CORNER, Girolamo
Del ramo dei Corner detto "della Regina" residente a S. Cassiano, una famiglia tra le più illustri e più potenti dell'oligarchia senatoria veneziana, nacque il 25 giugno del 1632 da Andrea di Girolamo di Giorgio e da Morosina Morosini di Caterino. Terzo di quattro maschi (con Giorgio, Caterino, Federico, esclusi Girolamo e Marco morti in tenera età), toccò solo a lui - secondo una consolidata prassi familiare volta ad evitare dispersioni ereditarie del patrimonio - di prender moglie, sposando nel 1667 Cornelia Corner di Nicolò, da cui ebbe cinque maschi: Caterino, Andrea, Federico, Nicolò e Giorgio.
Benché Cornelia gli portasse la cospicua dote di 42.000 ducati, il C. si lamentò ripetutamente di essere stato costretto al matrimonio dai fratelli senza poi riceverne un adeguato sostegno economico. Né fu questo lo unico motivo di attrito nella famiglia. La morte del padre, caduto nel 1646 nella difesa di Retimno, portò alla luce un cumulo di debiti per oltre 100.000 ducati. Se il tempestivo intervento degli zii Giorgio, Francesco e Federico aveva permesso di salvare l'ingente fortuna immobiliare dei fratelli (un migliaio di ettari circa in Terraferma, senza contare le numerose proprietà in città) dallo scatenarsi dei creditori, esso non era valso a salvaguardare il bene ritenuto di gran lunga il più prezioso: l'unità della famiglia e del patrimonio. Insofferente dell'amministrazione dello zio Federico, Giorgio riusciva infatti a trarre dalla sua anche il C., e, quando questi nel 1648 uscì dall'età pupillare, insieme pretesero la divisione giudiziale dei beni della fraterna; ne seguì poi una serie innumerevole di cause, destinate ad avvelenare irreparabilmente la vita della famiglia, in cui Giorgio e il C. (diseredati dagli zii) si schierarono sistematicamente contro Caterino e Federico.
Queste traversie non impedirono comunque al C. di dedicarsi attivamente alla vita politica. Eletto due volte, tra il 1657 e il '59, savio agli Ordini, una carica cui venivano chiamati a fare esperienza i giovani destinati alle carriere più prestigiose, per il primo decennio di attività si occupò esclusivamente in magistrature e consigli cittadini: fu officiale alle Cazude nel 1659-60 e ai Dieci uffici nel '63-64, savio alle Decime nel '65-66, depositario al Banco Giro e provveditore alla Sanità nel '67-68; chiamato al Senato dal 1666, giunse infine ai vertici della vita politica, eletto al Consiglio dei dieci nel '68-69 e nel '70-71 e savio di Terraferma per il primo semestre del '69, contemporaneamente ad altri incarichi minori come provveditore sui Beni comunali, sui Feudi, all'Armar, e savio all'Eresia; sempre nel 1669 veniva insignito del titolo di cavaliere di S. Marco per i meriti del fratello Caterino caduto nella difesa di Candia. Acquisita così una solida esperienza politico-giudiziaria, il 20 marzo 1672 veniva eletto alla carica, di grande rilievo e delicatezza, di sindaco e inquisitore in Terraferma, assieme a Marc'Antonio Giustinian, cavaliere, già ambasciatore in Francia e futuro doge, e Michele Foscarini, storiografo e autorevole membro del Collegio con una lunga esperienza giudiziaria.
