all'inizio del secolo successivo il maestro e il giovane garzone erano già uniti da un saldo vincolo di fiducia.
Il primo, del 20 ott. 1503, è il testamento di Maria Trevisan, la seconda moglie di Gentile Bellini, nel quale G. compare come testimone e si firma "Ierolimo de maistro Bernardin depentor" (Ludwig, p. 12): dal che si deduce che G. aveva sicuramente più di quindici anni, potendo fare da teste in un atto notarile, ed era già pittore. L'altro documento, del 18 febbr. 1507, è il testamento dello stesso Gentile, dove G. risulta beneficiario, insieme con un altro garzone di nome Ventura, dei suoi disegni "retracta de Roma" (ibid., p. 13).
Alla morte del maestro (1507), G. rimase con tutta probabilità nell'ambiente della bottega del fratello di Gentile, Giovanni. Ma la sua produzione giovanile rimane ancora in gran parte sconosciuta, anche perché con ogni probabilità legata interamente alle necessità della bottega belliniana. Recentemente gli è stata assegnata una Testa femminile su tavola, databile al 1503-05, conservata nella collezione Sola-Cabiati di Milano, già riferita a Bellini stesso e basata comunque su modelli belliniani, per esempio la Sacra Conversazione "Pourtalès" della Pierpont Morgan Library di New York, del 1500 circa (Lucco, pp. 20 s.). Negli anni immediatamente successivi al 1512 si datano due tavole di G., eseguite a tempera, con due santi (Londra, National Gallery).
Secondo l'ipotesi di Ludwig (pp. 18 s.), le due tavole rappresentano S. Giovanni Evangelista e S. Alessandro, ed erano collocate nell'oratorio veneziano della Madonna della Pace, la cui realizzazione è legata alla munificenza del vescovo bergamasco Lorenzo Gabriel, morto nel 1512, e alla sollecitudine di suo fratello Zaccaria, cui si deve la costruzione della tomba di famiglia; la committenza bergamasca troverebbe un'ulteriore conferma nella presenza di s. Alessandro, patrono e protettore di Bergamo. Questa ipotesi è stata però contestata da Davies (pp. 214 s.), per il quale non esistono prove sicure sull'appartenenza dei due dipinti al complesso veneziano né sull'identificazione dei due santi.
Nel 1516 G. ebbe un figlio di nome Francesco, anch'egli poi pittore.
La prima opera firmata da G. è la Madonna col Bambino "Ryerson" (Art Institute of Chicago), che reca la data 24 ott. 1516. Si tratta di una tempera su tavola di evidente ispirazione belliniana, anche se l'inquadratura a figura intera e lo scorcio insistito della mano sinistra di Maria lasciano intravedere la riflessione su altri pittori, come Bartolomeo Cincani (detto il Montagna) e Giovan Battista Cima da Conegliano.
Alla morte di Giovanni Bellini (1516), è possibile che G. sia passato per breve tempo a frequentare la bottega di Cima (Della Chiesa - Baccheschi, p. 4). Certamente l'anno successivo era ormai uscito dalla bottega belliniana e apriva un'impresa in proprio presso la parrocchia di S. Antonino, come risulta da due documenti del 1517 e del 1518 (Ludwig, p. 16).
Al 1519 risale la Vocazione di s. Matteo (Bassano, Museo civico), una tela a olio firmata e datata nella quale G. imita i modi di Bonifacio de' Pitati, anche se la rigidezza delle figure e dei gesti, insieme con la prospettiva architettonica dello sfondo, presuppone una derivazione da esempi tardi di Vittore Carpaccio (Pilo, pp. 7 s.). Da questo momento egli iniziò un'abbondante produzione di pale e polittici di livello qualitativo altalenante, eseguiti però con tecnica diligente e colorito piacevole, sempre di chiara ispirazione cimesca e belliniana. Fu soprattutto l'ubbidienza letterale allo stile di Giovanni Bellini, che accomunava la sua esperienza a quelle di Francesco Bissolo, Rocco Marconi, Bartolomeo Veneto e Vincenzo Catena, a garantirgli un discreto successo nella città lagunare e in quelle del territorio nel corso del terzo e per buona parte del quarto decennio del Cinquecento, quando riuscì a ottenere commissioni di un certo rilievo.
Firmata e datata 1520 è la tavola a olio raffigurante S. Thomas Becket in trono tra angeli e quattro santi nella chiesa di S. Silvestro a Venezia, più volte ridipinta nel corso dell'Ottocento (Heinemann, 1962, p. 171 n. 567).
