BRUSONI, Girolamo
Assai controverse sono le notizie intorno alla famiglia, alla nascita e ai primi anni del Brusoni. La versione più probabile lo dice nato nel 1614 a Badia Vengadizza, nel Polesine, da Francesco e da Lucrezia Matteucci. Ricevette la prima educazione a Badia. trasferendosi poi con la famiglia intorno al 1621 a Ferrara. Qui avrebbe iniziato lo studio delle lettere umane, del diritto, della filosofia e della teologia, addottorandosi poi a Padova. Tuttavia alcuni passi delle sue opere sembrano suggerire che egli non avesse ricevuto alcuna educazione regolare. Certo è che dimostrò una precoce vocazione letteraria: quindicenne scrisse le sue prime opere, due novelle di mediocre imitazione ellenistica, Lo scherzo di fortuna e L'ambizione calpestata, che furono pubblicate a Venezia nel 1641.
Intorno al 1633 il B. fu costretto da una sfortunata relazione amorosa ad abbandonare Ferrara e la propria famiglia per trasferirsi in Toscana, dove soggiornò per alcuni anni, specialmente a Firenze. Qui scrisse i Ragguagli diParnaso, anche essi pubblicati a Venezia nel 1641, omaggio letterariamente privo di interesse alla moda dell'imitazione boccaliniana, importante tuttavia per cogliere sul nascere un atteggiamento intellettuale e morale che inserirà poi il B., come uno dei più caratteristici anche se dei più cauti esponenti, nel movimento libertino del tempo. La polemica contro le proibizioni dei libri, contro il moralismo dei pedanti, contro la tirannide dei principi, contro il dominio spagnolo (e quindi le simpatie politiche per Odoardo Farnese, per Venezia e per i Francesi) esprime chiaramente un atteggiamento di rivolta contro la opprimente atmosfera controriformistica che apparenta sin d'ora il B. ai maggiori personaggi del libertinismo italiano di quei decenni, specialmente a quello che ne sarà presto l'infelice simbolo, Ferrante Pallavicino.
Non si conosce la data del ritorno del B. a Ferrara, dove, mortogli il padre, prese possesso insieme con alcune sorelle di un notevole patrimonio, assai presto dissipato però dalle improvvide iniziative di un congiunto. Fu forse questo fatto a spingerlo ad entrare nell'Ordine dei certosini, assumendo il nome di Cherubino: secondo qualche fonte contemporanea, tuttavia, il B. avrebbe vestito la tonaca ancora vivente il padre. Da Ferrara fu trasferito assai presto a Padova, probabilmente per completare lì gli studi teologici. Ma la vita monastica non doveva essere troppo congeniale al temperamento del B. ed il richiamo della vicina Venezia, col suo fervore letterario e la sua più libera atmosfera intellettuale e morale, lo indusse presto ad abbandonare la certosa padovana, in una data che non è possibile precisare, ma che non dovrebbe essere comunque posteriore al 1639. Venezia accolse subito il B. nei suoi circoli letterari, dove eleganza e licenza, indifferentismo religioso e vacuità accademica, tradizione sarpiana e cremoniniana sembravano proporre una alternativa ai rigori postridentini. Subito il B. si legò in amicizia col Pallavicino, anche lui giovanissimo, anche lui scampato al chiostro, letterato già famoso, simpatizzante come il B. per la Francia in odio alla Spagna, disposto ad ogni avventura, intellettuale od erotica che fosse. Questa amicizia gli fece aprire le porte della maggiore accademia veneziana del tempo, quella degli Incogniti, nella quale prese il nome di Aggirato, ma certo gli giovò non poco ad essere accolto con onore in quella adunanza il successo del suo romanzo La fuggitiva, pubblicato a Venezia nel 1639 sotto il nome conventuale di Cherubino Brusoni.
È difficile al lettore odierno individuare i meriti intrinseci che guadagnarono alla bolsa prosa di quest'opera tanto successo: se ne ebbero in un quarantennio, oltre a quella del 1639, sei ristampe, due a Venezia nel 1640, una a Padova nel 1652, una ancora a Venezia nel 1662, una quinta a Bologna nel 1671 e l'ultima, pure a Venezia, nel 1678. È probabile che tale fortuna dipendesse dal fatto che l'autore aveva trasparentemente adombrato le squallide e tragiche vicende di alcuni personaggi assai noti del tempo: la protagonista fu infatti identificata con Pellegrina Bonaventuri, figlia di Bianca Capello, amante e poi moglie del granduca di Toscana Francesco I. Comunque il successo accredita sin d'ora al B. una notevole capacità di individuare i gusti di un larghissimo pubblico e di compiacerli senza riserve; cosa, questa, che caratterizza tutta la sua successiva produzione, non soltanto narrativa.
