BORGIA (Borgio), Girolamo
Nacque nel 1475 da Antonio e Girolama Rufolo a Senise in Lucania, donde poi si trasferì con la famiglia a Napoli, di dove erano originari i genitori.
Assai scarse sono le notizie sulla sua prima, giovinezza; poco credibile quella secondo cui si sarebbe recato a Roma durante il papato di Alessandro VI, suo lontano parente, e ne sarebbe fuggito nel 1497 per l'ostilità di Cesare Borgia. È invece probabile che sino al 1503 non sia uscito dai confini del Regno: nel 1495, rimasto fedele agli Aragona, tentò di raggiungere in Calabria Consalvo di Cordova; ma, assalito e derubato presso Amendolara da alcuni abitanti del luogo, fu consegnato a un francese che lo tenne prigioniero quaranta giorni, finché non ebbe pagato 10 ducati; in conseguenza di ciò il 22 dic. 1497 Federico I d'Aragona ordinava al governatore di quella zona di costringere gli aggressori a restituire il maltolto e a risarcire ogni danno.
A Napoli il B. seguì assiduamente le lezioni e le letture del Pontano, divenendo amico tra i più cari e fedeli del poeta e membro dell'accademia che intorno a lui si riuniva; dopo la sua morte seguì, come letterato e fors'anche come soldato, Bartolomeo d'Alviano, che allora combatteva nel Meridione al servizio della Spagna. Nel 1507 si recò a Venezia col condottiero, ed ebbe così occasione di frequentare lo Studio di Padova - dove si applicò al greco sotto la guida del celebre M . Musuro - e di partecipare alla cosiddetta Accademia Liviana, che ebbe breve vita tra il 1508 e il 1509 e riunì a Pordenone, intorno all'Alviano, il B., il Cotta, il Fracastoro e il Navagero. Quando nel 1509 l'Alviano fu fatto prigioniero ad Agnadello il B. tornò a Napoli per restarvi probabilmente sino alla liberazione del condottiero, avvenuta nel 1513.
Nel 1515, morto l'Alviano, visse qualche tempo tra Napoli e Roma, dove strinse rapporti con l'ambiente letterario e specialmente col Colocci; intanto, probabilmente, prendeva gli ordini sacri ed entrava nelle grazie dei Farnese, e specialmente del cardinale Alessandro, ottenendo da loro protezione, ospitalità e forse un incarico di precettore. Nel 1525 era stabilmente a Roma e nella Monarchia ringraziava il cardinale di concedergli "ocia grata"; quando questi nel 1534 divenne Paolo III dette molte prove di favore al B., che, d'altronde, nei suoi scritti si mostrò fervidissimo fautore della politica papale di pacificazione europea in vista della guerra santa contro il Turco. Intanto partecipava alla rinnovata Accademia Romana, fu amico dell'Anisio e del Tolomei, scrisse numerosi poemetti e andava lavorando a quella che fu l'opera di tutta la sua vita, quell'Historia de bellis Italicis in cui voleva lasciare la sua accorata testimonianza sugli anni che videro la fine dell'indipendenza italiana. Unica nota discorde nella tranquillità della sua vita fu il disprezzo ostentato contro di lui in più occasioni da N. Franco, che ne fece uno dei bersagli preferiti della sua polemica antipedantesca. Tornava spesso a Napoli, dove vivevano i suoi tre fratelli (che gli premorirono) e i loro figli, e dove lo chiamava l'amore vivissimo per la terra della sua giovinezza. Nel 1544 Paolo III lo elesse vescovo di Massalubrense e gli concesse i benefici di S. Erasmo e di S. Giacomo di Sabiano nella diocesi di Nola. Fu consacrato il 18 luglio di quell'anno dal cardinale R. Pio da Carpi, cui in quell'occasione indirizzò un epigramma accennando di ambire alla porpora; ma il 18 marzo 1545 cedette il vescovato al nipote Giambattista e si ritirò a vita privata, forse presso il viceré Pedro di Toledo.