Nel 1525 eseguì una pala con la Madonna col Bambino e il beato Lorenzo Giustiniani (che l'anno prima era stato beatificato da Clemente VII) per i canonici regolari di S. Giorgio in Alga, da collocarsi nella chiesa della Madonna dell'Orto a Venezia; il dipinto, andato perduto, fu presto sostituito da un'opera di Giovanni Antonio de' Sacchis detto il Pordenone (Moschini Marconi, p. 175).
Del 1527 è la pala di Luvigliano (Padova), una grande tela centinata rappresentante S. Martino che dona il mantello a un povero tra i ss. Giovanni Battista, Giovanni Evangelista, Pietro, Paolo e un donatore, posta sopra l'altare maggiore della chiesa di S. Martino.
I lavori di questo primo periodo, di concezione monumentale e d'impianto luminoso, sono tra i migliori della sua lunga attività. Tra questi, per esempio, è l'Adorazione dei pastori del Museo di Castelvecchio di Verona, una piccola tela a olio nota anche come il "Presepe degli arieti cozzanti" (Berenson, p. 157), dal motivo raffigurato nello sfondo del paesaggio. Direttamente da un modello originale di Giovanni Bellini derivava invece il Cristo portacroce (olio su tavola, già nel Museo di Erfurt), distrutto durante la seconda guerra mondiale. Tra le opere collocabili in questa prima fase vanno senz'altro segnalate la tavola a olio con S. Pietro della Yale University Art Gallery (Jarves Collection) di New Haven e quella con S. Giovanni Battista del Museo di belle arti di Budapest, copia della parte centrale di un trittico di Giovanni Bellini del 1500-05, già nel Kaiser-Friedrich Museum di Berlino, ma proveniente dalla chiesa di S. Cristoforo in Isola a Venezia (Gnaccolini, p. 118). Più incerta è invece l'attribuzione del cosiddetto Paesaggio campestre (in realtà Il giovane Mercurio ruba le vacche di Apollo) del Rijksmuseum di Amsterdam, una tela a olio che per Heinemann (1962, p. 171 n. 570 bis) è comunque databile alla metà del terzo decennio.
Nel 1530 G. è ormai un artista affermato, riceve commissioni più impegnative e il suo nome appare iscritto nella fraglia dei pittori di Venezia (Stradiotti, p. 578). Firmato e datato 1531, è il trittico per il duomo di Castellaneta, oggi nel Museo provinciale di Bari.
Tradizionale nell'iconografia - la Madonna col Bambino al centro e Santi negli scomparti laterali - come pure nella tecnica a olio su tavola, il trittico pugliese si caratterizza per un'impostazione compositiva quasi quattrocentesca, con le figure rigide e frontali, che richiamano lo stile di Alvise Vivarini, semmai aggiornato su Cima da Conegliano.
L'anno successivo G. firmò e datò quattordici quadretti con episodi della Vita di s. Francesco, oggi non più rintracciabili, per la Scuola di S. Francesco della Vigna a Venezia.
La data 1533, insieme con la firma, era un tempo leggibile nella Madonna col Bambino fra i ss. Giovanni Battista e Girolamo, una tela a olio conservata nelle Civiche Raccolte d'arte del Castello Sforzesco a Milano (Berenson, p. 153). Nello stesso anno firmò e datò la Trinità (olio su tela), pure del Castello Sforzesco: è uno stendardo processionale, raffigurante entro una ricca cornice decorativa di gusto lombardo il Cristo crocifisso retto dall'Eterno in gloria, con angeli e cherubini; mentre nella zona inferiore si distende una limpida veduta paesistica. Legata all'esecuzione di questo tipo di manufatti è anche l'Immacolata Concezione del Museo Correr di Venezia, un dipinto su seta forse parte dello stendardo processionale visto da Marco Boschini in S. Maria Maggiore a Venezia (Mariacher, p. 211).
La pratica artigianale della bottega prevedeva anche le decorazioni dei cassoni, dipinti con particolare cura e molta copia da G., e poi da Francesco e Pietro Paolo, tutti scintillanti d'oro, con incorniciature a rilievo, ampie raffigurazioni mitologiche e gli sfondi animati da paesaggi collinosi, popolati di villaggi e arricchiti di alberelli e cespugli: tra questi si ricordi almeno il Ratto di Europa del Museo del Palazzo di Venezia a Roma, una tempera su tavola assegnata a G. da Venturi (pp. 169 s.).
