CARBONE, Girolamo
Nato a Napoli in una data che è impossibile ricavare se non congetturalmente (una testimonianza secondo la quale egli si occupa, nel 1487, di maritare la sorella anziana dimostra che egli è già adulto a questa scadenza), il C. conduce e qualifica la sua vita a ridosso delle esperienze intellettuali che segnano la cosiddetta "cultura aragonese", operante a Napoli tra i secc. XV e XVI.
Si deve al de Montera, oltreché l'edizione finora definitiva delle opere del C., la raccolta e il riordinamento degli scarsi e confusi dati concernenti la sua biografia e i suoi antecedenti genealogici. Dimostrata l'infondatezza dell'indicazione di Francesco Elio Marchese che, nel Liber de Neapolitanis familiis (1496), attribuisce origine romana alla famiglia del C., le prime tracce consistenti del Carbone a Napoli vanno ravvisate in età normanna con Landolfo - nobile del regno di Guglielmo il Buono - per arrivare al capostipite del ramo che qui interessa, tal Pietro, governatore del borgo di Pazzano, presso Acerra, durante il regno di Manfredi. Da questo discende Domizio, sposo di Mocia Aiossa e padre del C., possessore del feudo di Padula, che gli fu sottratto nel 1474 da re Ferrante d'Aragona e che tornò poi nelle mani dell'altro suo figlio, Iacopo, per concessione del re Ferrandino.
Nonostante una prima attività di avvocato, attestata dal modo con cui gli si rivolge il Pontano nei Carmina, e dai rapporti che egli stesso intrattenne con due famosi giuristi del tempo, Antonio Palmieri e Tomaso Grammatico, dedicatari di alcuni suoi versi, il C. si accostò precocemente al lavoro letterario - come non manca di ricordare un poeta contemporaneo, Camillo Querno, nel suo De bello Neapolitano (Napoli 1529) - e in questo campo raggiunse i risultati che gli permisero di conquistarsi un considerevole prestigio tra vari intellettuali del suo tempo, anche estranei all'area napoletana e al circolo pontaniano.
Si direbbe anzi che il peso della presenza del C. nella cultura che si muoveva intorno a lui si misura ancor più che attraverso gli scritti in definitiva, per quel che ci rimane, di modesta ampiezza - proprio col tener conto del carattere esemplare della sua carriera letteraria, singolarmente risolta all'esterno della pagina scritta, in una rete fitta e vivace di scambio orale (le riunioni dell'Accademia), in un modo di incarnare vivendo i temi della voluptas umanistica, la cui piena identificazione con gli ideali comuni è appunto testimoniata dal numero e dal calore dei richiami illustri al suo nome. A parte le citazioni postume di eruditi, è significativa l'affermazione del solitamente polemico Niccolò Franco (lettera a Girolamo Borgia) che non fosse "soma d'ogni bestia diventare il Carbone"; cui si devono aggiungere i versi laudativi di G. Britonio il quale, nella Gelosia del Sole (Napoli 1519), può, esaltandone le qualità poetiche, allineare il nome del C. accanto a quello prestigioso del Bembo. Ancora e soprattutto i continui richiami contenuti nell'opera del Pontano: oltre a meritare il titolo di "vir suavissimi ingenii" (De Sermone, IV, 9), il C. vi compare quale personaggio dialogante (Egidius), dedicatario (De Immanitate), figura tipica di acceso innamorato (Tumuli e Baiarum liber) o di uomo disponibile ai piaceri conviviali (Eridanus). L'intimità del legame tra l'insegnamento del Pontano e la cultura-costume del C. trova del resto il suo logico esito nella successione che a questo toccò, morto il Pontano (1503), nella direzione sia pur temporanea dei dibattiti accademici.
A monte di questa data stanno peraltro i momenti salienti della biografia del C. e dei suoi rapporti con la classe dirigente aragonese. In primo luogo la non chiarita circostanza della prigionia inflittagli dal re Ferrante - non sembra in relazione con la congiura dei baroni, che altri letterati coevi aveva implicato -, per la quale il C., scrivendone in versi e in una lettera di supplica, ricorre alla autorizzazzione ovidiana accusandosi responsabile di "culpa, non scelus". E certamente dové trattarsi di responsabilità lieve se riuscì rapidamente ad ottenere la libertà e a stringere rapporti di viva cordialità con l'erede al trono e duca di Calabria, Alfonso (cui potrà consigliare - da direttore di coscienza - di dedicare la giovinezza agli amori piuttosto che agli studi), e con la figlia di costui, Isabella d'Aragona, della cui vita sventurata il C. finì per essere intimo frequentatore.