Del B. si conoscono solo scritti latini: l'accenno dei biografi a sue composizioni poetiche in greco sembra risalire a una svista dell'Ughelli che, leggendo nell'Ist. de' poeti greci del Crasso che il Musuro ebbe tra i suoi allievi il B., celebrato poeta, credette che quest'ultimo avesse scritto anche in greco.
Prima opera del B. di cui si abbia notizia è la nota Vita Borgiana di Lucrezio, scoperta nel 1894 dal Masson: sorta di prefazione al De rerum natura, con ampie notizie biografiche sul poeta latino, che a torto il Masson credette discesa da fonte assai vicina alla perduta biografia svetoniana, mentre in realtà altro non è che un'esercitazione umanistica risalente, oltre che alle note fonti di s. Girolamo e Macrobio, al petrarchesco De remediis utriusque fortunae, di cui riprende e aggrava la tendenza a chiarificare e ad ampliare indebitamente le notizie del Chronicon geronimiano.
Il B. si dedicò poi alla poesia latina, e fu autore di eleganti composizioni encomiastiche: di esse la prima sembra il Panegyricus ad Consalvum Ferrandum Magnum Hispani exercitus Imperatorem, pubblicato dal Di Florio alle pp. 86-92 di G. B. poeta e storico; scritto in occasione del trionfale ingresso del Cordova a Napoli (28 maggio 1503), il poemetto descrive in chiave mitologica la venuta del gran capitano e si accentra sulla preghiera a Consalvo perché voglia essere il rinnovatore d'Italia. Il Carmen in Triumphum Germanicum illustriss. Ducis B. Liviani ad Sereniss. D. L. Lauretanum et Senatum Venetum (pubblicato dal Cian alle pp. CCLXXII-CCLXXVII delle Rime di B. Cavassico) celebra la vittoria dell'Alviano sul duca di Brunswick; sullo stesso argomento il B. scrisse anche un Panegyricus de clarissima victoria Magnanimi Ducis B. Liviani contra Germanos, pubblicato dal Di Florio alle pp. 78-86 dell'opera citata. Prima opera a stampa è l'Epitalamium in nuptias A. Herrici Neapoletani equitis, pubblicato nel 1517 a Roma e dedicato a G. Carbone: mediocre poemetto in cui Giunone dà saggi consigli agli sposi sull'educazione del figlio che da essi nascerà e farà rifiorire Partenope. Ancora a Roma, nell'aprile 1525, vedeva la luce Ad Carolum Caesarem Opt. Max. Monarchia, palinodia dell'atteggiamento violentemente anticesareo che il B. aveva assunto nei carmi in lode dell'Alviano. L'opera (una cui redazione è anche nel Vat. Barb. lat. 1869, cc. 12r-17v) è una raccolta di epigrammi ed elegie scritti per la vittoria di Pavia in lode del Pescara e di Carlo V, auspicato rinnovatore d'Italia e garanzia certissima contro la minaccia ottomana. Più tardi cantò l'impresa di Tunisi in una raccolta di liriche, Africana Caesaris victoria (Neapoli 1535), e nell'Africanus Caroli V Caesaris Romae Imper. invicti Triumphus (Neapoli 1536), dialogo in versi in cui Mercurio esorta Roma a risorgere dall'avvilimento presente esaltando il pontefice e l'imperatore che le assicureranno un futuro degno della passata grandezza; quando poi nel 1538 Paolo III ottenne che Francesco I e Carlo V addivenissero alla tregua di Nizza, il B. levò il suo inno alla pace col Triumphus Pauli III Pont. Max. sapientissimique principis. De Christiano orbe divinitus pacato (Neapoli 1538).