Nel 1534, a conferma del pieno inserimento di G. nella vita artistica, culturale e politica di Venezia, il suo nome compare iscritto nel registro dei fratelli del capitolo e di disciplina della Scuola grande della Misericordia (Stradiotti, p. 572). Nello stesso anno gli fu commissionato un polittico per il convento francescano dell'isolotto di Kosljun (S. Maria di Castiglione o Cassione) presso l'isola di Veglia, nel golfo del Quarnaro (ibid., p. 578); l'opera, realizzata nel 1535, rappresenta al centro la Madonna col Bambino in gloria tra quattro santi, negli scomparti laterali l'Annunciazione e Santi, nella predella Storie della Vergine.
Il complesso, dipinto a olio su tavola, è racchiuso entro la ricca cornice lignea originaria e culmina in un timpano con l'immagine della colomba: si tratta di un'opera particolarmente impegnativa nella quale si ravvisano elementi stilistici e dati tipologici più volte ricorrenti nei lavori di G. e del figlio Francesco destinati alla costa dalmata, come nella Vergine in gloria del frammentario polittico di Lissa o nel S. Girolamo del polittico di Lesina, quest'ultimo attribuibile al solo Francesco (Prijateli, 1967, p. 59). Il polittico di Kosljun è infatti il primo di una lunga serie di opere commissionate a G., e poi ai suoi discendenti, dai piccoli conventi, dalle famiglie di nobiltà provinciale e dalle piccole cittadine delle isole dalmate e istriane: si tratta perlopiù di opere volutamente quattrocentesche, sia nella struttura a polittico con gli elementi separati e le cornici lignee dorate, sia nello stile sculturale evidente nelle figure statiche e nei drappeggi metallici delle vesti. La presenza delle opere dei Santacroce in Istria e Dalmazia è dunque il frutto tardivo delle tendenze conservatrici del gusto dei committenti locali, soprattutto dopo l'improvvisa estinzione dell'attività delle botteghe autoctone, come quelle di Nikola Božidarević (Niccolò da Ragusa) e di Mihajlo Hamzić a Ragusa, improntate a un prezioso arcaismo stilistico, fedele ai paradigmi della pittura marchigiana e veneziana del Quattrocento (soprattutto i Vivarini e Carpaccio). Proprio questo conservatorismo e la conseguente incomprensione delle novità offerte da Giorgione e Tiziano spiega la preferenza concessa ai Santacroce, la cui produzione eclettica e tradizionalista si addiceva meglio al gusto, alla sensibilità e ai mezzi dei committenti dalmati. Per G. questa scelta di campo, che pure risultò vincente sotto il profilo economico, sanciva un significativo allontanamento dalla piazza veneziana.
Alla metà del quarto decennio G. doveva aver cambiato residenza. Infatti in un atto notarile del 29 marzo 1536 il pittore si sottoscrive come abitante nella parrocchia di S. Martino, sempre a Venezia (Ludwig, p. 16).
Nello stesso anno firmò e datò il trittico a olio su tela nella chiesa francescana della Visitazione a Pisino, in Istria, ora smembrato e reinserito entro singole cornici nel dossale marmoreo settecentesco dell'altare maggiore. Il pannello centrale, con la Madonna col Bambino in trono tra i ss. Francesco, Giuseppe, Giovanni Battista e Antonio, è molto ridipinto e fortemente alterato soprattutto nel gruppo mariano. Nel pannello a sinistra sono rappresentati i Ss. Nicola di Bari e Bernardino; in quello a destra, un Santo vescovo e s. Girolamo.
Nel 1537 firmò e datò la Madonna col Bambino in trono tra i ss. Giuseppe e Nicola di Bari, una tela a olio già nella cattedrale di Capodistria e oggi nella chiesa madre di Isola d'Istria.
Del 1539 sono la pala con la Trinità e i ss. Giacomo e Girolamo dei Musei civici di Padova, piuttosto rovinata, e la Resurrezione, una tavola a olio firmata nella chiesa di S. Martino a Venezia. Un anno dopo realizzò a olio su tavola la pala della chiesa parrocchiale di Blato nell'isola di Curzola, donata, come recita un'iscrizione, dal nobile locale Iacopo Kanavelić (Prijateli, 1967, p. 56): il dipinto, che rappresenta S. Pietro in trono tra santi e martiri nel paradiso (Ognissanti), fu probabilmente eseguito insieme con Francesco. Nello stesso anno il suo nome compare nella mariegola (matricola) della Scuola grande della Misericordia, il che testimonia il continuo e proficuo rapporto di G. con questa confraternita (Stradiotti, p. 572).
