BORRI (Borro, Borrius), Girolamo
Figlio di Mariano, nacque ad Arezzo nell'anno 1512.
Studiò con il teologo A. Bonucci, alunno del, Pomponazzi e generale dei serviti, e, nel 1535, ottenne la laurea in filosofia, medicina e teologia, probabilmente a Padova. Di qui, infatti, il B. fu preso con sé dal cardinale Giovanni Salviati come "guida e duce degli studi suoi", rimanendo al suo servizio come teologo per "sedici degli anni suoi migliori". Ciò doveva avvenire tra il 1535 e il 1537 (il Salviati morì infatti nel 1553). Che gli anni di studio si svolgessero in ambiente veneto è confermato dai rapporti con l'Aretino, che il B. frequentò a Venezia e a cui scriveva il 12 maggio e 21 sett. 1540, chiedendone amicizia e favori. All'Aretino l'avevano raccomandato F. Bacci, Girolarno Montaguto e F. Vettori, dal B. casualmente conosciuto a Roma. In questo periodo il B. è infatti in viaggio tra Padova, Arezzo e Roma (dove forse ottenne una lettura) e da dove il 6 nov. 1541 chiedeva nuovamente l'intervento dell'Aretino in favore del padre, che il vecchio vescovo d'Arezzo F. Minerbetti aveva ingiustamente licenziato dal locale Banco dove ricopriva il "primo luogo". Da parte sua il B. s'adoperava presso il Salviati per assecondare le immancabili richieste dell'Aretino, per il quale aveva anche tentato, tramite uno zio "vescovo di Trento", una raccomandazione presso "la figlia di sua maestà" (forse Margherita d'Austria) di cui era segretario. Sempre al seguito del cardinale il B. è di nuovo a Roma nel giugno del 1542. Nel 1548 si trasferisce a Parigi, alla corte di Francia, dove si vanterà d'aver sostenuto pubbliche dispute alla presenza del re (pare inoltre che avesse letto nello Studio parigino). L'8 aprile fa sapere all'Aretino che quella non è occasione da mandar perduta e immediatamente riceve l'incarico d'interporre i suoi buoni uffici per ottenere alcuni "presenti" che le "lor Maestà" intendevano inviare all'Aretino, come pure di mandare a buon fine una promessa di denaro del cardinale di Lorena.
Nel 1550 il B. è di ritorno a Roma per partecipare al contrastatissimo conclave che vide l'elezione di Giulio III e in cui proprio il Salviati era stato a lungo al centro delle trattative come candidato dei cardinali francofili. Un anno dopo, con dispaccio da Roma del 29 apr. 1551, A. Serristori notificava al duca di Toscana Cosimo I che "Hier. Borro d'Arezzo, theologo, che serviva al card. di Ferrara" era stato incarcerato come sospetto d'eresia. Cominciavano così le fortunose vicende che portarono più volte il B. di fronte all'Inquisizione. L'incidente dovette risolversi per il meglio, se nel 1553, dopo la morte del Salviati, il B. poteva ricoprire la cattedra di filosofia allo Studio di Pisa, come collega di Selvaggio Ghettini. Qui rimase fino al 1559. Dopo di che si assentò da Pisa, forse per insegnare in un altro studio (probabilmente a Siena). Ma proprio in questi anni il nome del B. tornava nei processi del S. Uffizio.
Nel 1559, infatti, s'era aperto il secondo processo a carico di P. Carnesecchi. Nel 1566, durante il terzo e definitivo, gli inquisitori, nell'intento di far luce sui rapporti tra i riformati, formularono al Carnesecchi esplicite domande sull'attività del B., come risulta dal costituto del 21 febbr. 1567. Alla domanda se, quante volte e dove avesse conferito in materia di fede con il B., il Carnesecchi rispondeva vagamente d'aver "parlato seco più d'una volta di cose di religione", ma poi precisava di rammentare come il B. "partecipasse delle opinione heretiche moderne, et, se ben mi ricordo, fusse inclinato alla setta sacramentaria" e di non aver dimenticato un suo modo di parlare "che quasi a ogni parola diceva: sia benedetto Dio, overo il nome di Iesu Cristo", il che lo scandalizzava un poco, "parendomi che fusse una specie di hippocrisia". Peraltro, cosa d'un certo rilievo, gli sembrava che il B. avese letto in casa dell'arcivescovo d'Otranto "una lettione credo delle Epistole di San Paulo" o di "altre epistole della scrittura" alla presenza di alti prelati e, certamente, di Vittore Soranzo, di cui il B. era amico. Comunque le stringate e vaghe risposte del Carnesecchi lasciano trasparire tutta una trama di rapporti intrattenuti dal B. nell'ambiente di Curia, con non pochi sospetti al S. Uffizio. La deposizione del Carnesecchi dovette certo aggravare la situazione del B. di fronte agli inquisitori.