Il poemetto Incendium ad Avernum lacum horribile pridie Kal. Octob. 1538, nocte intempesta exortum (Neapoli 1538) imita piuttosto supinamente l'Etna pseudovirgiliano, descrivendo un'eruzione avvenuta presso il lago Averno e presentando il fenomeno come un ammonimento divino. Ultimo dei poemetti del B. è l'Urbis Romaerenovatio (Romae 1542), dedicato, in una copia in possesso della Biblioteca Vaticana (Racc. I. IV.2010), a Paolo III con un'ode aggiunta in un foglio manoscritto: lungo dialogo in esametri tra il Giovio e un pellegrino lucano - in cui è facile riconoscere il B. - che, vedendo Roma risorta, lo prega di descrivergli le sventure che l'avevano afflitta e d'indicargli il dio che le restituì decoro e grandezza; il Giovio allora narra il sacco ed esalta papa Farnese come salvatore e padre della patria.
Altre composizioni poetiche ci sono conservate dal Vat. Barb. lat. 1903 (l'Epigrammatum liber primus contenente seicentododici epigrammi) e dai H. Borgiae Massae Lubrensis episcopi Carmina lyrica,et heroica quae extant... (Venetiis 1666); alcuni epigrammi del Barb. 1903 ricompaiono nel Vat. Barb. lat. 3231, cc. 340r-343v; il copista afferma di averli trascritti da un codice di epigrammi del B. in possesso dell'Allacci cui accenna anche l'Ughelli e che, mancando dalle Carte Allacci della Vallicelliana di Roma, è verosimilmente da identificarsi per varie ragioni col citato Barb. lat. 1903. Quest'ultimo sembra esser stato compilato, insieme con una raccolta di elegie che non ci è pervenuta, in vista della pubblicazione; il progetto fu interrotto probabilmente dalla morte dell'autore, ma fu portato a compimento più d'un secolo dopo dall'omonimo pronipote, giureconsulto e poeta. Videro così la luce, oltre a buona parte degli epigrammi e ad alcuni poemetti già editi in vita del B., quattro ecloghe, alcune elegie e una breve biografia dello scrittore che dicesi desunta dagli scritti di un Paolo Anisio giureconsulto.
Molti degli epigrammi sono encomiastici, dedicati a Paolo III prima e durante il suo pontificato, al nipote di questo A. Farnese, all'Alviano, agli amici; altri sono polemici, altri ancora, più rari, autobiografici. Delle quattro ecloghe, la prima esprime il convenzionale rimpianto per la perduta grandezza di Roma, le due seguenti, dedicate a V. Colonna, lamentano l'infelicità del poeta lontano dalla patria, nella quarta si narra la nascita di Cristo e si ricordano le profezie che l'avevano annunciata, a imitazione del De partu Virginis del Sannazzaro e della quarta ecloga di Virgilio. D'ispirazione sacra sono pure l'elegia Magorum Epiphania, lunga parafrasi della narrazione evangelica, e il De salutifero Christi tropheo in esaltazione della croce.
Generalmente nell'opera del B. l'eleganza del verso resta a testimoniare lo scrupolo del letterato ma non l'ispirazione del poeta; anche se, di quando in quando, sotto la gelida politezza di una composizione encomiastica affiora un amor di patria sincero e dolorante, o in un epigramma erotico si coglie l'eco d'un pathos e d'una sensualità inconsueti.