Le relazioni indicate non mancarono di assicurargli una discreta serie di incarichi pubblici, tra i quali un'ambasceria presso la corte ferrarese (ricordata in un epigramma latino del poeta Tito Vespasiano Strozzi); l'elezione - nel 1507 - a procuratore per il quartiere di Capuana (carica assegnata anche al fratello); e inoltre il governatorato dell'Annunziata, ricoperto nel 1497 e poi, ancora, nel 1527.
Il ricordo del C. è però assicurato dalle sue qualità di letterato, messe in luce nel corpus non vasto dei suoi scritti. Il de Montera, come s'è accennato, ne ha procurato il riordinamento unendo ai testi editi quelli rinvenuti nel manoscritto Vindobonensis 9977, con i quali le composizioni poetiche assommano in totale a trentaquattro (solo due sono in volgare), di diverso genere; vi si devono aggiungere quattro lettere, di contenuto assolutamente contingente, tra le quali, sul piano documentario, solo un messaggio al Trissino (maggio 1518) in cui il C. si scusa per il mancato incontro tra il celebre intellettuale e Isabella d'Aragona. Il gruppo degli scritti editi, i soli datati, costituiscono un insieme provvisto di proprietà specifiche: a parte il Carmen de Hectore Fieramosca, in cui, più che altrove, si affermano procedimenti descrittivi fortemente retorici, si tratta infatti di una serie di prefazioni poetiche ad opere altrui di carattere variamente dottrinale (religioso, filosofico, morale o scientifico), con l'eccezione dell'Actio Syncero (1526), encomio d'accompagnamento al De partu Virginis del Sannazzaro. Si deduce da ciò il chiaro legame che unisce il C. a un tipo consueto di dibattito contemporaneo sfociante nel genere trattatistico, sotto la particolare prospettiva dell'interesse portato sui problemi del linguaggio: abituale frequentatore delle conversazioni filosofiche che si tenevano nei giardini di S. Giovanni a Carbonara, sotto la direzione del monaco agostiniano Egidio da Viterbo, egli, poeta, finì per diventare un polo autorevole della discussione per l'accento da lui posto sui problemi specifici del linguaggio filosofico, del quale egli denuncia lo stato di barbarie. Come la sua attenzione fosse rivolta in accordo col privilegio che la cultura dei circoli aragonesi riservava alla ricerca d'una norma di trasparenza espressiva a promuovere un superamento della tradizionale e involuta ineleganza propria dei trattatisti, soprattutto in vista di finalità divulgative, è confermato dal giudizio del Gothein che finisce per collocare un po' impropriamente il C. a rappresentante dell'unione tra "poesia e filosofia popolare". Le prefazioni toccano, quando vanno oltre la pura e generica lode, diversi temi, in conformità con le opere cui si riferiscono; d'argomento morale (per I. Lopes, Viridiarium virtutum, 1509), politico (A. Nipho, De vera vivendi libertate, 1512 e De rege et tyranno, 1516) o filosofico-scientifico (I. Lopes, Aureum formalitatum Speculum Scoti ac Francisci Mayronis doctrinam illustrans, 1505; G. Pontano, De Immanitate, 1512; A. Nipho, De caelo et mundo, 1517; Pietro da Feltre, Lectio,prima in metaphisica et questiones, 1526). Possiamo osservare il C. impegnato, soprattutto davanti ai testi del Lopes, non solo nella spiegazione della relativa "incultura" (vale "ineleganza") della scrittura, imputabile alla sottigliezza della materia, ma anche nella formulazione d'un suo tipico atteggiamento morale - di matrice oraziana - tendente a identificare, sulla base della virtù, la beatitudine celeste e quella terrena, secondo una prospettiva risolutamente antiascetica: chi coltiva appunto le virtù "colitur terris, caeloque potitur Ante obitum felix, postque beatus erit". E non manca il risvolto autobiografico nella elegia premessa al trattato del Nifo sulla libertà, ove l'istanza soggettiva ("liber ago in terris vitam, sine turbine rerum") si allarga nel disegno d'una galleria di intellettuali e mecenati, la cui menzione diventa una sorta di autoriconoscimento entro le proprie pacifiche relazioni, contrapposte intenzionalmente agli eventi bellici che fervono lontano.