L'Accademia degli Incogniti offriva il miglior terreno possibile alle ambizioni ed alle esigenze del Brusoni. In essa si raccoglieva il fiore della società letteraria veneziana, intorno al patrizio Giovan Francesco Loredan, letterato fecondissimo e mecenate generoso: ne facevano parte il Pallavicino, Pietro Michiel, Maiolino Bisaccioni, Galeazzo Gualdo Priorato, Luigi Manzini e quanti altri si distinguessero in quel tempo nelle lettere a Venezia; e non vi mancava, l'adesione, peraltro più formale e decorativa che sostanziale, di prestigiosi personaggi come il Marino, l'Achillini, il Davila, il Chiabrera, il Tassoni. In superficie l'attività dell'Accademia non presenta sostanziali differenze rispetto a quella degli infiniti istituti contemporanei dello stesso genere, limitandosi nell'ambito di un elegante divertimento letterario. E al momento la produzione del B., largamente connessa con la vita dell'Accademia, non smentisce questa fisionomia esoterica di gioco brillante e vacuo. I suoi interventi nelle adunanze furono raccolti in un volume pubblicato a Venezia nel 1641, Gli aborti dell'occasione, che contiene anche due mediocri novelle, Gli amori tragici e Gli inganni della chitarra. Quasi tutti del B. sono inoltre gli elogi degli accademici, poi raccolti nel volume anonimo pubblicato a Venezia nel 1647 col titolo Glorie degli Incogniti, anche se, contro alcuni autori che gli attribuiscono quest'opera per intero, è sicuro che alle Glorie collaborò, se non altri, il Loredan.
Allo stesso gusto accademico appartengono due operette scritte dal B. in questo periodo, la raccolta di Lettere amorose, pubblicata a Venezia nel 1642, e I complimenti amorosi, dieci dialoghi sui più disparati argomenti, prive, l'una e l'altra, di qualsiasi interesse, traboccanti di lambiccatissimi bisticci, di elaborati complimenti, di citazioni classiche a proposito e a sproposito. Nel 1641 pubblicò anche le tre operette scritte prima dell'arrivo a Venezia: Lo scherzo di fortuna,L'ambizione calpestata e i Ragguagli di Parnaso;scrisse la favola musicale Antigenide, raccolse in uno Zibaldone in sei libri, poi smarrito, più di centocinquanta discorsi e lettere sui più diversi argomenti. Ma soprattutto, sulla spinta del successo della Fuggitiva, si rivolse al romanzo: nel giro di due anni, tra il 1640 ed il 1642, scrisse Le turbolenze delle vestali,L'amante maltrattato,Il principe Deredato,La giustizia oltraggiata. Degli ultimi che, affidati dal B. all'editore Galuffi, andarono smarriti, non rimangono che pochi e poco significativi brani e sunti nel secondo e nel terzo libro della posteriore raccolta delle Curiosissime novelle amorose. Le turbolenze delle vestali furono invece pubblicate più tardi, pare nel 1658, col titolo Degli amori tragici.
È questa un'opera assai interessante poiché lascia intravedere, al di là della brillante e vacua superficie delle esercitazioni accademiche delle altre opere brusoniane di questi anni, l'esistenza di più intrinseci rapporti del B. con i libertini dell'Accademia degli Incogniti. Vi si narrano le avventure erotiche di alcune vestali con un gruppo di giovani romani, in un quadro desolante e orripilante di lascivie e di delitti. Il B. riferisce la sua storia al tempo in cui Roma, "perduta la gloria della Libertà, gemeva sotto la Tirannia de' Cesari" e la decadenza investiva non soltanto le cose profane ma anche le divine, "in guisa che non rimase più in Roma altro di Roma che il nome". Trionfante nella generale corruzione su tutti gli altri vizi "quello della Lascivia, cresciuto in breve a segno tale che lo stesso tempio di Vesta, sacrario di religione e di castità, ne rimase irrimediabilmente percosso e macchiato". La matassa di turpitudini e di misfatti atroci dipanata con gusto meticoloso dell'orrido e del sensuale era già di per sé sufficiente per attirare l'interesse dei lettori contemporanei, e non soltanto il loro. Il romanzo ebbe infatti una singolare fortuna, circolando a lungo manoscritto - certo la cosa non era casuale - in Italia e "di là dai monti", come affermava lo stesso B.; quando passò finalmente alle stampe moltiplicò naturalmente i suoi lettori. Ma tale fortuna si spiega soprattutto con il carattere scopertamente allusivo del romanzo: troppo facile era ritrovare in quella "istoria dell'antica Gentilità" gli echi di infiniti episodi di corruzione conventuale che erano nell'esperienza di tutti nell'Italia cattolica del sec. XVII. Al punto che, probabilmente al di là delle intenzioni dell'autore, l'opera venne letta come un romanzo a chiave; nei suoi episodi e nei suoi personaggi si videro adombrati personaggi ed episodi reali, che del resto si ripetevano squallidamente uguali un po' ovunque, in quello scorcio di secolo in cui la vita religiosa, quanto più appariva austera e rigorosa, tanto più celava e potenziava le selvagge esplosioni della sessualità repressa. Un caso di identificazione dei fatti narrati dal B. con una situazione reale, quella del monastero di S. Arcangelo a Baiano, presso Napoli, è riferito dal Croce, il quale dà anche notizia di vari rifacimenti settecenteschi e ottocenteschi del romanzo.