Il prestigio dei tre eletti e l'eccezionalità dei poteri loro attribuiti (con autorità anche sui rappresentanti pubblici in carica o decaduti da non oltre un decennio, e la sostanziale inappellabilità delle sentenze emanate) sono indicativi dell'importanza della missione affidata ai tre sindaci: rimettere ordine in tutti gli aspetti di un'amministrazione che nel trentennio della guerra di Candia aveva subito un processo di grave deterioramento. E in effetti risultati concreti non ne mancarono: iniziando nel settembre 1672 dai territori oltre Mincio, per spostarsi nel gennaio 1674 a Verona, i sindaci diedero mano ad un'opera minuziosa e sistematica, che alla revisione e punizione degli abusi incorsi (arriveranno persino a pretendere la restituzione al "laico" di tutti i beni passati dal 1630 in poi in mano ecclesiastica), univa spesso interventi positivi di riorganizzazione e ristrutturazione, ad es. per la cronica situazione debitoria delle Camere, gli appalti dei dazi pubblici, i ruoli delle milizie, i comparti amministrativi dei territori e i rapporti tra città e distretti. Altrettanto decisa la loro azione sul piano giudiziario, tanto civile, oppresso da una litigiosità esasperata, quanto penale: furono fatti incarcerare delinquenti fin allora lasciati indisturbati, venne giustiziato un bandito senza tenere in conto i perentori divieti dell'Avogaria, soprattutto fu resa giustizia a quegli innumerevoli "miserabili" cui sinora, "in riguardo alla disparità delle persone", era stata negata. Non si fermarono neppure di fronte ai rettori, denunciando - sia pure "con vivissimo tormento dell'animo" loro - la corruzione dei tre ultimi podestà di Bergamo, cogliendo allora l'occasione per ricordare al Senato che l'invio di sindaci poteva sì esser "giovevole", ma "il vero e sommo bene" restava pur sempre "l'espedir ne' reggimenti soggetti di abilità e di conscienza", capaci di guadagnarsi il rispetto e l'affetto dei sudditi con l'esercizio "d'una incorrotta giustizia".
Eletto provveditore generale a Palma, il C. non poté portare a termine il sindacato, che si protrarrà per altri tre anni; nel febbraio del 1674 fu sostituito da Antonio Barbarigo, per recarsi nella fortezza tre mesi dopo. I due anni di generalato non gli apportarono in sostanza altre preoccupazioni che i continui interventi di restauro alle fortificazioni, soggette a sbrecciature e crolli per la pessima qualità del terreno. Era però nella situazione economica e sociale, assai più che nella fragilità delle sue mura, che il C. individuava il vero punto debole della fortezza.
Abitata solo da "gente forestiera, mendica e fallita, che non ha modo di sostenersi nel proprio paese", priva del tutto di industrie e commerci e di un ceto di benestanti che li avviasse e sostenesse, Palma gli appariva come un corpo possente ma privo d'anima, e perciò incapace di sostenere un vigoroso assalto. La sua relazione al Senato si incentrava dunque tutta su proposte atte ad "animarla", cogliendo acutamente il centro del problema nell'essere la fortezza del tutto avulsa dal territorio circostante: occorreva pertanto, assieme ad una politica più decisa di esenzioni e privilegi, assegnare a Palma un proprio contado; inoltre al suo rettore andavano riconosciute più ampie facoltà giurisdizionali, mentre ai militari andava garantita la permanenza stabile nella piazza.
Ritornato a Venezia, il C. vi trascorse un triennio, chiamato ormai stabilmente ai vertici del governo - nel 1677 era consigliere, l'anno successivo membro del Consiglio dei dieci e inquisitore di Stato, nonché provveditore sopra i Beni inculti - per passare nel giugno del 1679 al governo della Dalmazia. Rimasto in carica poco più di due anni, anche qui egli accentrò la sua attenzione sui problemi economici e sociali della provincia più che su quelli militari: il preoccupante declino demografico, in special modo di un ceto nobiliare immiserito, incapace di sostenere il peso dei matrimoni ma testardamente contrario "all'aggregationi de' cittadini"; la persistente crisi di sovrapproduzione della viticoltura, fonte di grave disagio sociale; i disordini dei commerci, monopolizzati per conto altrui da esenti e privilegiati, con grave danno alle Camere.
Quanto ai rapporti coi Turchi, il C. si attenne ad una condotta prudente, per non pregiudicare una pace sempre precaria nella delicata zona di confine. Si preoccupò pertanto di eliminare ogni motivo di attrito, impedendo le scorrerie oltre frontiera dei Segnani, costringendo i sudditi Morlacchi al pagamento dei canoni dovuti ai proprietari turchi, promuovendo la definizione di precisi contratti per la coltivazione delle terre confinarie, attento però a non cadere in una pericolosa arrendevolezza: agli spropositati omaggi pretesi dal pascià-bosniaco egli oppose un secco rifiuto, preferendo piuttosto blandirlo con l'esercizio di una rigorosa giustizia nei numerosi ricorsi presentatigli dai Turchi.
Concluso il generalato in Dalmazia, il C. passava direttamente, nel giugno del 1682, alla carica di provveditore generale da Mar, mettendo ancora in luce, accanto alla scrupolosa revisione delle pratiche amministrative, la capacità di concreto intervento e di positiva proposizione per migliorare e riformare prassi e organizzazioni spesso poco rigorose o anacronistiche.