Fin dalla metà dagli anni Trenta la produzione di G. conosce però una netta flessione qualitativa: se le tipologie delle figure rimangono quelle copiate dai vari Bellini, Cima e Palma il Vecchio (Iacopo Negretti), la sua pittura si indurisce e si fa più grossolana, gli incarnati assumono un colorito bruno poco felice e le pieghe delle vesti diventano larghe e profonde. Nel decennio successivo questa tendenza, tranne rare eccezioni come la pala di Burano, si conferma e si aggrava, in parallelo col crescente intervento della bottega: d'altro canto la presenza di Francesco, sempre più continua e ingombrante, rende spesso vana la distinzione delle opere del padre da quelle del figlio.
Nel 1541 G. firmò e datò la pala nell'oratorio di S. Barbara presso la chiesa di S. Martino a Burano: la tela a olio, rappresentante S. Marco in trono tra i ss. Benedetto, Nicola, Lorenzo e Vito, è sicuramente uno dei lavori migliori della maturità dell'artista, anche se evidenzia un ritorno dell'ascendente belliniano.
Alla data del 29 nov. 1542 il nome di G. compare nel Libro di spese diverse di Lorenzo Lotto, dove si legge: "doi teste de Salvator per mastro Sixto frate in Zani Polo me feci aiutar a mastro Hieronimo Santa Croce".
Di queste Teste non si hanno più tracce; ma la notizia è di particolare interesse perché, oltre a testimoniare la collaborazione con Lotto, ci informa del fatto che in quegli anni la bottega di G. era disposta a risolvere richieste pittoriche a diversi livelli qualitativi e quantitativi: dalle copie di opere belliniane alla decorazione di stendardi, gonfaloni, cassoni, fino alla collaborazione con maestri più quotati, ma che non avevano una stabile bottega a Venezia.
All'interno delle relazioni mai del tutto estinte con i bergamaschi di stanza a Venezia, un posto privilegiato spetta a quella con la nobile famiglia dei Sagredo, che in due occasioni chiamò G. come testimone in atti notarili, nel 1544 e nel 1546 (Ludwig, pp. 17 s.), e che gli commise, probabilmente nello stesso periodo, due dipinti per la loro cappella gentilizia nella chiesa veneziana della Ss. Trinità (demolita nel 1832): la tela col Beato Gherardo Sagredo alle Gallerie dell'Accademia di Venezia, che ritrae il vescovo martire di Strigonia, e quella con la Madonna col Bambino tra s. Giovanni Battista e il beato Gherardo Sagredo, conservata nella chiesa di St-Étienne-du-Mont a Parigi.
Sicuramente databile a dopo il 1545, anno di fondazione del monastero, è il Trittico della Visitazione (olio su tela) nel coro del santuario della Madonna del Frassino, presso Oneta, che comprende, oltre alla centrale Visitazione, i pannelli laterali con S. Giuseppe e S. Simeone e la lunetta con l'Eterno e cherubini.
Nel 1549 G. firmò e datò l'Ultima Cena, una tavola dipinta a olio della chiesa veneziana di S. Martino, di cui si conosce il disegno preparatorio (Darmstadt, Kupferstichkabinet).
G. si dimostra ancora arcaico, quando dipinge gli apostoli rigidi e inespressivi, ma nella disposizione della scena mostra un epidermico accostamento al manierismo veneziano, ispirandosi nella fattispecie a Bonifacio de' Pitati.
Dello stesso anno è il polittico, firmato e datato, dell'altare maggiore della chiesa di S. Maria delle Grazie alle Paludi presso Spalato.
L'assieme è costituito da dieci tavole centinate dipinte a olio, disposte su due ordini sovrapposti e racchiuse entro la cornice lignea cinquecentesca. In esse sono rappresentati, in basso negli scomparti centrali, S. Francesco tra i ss. Bernardino e Antonio e, in alto, la Vergine col Bambino tra gli angeli incoronanti, mentre Santi e Sante a figura intera si dispongono negli scomparti laterali: tra essi spicca s. Doimo, il protettore di Spalato, ritratto con in mano il modellino della città. A dispetto della coincidenza di date con l'Ultima Cena, il polittico di Spalato è condotto secondo le più ligie convenzioni belliniane. Da questo confronto risulta evidente come lo stile di G. si piegasse consapevolmente alle diverse richieste della committenza, improvvisandosi aggiornato per i veneziani di S. Martino e ripiegando invece al primitivo fare quattrocentesco per i clienti della costa dalmata. Comunque sia, G. seppe tenersi sempre al corrente delle novità artistiche veneziane, anche grazie allo studio delle stampe, dimostrandosi pronto a convertirle in un linguaggio gradevole e accessibile a un pubblico non intenditore, riproponendole senza originalità, ma con una tecnica accurata e diligente capace di creare vivi contrasti cromatici nelle vesti, di variare gli accordi verde-chiaro, azzurro e rosa pallido. G., però, fu soprattutto abile negli sfondi paesaggistici trattati con una buona luminosità, popolati di figurine carpaccesche, punteggiati da semplici alberelli, sullo sfondo di cieli grigi solcati da nuvole vaporose su cui si stagliano colline e montagne azzurrine.