Qui interessa piuttosto rilevare come il romanzo esprima, in modo grossolano, ma non per questo meno significativo, tutto un atteggiamento ideologico caratteristico del maggior gruppo del libertinismo veneto, quello che faceva appunto capo all'Accademia degli Incogniti. Dietro la elegante e stucchevole facciata di una attività letteraria senza originalità, senza vigore, senza esponenti di particolare rilievo artistico, si individuano nel gruppo costituito dal Loredan caratteri peculiari che ne fanno uno dei momenti più significativi della rivolta contro il conformismo controriformista. Una tradizione di indifferentismo morale e religioso, ultimamente alimentata nell'aristocrazia veneta dal trentennale insegnamento naturalistico di Cesare Cremonini, è il vero sostrato ideologico dell'attività degli accademici Incogniti, o almeno del gruppo più omogeneo e significativo tra essi, formato, con altri, dal Loredan, dal B., dal Pallavicino, da Antonio Rocco, da Francesco Poma, da Angelico Aprosio. L'immoralismo che ciascuno di essi esprime in sede letteraria corrisponde, è vero, ad una pratica sfrenatamente licenziosa, ma non può essere completamente spiegato con una chiave individuale e psicologica, giacché questo stesso affondare ed esaurirsi in una vita turpe è l'espressione di una totale sfiducia nei valori etici e religiosi tradizionali, la replica anarchica ad una disciplina insopportabile perché ormai svuotata di ogni giustificazione ideale. Più o meno grossolanamente mediati in sede pratica ed in sede letteraria, i due motivi ideologici fondamentali del libertinismo, l'esaltazione degli istinti naturali contro la morale cristiana e la interpretazione politica delle religioni, ispirano egualmente l'opera del Pallavicino, del Rocco, del Loredan, del Brusoni. Con caratteri individuali, però, singolarmente distinti, a seconda del temperamento di ciascuno: dal tragico nichilismo di Ferrante Pallavicino sino alla velata polemica irreligiosa ed immoralistica che prelude ad un opportunistico ritorno su posizioni di conformismo ipocrita del Brusoni.
A definire la posizione personale di quest'ultimo va certamente tenuta nel maggior conto la forma specifica che assume la sua polemica libertina: per il fatto stesso che essa era affidata al genere del romanzo tendeva a trasferirsi dall'ambito semiclandestino delle dispute accademiche a quello di un pubblico più largo e per ciò stesso rinunziava alle punte più aspre, trovava nella critica di costume la sua nuova e meno impegnativa dimensione. Ma si avrebbe torto a ridurre il mascheramento romanzesco dell'atteggiamento libertino operato dal B. ad un espediente per sfuggire alle censure delle autorità ecclesiastiche e politiche, anche se il lungo rinvio della pubblicazione delle Turbolenze delle vestali, la loro larga circolazione in manoscritti, il successivo cambiamento di titolo hanno pure un loro significato. In realtà nulla interessava meno il B. di una affermazione pubblica della esigenza di rinnovamento morale e sociale e certamente non ha questo significato la sua produzione narrativa; né egli condivideva la totale identificazione personale dell'amico Pallavicino con l'esperienza libertina. Nel B. questa fu essenzialmente un'avventura letteraria, un modo di stabilire un contatto nuovo con un pubblico nel quale i motivi della polemica irreligiosa ed immoralistica erano già largamente diffusi, di liberarsi anche, o di cominciare a farlo, dei moduli del Barocco, dei quali, almeno in sede di narrativa, fu tra i primi ad avvertire il definitivo esaurimento. In questo senso si può probabilmente riferire all'esperienza libertina l'origine del nuovo romanzo brusoniano - il romanzo, appunto, di costume, contrapposto al romanzo eroico-galante della tradizione - che generalmente gli studiosi collocano in un più tardo periodo. In ogni modo la polemica anticattolica ed anticuriale, la valutazione politica della religione, l'irrisione alla "dura impresa di voler legare quei sensi che la Natura ha creati liberi" risultano con sufficiente evidenza nel romanzo, sia pure attraverso lo schermo della raffigurazione storica, per poter avanzare dubbi sulla sua ispirazione ideologica.