La cifra più propriamente poetica del C. è comunque espressa nel gruppo di versi recentemente editi, meno condizionati da esigenze professionali, e tuttavia sorvegliati da una inflessibile poetica umanistica ("nihil unquam debemus in lucem edere, nisi prius inventionis amor refrixerit") che, oltre a mantenere una fedeltà pressoché assoluta al latino, ne riscopre i luoghi letterari canonici attingendo con abile lavoro d'intarsio a fonti che vanno da Ovidio a Catullo, da Properzio a Marziale, a Orazio. Che il verseggiare del C. si attenga costantemente ai modi d'una aristocrazia culturale, magari un po' angusta, è pure comprovato dagli unici suoi due testi in volgare: sia nel sonetto sulla fortuna avversa (compianto di Isabella d'Aragona, precoce vedova di Gian Galeazzo Sforza), sia nella prefazione alle rime volgari di G. F. Caracciolo - un tempo al C. erroneamente attribuite - si intrecciano infatti frequenti reminiscenze petrarchesche ("Fra gli altri mei pensier...") e dantesche ("A morte corre ogni creata cosa", "L'ombra, che non erra"). La tendenza a misurarsi e ad eccellere nell'uso d'una tecnica verbale che si direbbe preziosa si riscontra nella prevalenza netta del genere epigrammatico, spesso pertinentemente risolto con effetti consistenti in un tipico e sottile jeu nominalistico fondato su figure etimologiche, concettuali o erudite: se convivono formosità e pudicizia saranno Elena e Penelope a fondersi (II); a Paride toccò di giudicare tre dee, al poeta di vedere tre dee nella persona della principessa Isabella (IV); i nomi femminili (Perla, Phosphora, Victoria) sono temi per sviluppi virtuosistici (XIV, XXIII, XXIV); il suo stesso ("Carbonius malim quam Carbo dicier") l'occasione per giocare con le parole intorno al nucleo della sua etica pratica: la disponibilità all'accensione d'amore. Il cerchio di certe formule in sé gustose, ma di prevedibile respiro ("sparsas... nugas - haec mea musa est") sembra rompersi proprio allorché nei versi giunge un'eco della fruizione della voluptas: è l'inno esclamativo al "liquor Veneris" (XXIII), è l'ampia elegia Ad Auroram puellam (V), in cui la personificazione dell'amata con l'aurora giova ad esprimere l'apprensione dell'innamorato rispetto ad una costituzionale fuggevolezza di forma, mediante l'uso di accumulazioni e di simmetrie certo studiate, ma sintomatiche d'una fedeltà strenua delle virtù del linguaggio poetico, capace, in analogia alle indicazioni del Pontano, di creare vita e di vincere così il tempo ("Illa igitur vivet quam dilexere poete, / cuneos vincet illa vel illa dies"). Condizioni queste - confluenza di passionalità e di umanistica complicazione d'arte - perché il C. si iscrivesse solidamente quale figura emblematica di quel mondo descritto nei pontaniani Hendecasyllabi.
Il periodo conclusivo della vita del C., durante il quale cadono varie delle opere citate (per le quali è impossibile fissare una attendibile cronologia), si svolse nelle consuetudini d'una vecchiaia confortata dalla sollecita stima e dalla frequenza delle maggiori personalità del tempo, non interrotte per la conquista di Napoli (1512) operata da Ferdinando il Cattolico, re di Spagna. Si registrano anzi nuovi rapporti di cordialità col latinista Pietro Gravina e con la famiglia Colonna, cui dedica l'edizione delle rime del Caracciolo. Nel 1525 gli subentra il Sannazzaro nella direzione dell'Accademia; nel 1528, sullo sfondo delle guerre franco-spagnole, si verifica l'invasione francese a Napoli condotta dal generale Lautrec: è l'occasione per il C. e suo fratello Iacopo, mentre infuria la peste, di dimostrare l'estrema fedeltà alla dinastia spagnola. Essi preferirono morire anziché disertare. Il C. infatti perse la vita nel maggio del 1528 a Napoli.
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