Intorno al 1549 si possono datare le due tavole a olio delle Gallerie dell'Accademia con i Ss. Gregorio e Agostino e i Ss. Ambrogio e Girolamo (quest'ultima in deposito nella chiesa della Madonna dell'Orto), parte di un complesso dedicato ai dottori della Chiesa, in origine collocato nella cappella dei Lucchesi in S. Maria dei Servi a Venezia.
Nello stesso luogo, e probabilmente parte di un unico progetto decorativo, si trovavano due tele a olio con i Quattro Evangelisti: S. Matteo e S. Luca, purtroppo ritagliati a mezzo busto, alle Gallerie dell'Accademia di Venezia, S. Giovanni e S. Marco, nello stesso museo, ma ora in deposito nella chiesa di S. Elena (Moschini Marconi, p. 185).
Al quinto decennio dovrebbe risalire anche un polittico, smembrato, per la chiesa di S. Lorenzo a Venezia, di cui sono stati rintracciati alcuni scomparti laterali dipinti a olio su tavola, con santi, incoronati da angeli, a figura intera su sfondi paesaggistici: S. Sebastiano e S. Liberale dell'Ermitage di San Pietroburgo, S. Stefano della Pinacoteca di Brera, S. Lorenzo del Courtauld Institute di Londra, S. Agnese della collezione Wantage (Lockinge House, Berkshire), S. Giovanni Battista e S. Barbara di ubicazione ignota (Fossaluzza).
Verso il 1550 si colloca la piccola tavola a olio con l'Annunciazione (Columbia, SC, Museum of art, Kress Collection), un singolarissimo assemblage di motivi presi in prestito da Tiziano (la perduta Annunciazione per S. Maria degli Angeli a Murano, nota grazie all'incisione di Iacopo Caraglio) e da Giulio Romano (la cosiddetta Perla al Museo del Prado di Madrid). Pure dei primi anni Cinquanta dovrebbero essere la tavola a olio con la Natività della Gemäldegalerie di Dresda, quella con S. Nicola di Bari del Ringling Museum of art di Sarasota e la tavola della cattedrale di S. Trifone a Cattaro, un olio proveniente dalla chiesa di S. Nicolò, con S. Bartolomeo tra s. Antonino e s. Giorgio che uccide il drago.
È del 1555 l'ultima opera datata di G., la pala della cattedrale di Lucera (Foggia), un olio su tela raffigurante la Madonna col Bambino in trono, l'Eterno e i ss. Nicola e Giovanni Battista. L'intero gruppo centrale ritorna identico nella grande tela con la Madonna col Bambino in trono e le ss. Maddalena, Apollonia, Lucia e Caterina nella chiesa di S. Anna a Capodistria, lavoro impostato da G. ma eseguito quasi integralmente dal figlio, a dimostrazione della continuità di prassi esecutive, temi iconografici e soluzioni compositive che caratterizzò la ricca produzione della bottega dei Santacroce.
Il 9 luglio 1556 G. morì a Venezia, come è annotato nel necrologio della parrocchia di S. Martino (Ludwig, p. 18).
Nonostante le molte opere datate e firmate, il suo sorprendente eclettismo, la ripetitività di temi e situazioni iconografiche, l'intervento spesso determinante della bottega e di conseguenza la confusione della sua personalità con quelle di Francesco e di Pietro Paolo rendono ardua la redazione di un solido corpus delle opere di Girolamo. Questo è soprattutto vero per alcuni dipinti a lui attribuiti, la cui cronologia risulta del tutto aleatoria. Tra questi si ricordano: lo Sposalizio della Vergine nella sagrestia di S. Maria delle Querce di Arrone (Terni); una tavola a olio che è stata ricondotta a G. da Berenson (p. 153) e da Heinemann (1962, p. 166 n. 512); il Trittico (olio su tavola) dell'Accademia Carrara di Bergamo, raffigurante la Madonna col Bambino nello scomparto centrale e i Ss. Giovanni Battista, Caterina d'Alessandria, Giacomo e Maria Maddalena in quelli laterali; la Madonna col Bambino e i ss. Girolamo e Giovanni Battista (olio su tela) del Museo Correr di Venezia; la tela con S. Girolamo della Galleria Sabauda di Torino, assegnata a G. da Berenson (p. 154).
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