Piuttosto converrà rilevare come quest'opera nascesse sul terreno delle discussioni vivissime in quel tempo a Venezia, ed alle quali il B. partecipò direttamente, sulle monacazioni forzate. Esse si alimentavano particolarmente in quegli anni dei vivaci interventi polemici della monaca Arcangela Tarabotti, che il B. sostenne in più occasioni, guadagnandosi alla fine l'inimicizia, dell'Aprosio, che gli procurò non poche noie. La partecipazione del B. a queste controversie che destavano notevole scalpore a Venezia, il carattere, assai poco conciliabile con l'abito religioso che indossava, sia della sua vita mondana sia della sua attività letteraria, la sua amicizia con il Loredan e gli altri Incogniti, contro gli atteggiamenti dei quali le autorità ecclesiastiche moltiplicavano invano le proteste presso la Repubblica e le lamentele a Roma, provocarono alla fine contro di lui l'intervento del nunzio Francesco Vitelli, il quale, alla fine del 1642 o al principio dell'anno successivo, impose al B. di ritornare alla certosa di Padova. Ma pochi mesi dopo il B. abbandonava nuovamente il convento. Questa volta il nunzio calcò la mano, ottenendo l'intervento del braccio secolare; al principio del 1644 il B. fu arrestato a Padova e tradotto a Venezia, in un "camerotto" della prigione Giustiniana. Non pare che la disgrazia lo affliggesse troppo, almeno a giudicare dalle numerose lettere scritte dal carcere alle amiche e agli amici veneziani, ai quali narrava scanzonatamente le proprie esperienze di recluso; le quali, ovviamente, furono in larga misura anche esperienze letterarie, giacché nei sei mesi che durò la prigionia scrisse varie rime in lingua italiana, una canzonetta in dialetto veneziano, alcune novelle licenziose (L'amante schernito,Il servo fortunato,La sposa malcontenta,L'amante obbediente), un "trascorso" di imitazione bernesca, L'eccellenza della corna, e un panegirico alla Repubblica veneta, forse il più enfatico e barocco componimento suo, Le glorie marittime. Probabilmente fu la dedica al doge di questo panegirico o la protezione di qualche autorevole patrizio veneto, che ad un accademico Incognito non poteva mancare, a restituire al B. la libertà: si sa di certo, in ogni caso, che intervennero in suo favore Giovan Battista e Carlo Contarini. Mala liberazione non dovette essere senza condizioni: prima fra tutte, naturalmente, quella di ritornare in convento.
Dopo aver raccolto in un volume, dal titolo IlCamerotto, Venezia 1645, gli scritti del carcere (le quattro novelle vennero poi ristampate nelle Novelle amorose; Il servo fortunato e L'amante obbediente anche nella Scielta di novelle di diversi autori, Bologna 1637), il B. entrò nuovamente nella certosa del Bosco di Montello, questa volta per rimanervi assai più a lungo che nelle occasioni precedenti. Da quanto lo stesso B. riferisce in un luogo della sua Historia d'Italia (Venezia 1676, IV, p. 137) nel 1644 ebbe qualche parte, insieme con Aurelio Boccalini, figlio di Traiano, nelle trattative tra il duca di Parma Odoardo Farnese e l'ambasciatore spagnolo a Venezia per una revisione degli accordi del 1635. Purtroppo non è dato sapere di più su questo episodio e sulle ragioni che procurarono al B. l'incarico. Da allora per circa sei o sette anni dal ritorno nella certosa di Montello non si hanno più notizie sul Brusoni. Anche la sua instancabile penna non dà segno di sé. E quando, nel 1651, uscirà nuovamente e definitivamente dal convento, questa volta con l'autorizzazione delle autorità ecclesiastiche, la sua vita e la sua attività letteraria prenderanno un'impronta assai diversa da quella degli anni giovanili, sembreranno anzi tendere concordemente a dimenticare, e a far dimenticare, i propri trascorsi libertini, limitando l'irregolarità e la turbolenza inseparabili dalla sua personalità ai margini tollerabili nel clima dell'ufficialità controriformista.
A voler rendersi ragione di questo cambiamento del B. non si può non tener conto del terribile effetto che deve aver avuto su di lui, appena scampato al carcere, la notizia della tragica sorte del Pallavicino, l'amico più caro, il compagno dei bagordi e delle letterarie intemperanze, massacrato dalla tortura e poi decapitato nel marzo del 1644, appena ventottenne, dalle autorità ecclesiastiche che lo avevano attirato ad Avignone. Fu certo questa una esemplare lezione per il B. e non pare che si debba cercare altra spiegazione al suo prolungato silenzio, al modo stesso in cui rientrò in convento, vi rimase tanto a lungo e poi ne riuscì, al nuovo assetto che diede alla sua vita accasandosi, appena ottenuta la dispensa dai suoi obblighi religiosi, con una donna dalla quale ebbe quattro figli, legame illegittimo, certo, ma tranquillo e definitivo.
E del resto non è senza significato che le prime opere con cui segnò il suo ritorno alle lettere proponessero ambedue un'interpretazione alquanto interessata della personalità di Ferrante e dei rapporti del B. con l'amico. La Vita di Ferrante Pallavicino, pubblicata a Venezia nel 1651 (poi ristampata nella edizione delle Opere del Pallavicino, Venezia 1655), ed I sogni di Parnaso, s.n.t. ma probabilmente pubblicata a Venezia a non molta distanza dalla precedente, vogliono sì testimoniare il perdurante affetto del B. per la memoria dell'amico tragicamente scomparso, ma sono al contempo un tentativo di giustificarlo e, di riflesso, giustificare se stesso e gli Incogniti delle accuse più gravi, giungendo a negare che spettasse al Pallavicino l'opera che, sebbene anonima, gli aveva guadagnato maggiore notorietà, il feroce libello anticattolico Il divorzio celeste. Là dove non era verosimilmente possibile scagionare completamente l'amico, il B. si affretta a ricordare come egli a suo tempo si fosse affannato a sconsigliare Ferrante dal provocare le reazioni dei Potenti, e raggiunge poi nei Sogni di Parnaso il massimo della sfrontatezza quando inveisce contro i libertini, i quali si fanno "conoscere seguaci di quei pazzi ateisti, che sogliono vanamente gloriarsi di una felicissima vita, perché se la passano senza rimorso alcuno di coscienza e di religione".