Nel 1561, intanto, il B. aveva pubblicato la sua prima opera, dedicata a Giovanna d'Austria duchessa di Toscana, il Del flusso e reflusso del mare (Lucca, Busdrago, a cui era accoppiato un Ragionamento di Telifilo Filogenio della perfettione delle donne, tradotto da G. Ghirlanda), in forma di dialogo tra lo stesso B., Giovanna d'Austria, G. Acciaiuoli, il conte Polidoro e A. Neroni.
In apertura il B. si presenta, a dispregio della tradizione letteraria toscana, come estimatore di quella latina e, nella dottrina, come grande ammiratore dei Greci e degli Arabi ma, sopra tutti, di Aristotele e Platone, in un dichiarato disegno concordista. Difatti, nell'intento di dimostrare la sua teoria delle maree, il B. procede ordinatamente all'ampia esposizione d'una cosmologia in cui, entro la consueta struttura aristotelica, trovano posto temi e dottrine care alla tradizione araba e neoplatonica, dalla quale, comunque, il B. espungeva accuratamente ogni aspetto magico-astrologico. Ben fermo alla ragione e alla esperienza aristotelica, il B. tenta di dedurre razionalmente, secondo principî naturali, la causa delle maree, che individua in luce, calore e moto dei raggi lunari i quali, "colpendo" le acque marine, ne provocano l'innalzamento. Perciò, quanto più la Luna salirà sull'orizzonte, "tanto più al dirimpetto co' suoi raggi, profondandosi nell'acqua, le ferirà" obbligandole così gradualmente a gonfiarsi: un atteggiamento razionalistico, dunque, e una spiegazione a suo modo meccanica (senza "occulte virtù"), nei limiti della scienza delle scuole, che il B. ribadirà nella operetta Dell'inondatione del Nilo (aggiunta alla seconda e terza edizione fiorentina del Del flusso e reflusso, ristampata e ricorretta nel 1577 e 1583) spiegata in base ai Meteorologica di Aristotele, e dove non mancano accenti contro il miracolismo di naturalisti antichi e moderni.
Nel 1575 il B. torna a Pisa come straordinario in filosofia, tra feroci contrasti. Sorsero infatti liti con i lettori concorrenti che tentarono di coalizzarsi contro di lui. Il 15 marzo 1576 il B. scriveva al granduca d'esser perseguitato dal Buonamici e dal Verino, che non solo contestavano la validità del suo dottorato, ma si vantavano d'avergli tolto la provvigione e quella cattedra concessagli da Francesco l'11 ag. 1575 e da lui "honoratamente tenuta a Parigi et negli altri Studi d'Italia". Gli scontri si moltiplicarono. Il Guidi, il Gambarelli e il Buonamici, per contrastare un'analoga iniziativa del B., avevano fatto firmare una petizione agli studenti, in cui reclamavano alla cattedra non il B. ma il Verino. Due anni dopo anche il medico A. Caniuzio insorgeva contro il B. indicandolo come causa principale dell'odio contro di lui, entrato in possesso del titolo di straordinario. Sistematicamente boicottato dai colleghi che gli avevano sviato gli alunni con calunnie, denaro e lezioni private in coincidenza con la sua, il Carnuzio s'era visto piovere in aula "per due giorni alla fila" delle pietre dalla finestra, alle quali s'era aggiunto il cortese avvertimento di dover "aver di gratia a vivere". Tutto ciò conferma la fama di uomo litigioso, bisbetico e turbolento che correva sul conto del Borri. Impietoso, peraltro, è il giudizio che il De Sommaia dava delle lezioni del B. ("Il buio pesto del Borro", legge, nelle Schede ms. del Sommaia, E. Garin, Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Bari 1965, pp. 125 e 123, 126, 138, 141 s.).
Certo anche per dar prova dei suoi meriti il B. pubblicava nel 1575 (poi ristampata l'anno dopo) un'opera di fisica aristotelica, il De motu gravium et levium (Firenze, Marescotti), suddivisa in tre parti e con triplice dedica al granduca Francesco I, al cardinale Ferdinando de' Medici e a Pier Vettori.