Sul piano fiscale, ad es., la scoperta di una trentennale serie di gravissimi abusi commessi dai ministri della Camera di Corfù lo portava a formulare un nuovo sistema di amministrazione e di contabilità basato sulle doppie registrazioni e su controlli multipli e incrociati, mentre a Cefalonia riformava integralmente l'esazione delle decime, fino ad allora ripartita a tutto guadagno dei "più auttorevoli benestanti" e "ad essential oppressione de' poveri"; sul piano militare, invece, si faceva promotore di una notevole proposta tesa ad adeguare la flotta veneziana alle più efficienti e agguerrite marine francesi, inglesi, olandesi, basata sull'abolizione di ogni distinzione tra equipaggio e milizia - e quindi, "a scanso delle confusioni", tra i rispettivi comandanti - in modo che ciascuno supplisse indifferentemente ad entrambe le mansioni; sul piano economico, infine, cercava di ovviare alla sovrapproduzione di uva passa di Zante, dovuta alla concorrenza turca e all'introduzione nell'isola di nuove tecniche di coltura. In una prospettiva strettamente utilitaristica egli vedeva anche la nuova guerra coi Turchi (cui partecipò per allora solo marginalmente, andando a presidiare Santa Maura), guardando soprattutto ai vantaggi derivanti dalla ricchezza dei territori conquistati nel primo anno di campagna, e alla possibilità di restituire gli antichi privilegi per i vascelli veneziani; arrivò anzi a organizzare spedizioni sui territori nemici al solo scopo di distruggerne i vigneti concorrenti delle coltivazioni di Zante.
Concluso nel novembre del 1684 il suo servizio, il C. non poté fermarsi a Venezia che per un breve periodo. Eletto ancora savio del Consiglio nel primo semestre del 1685, e quindi provveditore all'Armar, in dicembre dovette tornare in Dalmazia a sostituire il provveditore generale Pietro Valier, rimosso dalla carica dopo un suo disastroso attacco a Segna.
Decisione rivelatasi invero assai felice: trovata al suo arrivo una situazione prossima allo sfacelo - con le galere quasi disarmate, le milizie "ridotte al niente", i Turchi liberi di arrivare sin sotto Zara - in tre anni di campagna il C., impetuoso fino ai limiti dell'imprudenza, inflessibile nella disciplina interna quanto capace di ogni crudeltà e ferocia contro il nemico, condusse le sue truppe di successo in successo; sostenne prima l'attacco concentrato dei pascià di Bosnia, Erzegovina e Albania, poi, approfittando dell'impegno turco in Ungheria, passò all'offensiva conquistando Castelnuovo (impresa per cui fu nominato procuratore di S. Marco) e Knin, catturando il pascià di Bosnia, Atlaglich, e respingendo nuovamente quello di Albania. Liberato completamente il territorio di Zara e il litorale fino a Ragusa, occupati il Montenegro, la Bosnia e l'Erzegovina, poteva vantarsi nella relazione al Senato di aver ampliato i confini a un territorio largo 70 miglia e lungo 300, ricco di risorse e capace di forti tributi fiscali.
Rieletto nel marzo del 1689 provveditore generale da Mar, il C. si portò direttamente presso il capitano generale Francesco Morosini, intento all'assedio di Malvasia; questi però, per motivi di salute ma forse anche per non acuire la reciproca insofferenza, preferiva poco dopo rimpatriare lasciandogli il comando della armata. Assunta così la carica di capitano generale, il C. proseguì nell'assedio della città, che a prezzo di gravissime perdite, riuscì ad espugnare il 12 ag. 1690. Imbaldanzito dal nuovo successo, cercò di allargare ancora le conquiste portandosi alla Valona, di cui si impadronì facilmente insieme a Kanina; prese poi il mare alla volta di Durazzo, ma l'avanzare della cattiva stagione lo sconsigliò di intraprenderne l'assedio. Tornato alla Valona, morì improvvisamente, sembra colto da "febbri maligne", il 1° ott. 1690.