Così rinnegati i propri trascorsi libertini, reso tutto l'ossequio possibile alla Chiesa ed ai "potenti", il B. è pronto a scendere nuovamente nella lizza letteraria. Naturalmente il suo temperamento di irregolare non gli permette di rinunciare completamente ad attaccare le istituzioni: solo cambia di bersaglio e sceglie, fatto accorto dall'esperienza, avversari meno pericolosi, con i quali sia possibile misurarsi in piena parità, con le armi proprie del letterato, senza dover temere ad ogni più acre proposizione la mannaia del boia. Ma entro questi circospetti limiti la sua polemica è senza riserve. Proprio I sogni di Parnaso sono il manifesto della lotta ad oltranza del B. contro i più indiscussi valori letterari del suo tempo e forse non è azzardato ritenere che egli intendesse liquidare d'un colpo solo tutta l'eredità degli Incogniti, ivi compreso l'accademismo barocco. Una volta tanto però gli attacchi del B. colgono il segno e, quel che più conta, avviano un processo di rinnovamento nell'arte di lui che non è senza qualche positiva influenza sullo svolgimento della narrativa italiana del tempo, contribuendo in notevole misura a distoglierla dal mondo fittizio dei romanzi eroico-galanti di un Giovanni Ambrosio Marini (e degli stessi romanzi e novelle brusoniani della prima maniera), individuando meno effimere occasioni d'ispirazione nel costume contemporaneo. Era questa, in una certa misura, anche la ricerca di un pubblico nuovo, che poneva non solo il problema del rinnovamento dei contenuti, ma anche, e forse preliminarmente, quello di più diretti, meno artificiosi moduli stilistici, come il B. proponeva in polemica soprattutto con il "millantatore e parabolano" G. B. Marino. Questa dichiarazione di guerra al Barocco, che gli sollevò contro gli irosi attacchi del mondo letterario del tempo, il B. tradusse subito nella ricerca stilistica del romanzo L'Orestilla (Venezia 1652).
Più che un romanzo è questa una raccolta di novelle, legate dall'esile filo degli amori ateniesi di Filiterno e Orestilla, una faticosissima narrazione, contorta e prolissa, in definitiva ancora legata ai moduli narrativi tradizionali. Ma nello stile senza ricercatezza e senza rigonfiature il B. tiene fede al programma dell'"avviso al lettore", nel quale si era detto fiducioso o che anche senza rattoppar zibaldoni delle altrui fatiche, senza parlare come i Demoni dal tripode per Oracolo, e senza sputar sentenze per la ciarbottana all'uso dei Re dell'India, e senza andar a caccia di bisticci ed equivochi per parlare da spiritato, si possa, con la carriera di una schiettissima naturalezza, toccar nel bianco del tuo gusto".
Dopo L'Orestilla il B. scrisse alcuni romanzi che pare non fossero mai pubblicati. La Ginevra,L'istoria macedonica,Il Filiterno,L'infanta regina. Nel 1654 pubblicò a Venezia L'amante maltrattato (ristampato, ancora a Venezia, nel 1676), un rifacimento di quello perduto dal Galuffi, il quale è sostanzialmente una conferma dei modi dell'Orestilla. Ma un vero sviluppo verso il nuovo romanzo brusoniano si ha con La Filismena, pubblicatoa Venezia nel 1657:comincia a definirsi in quest'opera, infatti, l'interesse dell'autore per il costume contemporaneo di cui si era già avuta una chiara anticipazione nelle Turbolenze delle vestali.
Anche nella Filismena l'osservazione di costume prende forma di favola storica. Nella figura del protagonista, il principe Ferdinando di Cordova, il B. comincia a delineare il personaggio che sarà poi il suo più riuscito, l'instancabile amatore, il viaggiatore curioso Glisomiro dei suoi maggiori romanzi. La collocazione storica impone al B. il solito stanchissimo repertorio di agnizioni, duelli, rapimenti, per cui LaFilismena non può essere considerato più che un punto di passaggio tra vecchia e nuova maniera narrativa brusoniana, ma la maggiore cura della verosimiglianza, i trasparenti riferimenti alla società contemporanea, l'adeguamento sul piano stilistico ai nuovi propositi del B. indicano chiaramente che la maturazione del nuovo romanzo è pressocché compiuta.
Dello stesso anno della Filismena è infatti il primo romanzo della trilogia di Glisomiro, La gondola a treremi, dell'anno successivo Il carrozzino alla moda (ambedue ristampati, rispettivamente nel 1662 e nel 1667, sempre a Venezia, come le precedenti edizioni; furono posti ambedue all'Indice con decreti del S. Uffizio rispettivamente del 20nov. 1663 e del 3 apr. 1669). La trilogia fu completata poi da La peotasmarrita, pubblicata a Venezia nel 1662.