Ancora una volta il B. giungeva alla esposizione della teoria dei moti elementari attraverso una minuta analisi delle principali nozioni della fisica e metafisica aristotelica, sulla scorta dei commentatori greco-arabi, primo tra tutti Averroè. Peraltro, il B. rigettava tutta intera la tradizione scolastica (non un filosofo cristiano è citato) mentre discuteva lungamente e riccamente le teorie fisiche dei presocratici e degli atomisti, attestandosi su una sistematica difesa delle tesi aristoteliche. Quanto all'oggetto del suo scritto, dopo aver esposto le varie spiegazioni proposte sull'accelerazione del mobile (ignorata è la teoria dell'impetus dei maestri parigini), il B. concludeva per la dottrina tradizionale dell'antiperistasi e del luogo naturale: l'accrescersi della gravità o della leggerezza degli elementi nel moto naturale dipende: dal numero delle parti del mezzo che precipitano dietro il mobile, dalla resistenza del mezzo, maggiore all'inizio e minore alla fine del moto, dal conseguente maggiore impulso impresso dall'aria che segue il mobile, dalla perfezione acquistata dai corpi gravi e lievi, che è tanto maggiore quanto più vicini sono al luogo naturale. Sicché la gravità o leggerezza acquistata rende alla fine il movimento più rapido. Al moto naturale il B. aggiungeva il moto violento (più veloce all'inizio) e quello volontario animale (più veloce nel mezzo).
È da ricordare, peraltro, che il Galilei terrà presenti i testi del B. durante gli anni di corso allo Studio pisano. Già nel giovanile De motu parlerà del B. seguace di Averroè, citandone il De motu gravium et levium come esatto compendio delle dottrine tradizionali sul moto. Né è improbabile che proprio tramite il B. furono note al Galilei alcune obiezioni capitali alla dinamica aristotelica, quali la teoria di Avempace (cfr. Moody). Ancora nella quarta giornata del Dialogo dei massimi sistemi, il Galilei ricorderà la teoria del Flusso e reflusso del mare del B., tra quelle correnti in ambiente peripatetico.
Durante gli anni seguenti il B. è sempre alla sua cattedra pisana. Nel 1581 il Montaigne, in viaggio per l'Italia, sostando a Pisa così annotava nel suo Journal de voyage:"Mi venne a visitare in casa parecchie volte Girolamo Borro, medico, dottor della Sapienza".
L'assidua frequenza del B. dovette lasciare in Montaigne un singolare ricordo, se negli Essais (I, xxvi) ne evocherà, con ironia, la figura di "honneste homme", ma talmente aristotelico da promuovere la dottrina dello stagirita a regola unica di ogni verità e d'ogni solido ragionamento, dal momento che il filosofo greco aveva "tout veu et tout dict". E il Montaigne aggiungeva, portando una testimonianza sulle ragioni della prima carcerazione del B., che tale affermazione: "pour avoir esté trop largement et iniquement interpretée, le mit autrefois et tint long temps en grand accessoire à l'inquisition à Rome".
Ma le disavventure del B. con l'Inquisizione romana non erano finite. Infatti, nel 1583, il B. è nuovamente nelle carceri di Roma sotto accusa d'eresia, condottovi insieme a due altri lettori pisani. Il 12 febbraio il vescovo Odescalchi scriveva da Roma al duca di Mantova: "Dimani dopo pranzo nella Chiesa della Minerva si fà una grande abiurazione di circa 30 heretici... et dicesi vi sia anche il Borro d'Arezzo Dottor famoso che ha letto in molti studi, il quale dicono che haveva una opinione pazza cioè tenendo che l'anima sia mortale". Agli inquisitori non era dunque sfuggita la portata eterodossa d'una lettura di Aristotele "iuxta propria principia", cui andavano ad aggiungersi le precedenti accuse, l'odio creatosi intorno al B. e le inique interpretazioni del suo insegnamento. A tal riguardo sembra che le accuse al B. fossero mosse da un tal Leonardo di Andrea Cesalpini d'Arezzo, un eretico giustiziato, e che non sarebbe (come qualcuno disse) figlio del celebre Cesalpino. La posizione del B. era ormai gravemente compromessa, e solo l'intervento di Gregorio XIII riuscì a salvarlo ("liberatelo, liberatelo - avrebbe detto - è un grandissimo uomo; il sappiamo noi"). Dopo circa un anno di carcere, il 5 nov. 1583, il B. scriveva al granduca di Toscana: "A laude d'Iddio, son stato liberato, non dalla Inquisitione, ma dal Papa".