Della vasta letteratura contemporanea sulla guerra di Morea, che pone il C. tra i più gloriosi condottieri veneziani, secondo solo al Morosini, merita richiamare l'unica voce discorde, quella di Francesco Muazzo, colonnello al seguito del C. stesso, che nella sua Storia - peraltro tutta pregna di livore antiaristocratico - ne fa il simbolo di quanto di più nefasto può sortire da un sistema sociale corrotto e degradato come quello veneziano, non stancandosi di metterne a nudo l'ignoranza e l'inettitudine, la "barbara ambizione" cui tutto viene asservito, la spietata crudeltà e la mancanza di fede, la disinvoltura nel riconoscersi meriti altrui e nell'attribuire ad altri le proprie colpe. Lo stesso episodio della morte viene dal Muazzo grottescamente rovesciato: non febbri improvvise, ma un piede posto in fallo per il troppo bere, facendo precipitare rovinosamente il suo "pingue corpo" da una scala della nave, portò il C. alla tomba; l'episodio sarebbe stato poi tenuto segreto per non deturparne in alcun modo la fama.
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Misc. codd., regg. 63-64; le relaz. al Collegio sul reggimento di Palma, i due di Dalmazia ed il primo generalato da Mar sono rispettivamente Ibid., Collegio Secreta. Relazioni, busta 45, 17 giugno 1676, busta 67, 1° ag. 1682 e il 1° ott. 1689, busta 75, 22 febbr. 1684 more veneto; i dispacci del C. da Palma sono Ibid., Senato. Dispacci. Rettori, filza 52; quelli dei tre sindaci e inquisitori in Terraferma e del C. come provveditore generale in Dalmazia, provveditore generale da Mar, capitano generale da Mar, sono rispettivamente Ibid., Senato. Provveditori da Terra e da Mar, filza 275; filze 386 (rubriche), 393 (rubriche), 516, 525, 528; filze 907 (rubriche), 909 (rubriche), 946, 947; filze 1061, 1062 (patenti); filza 1123;lettere ai capi del Consiglio dei dieci dei tre sindaci e inquisitori e del C. come provved. gen. a Palma, provved. gen. da Mar e provved. gen. in Dalmazia, rispettivam. Ibid., Capi del Consigliodei dieci. Lettere dei rettori e altre cariche, filza 299, 23 nov. 1673 e 13 genn. 1673 m. v.; filza 298, 16 giugno 1675 e 10 febbr. 1675 m. v.; filza 300, 14 apr. 1681 e 15 ott. 1682; filza 303, 30 marzo 1686; due scritture del C. sui disordini alla Camera di Corfù e sulla riforma della flotta veneziana Ibid., Senato, Rettori, filza 106, 9 e 30 giugno 1685; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. Ital., cl. VII, 15 (= 8304):G. A.Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, I, c. 328v; Ibid., Mss. Ital., cl. VII, 205 (= 7463): R. Curti, Serie delle famiglie nobili venete, II, c. 143; Ibid., Mss. Ital., cl. VII, 172 (= 8187): F. Muazzo, Storia della guerra tra li Veneti e Turchi dall'1684 e 1696, cc. 4v, 29v-42v, 140 s., 152v-168; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. Correr, 921: L'Achille veneto, overo panegirico fatto in lode dell'ill.mo ... G. C. ... e di tutta la sua illustre et heroica Casa; il contratto di nozze e docum. sulla dote e il testamento di Cornelia, Ibid., Mss. P. D. c 2732/3; la copia della "condizion" di G. C. per il campatico del 1682, Ibid., Mss. P. D. c 2506/1, c. 9; copia del testamento di C., Modone, 25 ag. 1690, Ibid., Mss. P. D. c 2678/7; l'inventario dei suoi mobili, Ibid., Mss. P. D. c 2213/3; alcune lettere del C. da Venezia, Palma, Piombino, Ibid., Mss. P. D. c 1055/375, 1056/132, 1057/473, 1058/195, 1062/505; minute di lettere da Roma al C. a Venezia Ibid., Mss. Morosini-Grimani, buste 503-12 e 564/311; estratti di scritture, atti processuali, sentenze in cause di G. C. contro i fratelli, lo zio Federico e altri in materia successoria Ibid., Mss. P. D. c 1633, 2202/3, 2203/19, 23, 2229/5-9, 2230/5, 2247/3-7, 2323/9, 2331/2, 2345/9, 2377/40, 2379/15, 2442/19, 2473/6, 2571/9-13, 2603/3, 2678/3, 2689/3, 6, 2693/7, 2747/6; docum. relativi alla gestione economica delle cariche di provved. gen. da Mar e cap. gen. da Mar, Ibid., Mss. Morosini-Grimani, busta 575, c. 72, e P. 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