La vera protagonista di questo ciclo di romanzi del B. è ora esplicitamente la società veneta del suo tempo, una società in cui è già operante la cancrena inarrestabile della decadenza, oziosa, dissoluta, priva di ideali. Nel B. non c'è il minimo proposito di critica o di ironia: egli non pensa che a compiacere i propri lettori, a proporre loro vicende e personaggi in cui possano agevolmente riconoscersi, dando un senso vagamente estetizzante ad un'esistenza che non ha più senso. Ma proprio per questa sua imperturbabilità di descrittore, per questo suo guardare dall'interno senza intenti censori alla vita del suo tempo, i suoi romanzi sono un raro ed insostituibile documento. Nel personaggio principale si rispecchiano tutti i vani ideali, tutte le impotenti e frivole ambizioni di una aristocrazia ormai svuotata d'ogni funzione vitale; egli è quale, nonché il B., ogni signore veneziano avrebbe voluto essere: bellissimo e fortunato amatore, disinvolto ingannatore di mariti e sopraffattore di rivali, guerriero, ma nell'adolescenza e solo per avere avventure da narrare, affascinante e compito conversatore, conoscitore raffinato delle lettere e all'occasione poeta. Le vacue vicende di Glisomiro e dei suoi compagni si dipanano sulla laguna, nell'entroterra, nelle ville del Brenta, il paesaggio dove l'aristocrazia senatoria dissipa le sue inutili giornate. Solo nei racconti che frequentemente spezzano e coloriscono la quasi immobile vicenda principale si ha l'eco - attutita dal ricordo a non turbare la stagnante tranquillità del presente - delle gesta sanguinose che sconvolgevano l'Europa in quegli anni. In questo quadro, come in un dilatato balletto, l'infaticabile Glisomiro passa da un'avventura amorosa all'altra. Ma è un pallido don Giovanni, senza la sanguigna furia amatoria del capostipite sivigliano, maestro alle sue amanti più di compitezza che di voluttà.
La noia è il colore dominante di questo vasto affresco brusoniano, una noia amorosamente coltivata in una atmosfera stagnante, nella quale nessuna esperienza, né la tresca amorosa, né l'amicizia e l'inimicizia, né la disputa erudita, né l'osservanza e l'inosservanza religiosa comportano mai un autentico impegno; tutto si sfuma in una totale indifferenza, nella ricerca esclusiva di una stanca e squallida eleganza. Remotissime sembrano, e non sono passati che pochi lustri, la tragedia del Pallavicino, la polemica irreligiosa e anarchica dei libertini, la deboscia degli anni giovanili, e appaiono al confronto come un indizio di vitalità. L'ultimo residuo della tradizione libertina si esprime forse in questi romanzi nell'ammirazione per Gustavo Adolfo, che è un motivo ritornante anche nelle opere storiche del Brusoni. Così come suggeriva la stessa propaganda svedese, il principe scandinavo, nella sua esclusiva dedizione all'interesse politico, sembra divenire il simbolo di una nuova dimensione umana e sociale, liberata dalla faziosa intransigenza delle lotte religiose. Ma se c'è un'aspirazione alla tolleranza in questa valutazione burocratica (del resto abbastanza diffusa tra i contemporanei) della personalità del re scandinavo, essa non esprime più che una generica stanchezza verso le interminabili contese religiose, che non riesce però mai a definirsi come un'ideologia, a divenire un criterio di giudizio, un'ispirazione vitale.
La pubblicazione della Peota smarrita segna sostanzialmente la rinunzia del B. alla narrativa: le numerose operette da lui pubblicate contemporaneamente alla trilogia o negli anni seguenti sono di scarsa importanza, spesso non più che adattamenti, traduzioni o compilazioni di opere altrui o riproposte di vecchie cose dello stesso B.: così i romanzi La Berenice, Venezia 1655, e Il cavalier della notte, Venetia 1674 (e poi Bologna 1679, Venezia 1682), tradotti da originali rispettivamente francese e spagnolo; Le curiosissime novelle amorose, Venezia 1655 e 1663, e infine la Nuova scelta di sentenze,motti,e burle d'uomini illustri, pubblicata a Venezia nel 1658 ed ivi ristampata nel 1666 e due volte nel 1678, una raccolta derivata dai classici greci e latini, priva di qualsiasi ambizione letteraria. A queste opere di narrativa bisogna aggiungere alcune opere teatrali: la favola eroicomica Ardemia, la favola musicale Antigenide e la rappresentazione spirituale S.Giovanni,vescovo di Traù, più volte rappresentata, quest'ultima, al tempo del B. e pubblicata a Venezia nel 1656; tutte furono poi raccolte, insieme con varie poesie, nel volume Poesie e Drami, s.n.t. Non vanno dimenticati infine un volume di Trascorsi Accademici, Venezia s.d., e L'Elucidario poetico, repertorio storico, geografico e mitologico ad uso dei letterati, rifatto sull'opera analoga di Ermanno Torrentino e pubblicato una prima volta, a quanto pare, nel 1664 con numerosissime ristampe fino al sec. XVIII.