Tornato allo Studio pisano, nella prolusione al suo corso ricordava, come in un incubo, l'orrore e lo spavento provati negli "angustissimi et oscurissirni carceres", colmi di strumenti di morte e di tortura, e le tremende voci dei giudici risuonanti crudeli minacce.
Esattamente un anno dopo, nel 1584, il B. pubblicava l'ultimo suo scritto dedicato a Francesco Maria duca di Urbino, il De peripatetica docendi atque addiscendi methodo (Firenze, Sermartelli).
Il trattato, maturato dopo una pluridecennale esperienza di insegnamento sui testi aristotelici, vuol essere una difesa del metodo aristotelico contro i contemptores (accenni al tema del metodo già erano in apertura del De motu).Sin dall'epistola dedicatoria appare la volontà del B. di considerare il metodo come strumento indispensabile per l'apprendimento di qualsiasi scienza. Pertanto, compito preliminare è determinare il metodo e l'ordine da seguire. Se l'ordine, condizione necessaria ma non sufficiente del metodo, consiste in una relazione di antecedente e posteriore, giacché non si può non procedere da un primo elemento per ritrovare una serie ordinata e finita da seguire, il metodo, si definisce come "via compendiaria perdiscendi, qua duce, ad doctrinam atque peritiam quam celerrime ascendimus" o, ancora, come "via brevis, recta, certa, terminata, facilis, et una, qua duce, ad doctrinam atque peritiam comparandam ascendimus", dove un forte rilievo è dato all'elemento della brevità, speditezza ed efficacia strumentale ("doctus minor est quam peritus"). All'interno del metodo il B., conformemente all'uso, individuava tre momenti: l'analisi o procedimento dal tutto alle minime parti; la sintesi o graduale ritorno dagli elementi più piccoli ai più grandi fino a raggiungere il fine, e la diairesis o suddivisione che parte dal genere supremo scomponendolo nelle sue forme e specie, e ancora, nelle specie delle specie sino alle differenze più particolari. L'analisi serve a ritrovare la scienza, la sintesi ad esporre e la diairesi a definire. Di fatto l'opera del B. è una singolare contaminazione del metodo peripatetico e dei motivi umanistici contro la logica e la metodologia medievale. Per il B. il metodo si identifica con quello adottato e professato da Aristotele, e come tale esattamente commisurato agli orizzonti della scuola.
Che l'apologia del metodo peripatetico rispondesse alle esigenze immediate della polemica scolastica è confermato dalle parole del Verino secondo, che nelle Vere conclusioni di Platone conformi alla dottrina christiana et a quella d'Aristotile (Firenze 1590) attaccava implicitamente il B., per la cui "insolenza" e "invidia" s'era visto costretto a smettere la lettura di Platone "così honorata et così giovevole impresa".
Proprio queste aspre polemiche, le gravi vicende del S. Uffizio, i sospetti e le invidie provocarono, nel 1586, la cacciata del B. dallo Studio pisano. Di lì passò all'università di Perugia, dove moriva ottantenne il 26 ag. 1592.
Alcuni decenni dopo Naudé (Naudaeana et Patiniana, Amsterdam 1703, pp. 7 ss.) raccoglieva in Italia sul conto del B. spigolature di gusto libertino che lo dipingevano come "un athée parfait", aristotelico ortodosso e sbeffeggiatore di frati inquisitori ("il eut été brulé plusieurs fois sans le Grand-Duc qui l'aimoit").
Del B. ci rimangono manoscritte alcune reportazioni del suo alunno E. Vezzosi, presso la Bibl. della Fraternità di S. Maria in Arezzo (cod. 38, ff. 237-51), una Vita di Cosimo I (Firenze, Bibl. Naz., II, IV 15, ff. 122 ss.), la prefazione al De motu dedicata a Cosimo de' Medici, poi sostituita al sopravvenire della sua morte con quella a Francesco de' Medici (Ibid., Magliab. cl. XI, 9), un De constructione syllogismorum con dedica a I. Salviati (Ibid., Magliab. cl. V, 24, pp. 1-9), un tardo brano filosofico Multae sunt nostrarum ignorationum causae (Bibl. Apost. Vat., Rossiano 1009. XI 159, ff. 153-8 [12-25]), una serie di lettere indirizzate a Lorenzo Giacomini Tebalducci (Firenze, Bibl. Riccardiana, 2438) e altre ancora conservate a Siena (Bibl. Comunale, D V 12).
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