Ma il B. non si limitò a questa intensissima attività letteraria: da molto tempo, forse sin dalla sua uscita definitiva dal convento, egli si era dedicato a quella, probabilmente assai meglio retribuita, di gazzettiere politico che fu senza dubbio alla base della sua non meno intensa produzione storiografica. Su questa attività non si hanno molte notizie; le fonti la ammettono concordemente, ma non ne fissano con sicurezza gli inizi; pare comunque improbabile l'affermazione del padre Arcangelo da Salto, il quale, scrivendo al ministro sabaudo marchese di San Tommaso il 1º febbr. 1676, asseriva che "il mestiere del Brusoni da quaranta anni indietro era stato di tenere corrispondenze e comporre storie ed altri libri" (Claretta, p. 554), facendo così risalire gli inizi di questa attività del B. addirittura al suo primo arrivo a Venezia. Di sicuro si sa che il letterato badiese fu a lungo al servizio dell'ambasciata di Spagna a Venezia, il che non esclude, naturalmente, qualche altro padrone. Si sa pure che tale attività dovette suscitare non pochi risentimenti e si ha notizia di un'aggressione contro il, B., che ricevette "qualche ferita", organizzata dall'agente a Venezia del duca di Baviera, Baldassarre Bartoli, per punirlo di un libello infamante contro quel signore. Ma molto di più sull'argomento non è possibile sapere, anche perché sono andati perduti vari volumi di Lettere politiche e di Consulti,relazioni,trascorsi e frammenti politici che avrebbero potuto illuminare questa attività del Brusoni.
Solo rimangono in un codice miscellaneo del Civico Museo Correr di Venezia, Cicogna 2759, ms. 2857, alcuni scritti studiati dal Luzzatto che furono sicuramente frutto dell'attività di gazzettiere del B.: una lettera ad un ignoto personaggio sullo Stato dei principi d'Europa,e loro interessi e fini,l'anno 1665 e un Discorso politico sopralo Stato d'Italia e dei suoi principi,ed Arcani di Stato coi quali si governano, in cui il B. raccoglie le più varie notizie sulla situazione economica, politica e militare rispettivamente dei maggiori Stati europei e di quelli italiani. Caratterizza questi scritti un tono sensibilmente più libero nel giudizio che non quello delle opere storiche, specialmente nella valutazione della situazione della Spagna e dei suoi domini italiani, dei quali si mette in evidenza la condizione di sfacelo sociale e politico.
A fianco di questa attività di gazzettiere e probabilmente, come si è detto, sollecitata da essa, si sviluppa la produzione storiografica del B., che inizia nel 1656 con una Storia delle guerre d'Italia dal 1635 al 1655, pubblicata a Venezia dal Turrini in una collana di opere storiche affidata, oltre che al B., anche allo Ziliolo, al Birago ed al Bisaccioni. Quest'opera con successivi ampliamenti venne ristampata a Venezia nel 1657, nel 1661, col titolo definitivo Historia d'Italia, nel 1671 (nel 1664 era uscito, con l'improbabile data di Francoforte, un Supplemento all'Historia d'Italia), nel 1676 e finalmente a Torino nel 1680.
In essa, che è l'opera storiografica principale del B. sono narrati (nell'edizione definitiva) gli avvenimenti politici italiani dal 1627 al 1680, dall'inizio, cioè, della contesa per la successione di Mantova e del Monferrato. Il B. narra diligentemente e dettagliatamente le guerre interminabili, le congiure e le rivolte di quel travagliatissimo mezzo secolo di storia italiana, dalla contesa generale a favore o contro il Nevers alla congiura genovese del Vachero, dagli episodi italiani della guerra dei Trenta anni alla guerra di Castro, dalle insurrezioni di Napoli e di Palermo all'assedio di Messina ed alla guerra di Candia. Nuoce in generale all'opera la struttura annalistica, che spezza e disorienta spesso la narrazione, ma essa presenta ancora qualche interesse perché fondata in gran parte (tranne che per il periodo 1627-1634, per il quale il B. dipende interamente dalle precedenti storie dello Ziliolo e del Fossati) sulla diretta esperienza che il B. ebbe degli avvenimenti, tanto più cospicua per i compiti di gazzettiere che lo obbligavano ad una continua e dettagliata informazione. Non manca nell'opera - in cui i giudizi si adeguano in genere a una piatta ufficialità - qualche notevole sforzo di vaglio delle fonti che dimostra l'intelligenza critica del B., ma la preponderanza assoluta attribuita alle vicende militari costituisce ora il limite decisivo a una lettura e utilizzazione di questa monumentale Historia che nell'ultima edizione raggiunse le millecento pagine in folio, divise in quarantasei libri.
Dalla preparazione della terza edizione del 1671 la storia interna dell'opera coincide in gran parte con quella dei rapporti tra il B. e la corte di Torino. Attraverso vari agenti, il marchese di Pianezza, il conte Bigliore, l'agente Vincenzo Dini, il minore osservante Arcangelo da Salto, il governo sabaudo intervenne a più riprese sul B. perché modificasse la non gradita versione di taluni avvenimenti che avevano avuto per protagonisti la reggente Cristina di Francia e Carlo Emanuele II. Il B. seppe abilmente mercanteggiare e il governo di Torino, dopo aver invano provato ad impedire la ristampa dell'opera con pressioni sugli editori veneziani, si decise infine a comperare i servigi del B., con una patente di 500 ducatoni e la nomina a consigliere e storiografo di corte. Il B. si trasferiva così a Torino nel 1676 e lì curava la definitiva edizione dell'opera secondo i desideri dei suoi nuovi padroni.
Prima del suo trasferimento alla corte di Savoia il B. aveva accompagnato le successive elaborazioni della Historia d'Italia con la pubblicazione di varie altre opere storiografiche. Smarrita una Historia trivigiana, vanno ricordate le Istorie universali d'Europa, pubblicate in due volumi a Venezia nel 1657 e ristampate a Francoforte (forse Venezia) nel 1663.
La narrazione, che comincia anche qui dal 1627, si estende sino al 1656, soffermandosi particolarmente sulle guerre di religione in Germania e poi sulle guerre civili di Francia e d'Inghilterra, rivolgendosi poi alla guerra di Candia che è un tema particolarmente caro al Brusoni. L'opera non aggiunge molto a quanto scrissero sulle vicende europee di quegli anni altri numerosi storici italiani come il Ricci, il Bisaccioni ed il Gualdo, ma rispetto alla Historia d'Italia si avvantaggia di una minore frammentarietà per l'uso più elastico del criterio annalistico e di un'attenzione più approfondita per i protagonisti delle vicende, primo fra tutti Gustavo Adolfo, al quale, come nei romanzi, tributa tutta la sua ammirazione, pur con molte cautele di ortodossia cattolica.
Pare che il B. avesse preparato nel 1668 un terzo volume delle Istorie che però non fu pubblicato. Da alcuni documenti risulta anche che tornò a lavorare a questo argomento durante il soggiorno torinese, ma senza un visibile risultato. Non più che un estratto delle due opere precedenti è la Historia dell'ultima guerra tra Veneziani e Turchi,nella quale si contengono i successi delle passate guerre nei regni di Candia e Dalmazia,dall'anno 1644fino al 1671, pubblicata a Venezia nel 1673 e ristampata a Bologna tre anni dopo, con una maggiore utilizzazione, però, di documenti di prima mano. Forse in vista della continuazione delle Istorie universali il B. raccolse e pubblicò a Venezia nel 1665 numerosi documenti sulle Campagne dell'Ungheria degli anni 1663e 1664, opera di pura compilazione. Lo stesso carattere hanno le Varie osservazioni sopra le relazioni universali di G. Botero, pubblicate per la prima volta a Venezia nel 1659 e poi più volte ristampate: esse intendono integrare le notizie storiche e geografiche del Botero con le conoscenze acquisite nell'ultimo sessantennio, specialmente giovandosi delle notizie di vari viaggiatori e missionari sulla Polonia, la Russia, le Indie, la Cina, la Persia, la Terra del Fuoco e il Cile.
Ancora carattere di compilazione hanno i Concetti politici e morali, pubblicati a Cesena nel 1661, semplice raccolta e illustrazione di precetti di vari scrittori, da Tacito a Machiavelli a Guicciardini sino ad alcuni contemporanei. Vari aneddoti di storia contemporanea, oltre a divagazioni erudite, scientifiche e morali, contiene la Nuova terza Selva,aggiunta alla Selva di varia lettione di Pietro Messia, una sorta di libro di lettura popolare che fu pubblicato a Venezia nel 1663, nel 1670 e nel 1682.
Un ultimo scritto di carattere storico-politico, La regina scurtata, si conserva inedito nel citato codice del Museo Correr. Si tratta di tre dialoghi in cui si esamina la questione dell'abdicazione di Cristina di Svezia e si tenta di scagionarla delle numerose accuse rivoltele dai contemporanei: non è inverosimile - ma manca qualsiasi documento in proposito - che l'opera fosse stata commissionata al B. dalla stessa regina.
Gli anni del soggiorno torinese furono per il B. tutt'altro che facili. Ebbe dapprima molti onori, che culminarono nell'incarico di costituire l'Accademia Reale di cui fu il primo direttore, non riuscendo però a darle effettiva vitalità. Ma cominciò poi a manifestarsi contro di lui, specialmente dopo la morte del suo protettore marchese di San Tommaso, l'inimicizia di vari autorevoli personaggi della corte, tra i quali soprattutto alcuni esponenti della famiglia Alfieri che si ritenevano offesi da qualche giudizio espresso dal B. nella sua Historia d'Italia. Invano lo scrittore badiese cercò di guadagnarsi l'appoggio della reggente Maria Giovanna Battista, componendo un dramma sulle ipotetiche imprese di Amedeo IV, La liberazione di Rodi, e una Storia della Casadi Savoia, per la quale non gli riuscì di ottenere nemmeno il permesso di pubblicazione. Angustiato dalle persecuzioni, privato di ogni assistenza, il 26 luglio 1686 chiedeva alla reggente il permesso di ritornare a Venezia, rinunziando persino agli stipendi ancora dovutigli.
Si ignora se il congedo gli fosse accordato e dopo questa data non si ha più alcuna notizia su di lui.
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