L'opera più notevole del B. è l'inedita Historia de bellis Italicis, iniziata in gioventù e continuata probabilmente sino all'anno della morte. È questa l'unica opera storica che egli scrisse: l'altra attribuitagli da alcuni biografi, l'Historia Aragonensium, risale a un errore del Meola che, in possesso della dedicatoria al Seripando del libro XIX del De bellis Italicis, credette che appartenesse a una storia degli Aragona. In seguito fu difficile correggere l'errore, conoscendosi dell'opera unicamente il cod. Marciano XXII 162 di 287 cc., che ci conserva solo i libri I-XII e XVI-XVIII. Il problema è risolto da un manoscritto sinora ignoto, il Vat. Barb. lat. 2621 di 180 cc. che, contenendo i libri XIII-XXI, integra e continua il Marciano. L'opera è inedita, ma ne resta a stampa una lunga lettera di otto pagine in folio in cui il B. dedica la sua "nostri temporis historiam" a Paolo III, ricordando di averla iniziata nella prima giovinezza, di averla continuata presso i Farnese e di averla condotta a termine per esortazione del papa: di tale stampa, rarissima, l'unica copia nota è nell'Arch. Segr. Vat., Carte Farnesiane 18, cc. 539r-542r. Dal contesto si deduce che l'opera fu presentata il 15 ott. 1543; ma dovette essere ancora offerta al pontefice l'anno successivo, come attesta la dedica in distici alla c. 1 del cod. Marciano, con una nota in cui il B. afferma di aver dato il volume a Paolo III la sera del 22 giugno 1544 e di averne ricevuto le lodi. D'altronde, il B. dovette spesso ritenere conclusa la sua Historia;nel cod. Vaticano troviamo la parola "finis" già al termine del libro XV, datato 1º marzo 1535, che chiude il De bellis Italicis vero e proprio: in seguito infatti, pur proseguendo la numerazione dei libri, il titolo muta variamente in Historia sui temporis,suae aetatis,nostrae aetatis, testimoniando l'ampliarsi degli interessi dell'autore e fors'anche un influsso del Giovio. I libri XVI e XVII sono due monografie, rispettivamente De bello Africano e De bello Gallico, concluse dalla parola "finis" in data 7 marzo 1538;tale parola è ripetuta nuovamente al termine del libro XVIII. L'ultimo libro, il XXI, è più che altro un abbozzo che ripete molte pagine del precedente e si interrompe sugli avvenimenti del 1547.L'argomento dei primi quindici libri è fornito dalle guerre combattute in Italia dal 1494 all'elezione di Paolo III (1534);nei libri successivi il desiderio di chiarire le ragioni delle sventure d'Italia spinge il B. a volgersi ai più vasti orizzonti della politica europea.
Nell'opera sono in primo piano quel patriottismo e quella sincera ansia di pace cui il B. dà voce anche nella poesia; eppure spesso, sotto la compagine della storia, si affacciano una disposizione aneddotica e un gusto fosco per l'osceno e il macabro che, se testimoniano della carenza di senso critico nell'opera, ne costituiscono insieme il fascino maggiore, precorrendo quel gusto senechiano dell'orrido che si diffonderà nella seconda metà del secolo: si vedano le scene di delirante corruzione di cui è protagonista Alessandro VI. La struttura si conforma ai modelli annalistici della storiografia latina, e particolarmente di Livio, persino nel riferire i prodigia e le arringhe dei generali; la storia, secondo il pragmatismo umanistico, è un susseguirsi di fatti la cui causa è cercata nelle imprese e nel carattere dei singoli.
Discontinuo è lo stile, nobile e togato nelle prefazioni e nelle dediche, ma libero e spesso senza pretese nella narrazione; l'opera dovette esser scritta più come la testimonianza e lo sfogo di chi le vicende d'Italia aveva vissuto e sofferto che come opera d'arte elaborata per amor di gloria. Da un punto di vista storiografico i pregi e i limiti del De bellis Italicis sono già impliciti nel suo carattere di sfogo sincero e di cronaca talora ingenua ma sostanzialmente onesta; il B. riporta acriticamente notizie di prima e di seconda mano, sempre tentando di restare al di sopra delle parti e di giudicare con melanconica imparzialità i protagonisti della rovina italiana anche se, pur vedendo le ragioni e i torti subiti dagli Imperiali, segue con maggior simpatia le sorti dei Francesi e dei loro alleati italiani. Molto spazio dedica agli avvenimenti del Regno, per il quale aveva interessi più diretti ed informazioni più ampie e sicure; e questo dovette essere il motivo per cui il Guicciardini, come affermò il Villari, nella stesura della Storia d'Italia tenne largamente presente l'opera del B. - di cui dovette conoscere almeno i primi quindici libri - per le vicende dell'Italia meridionale. L'affermazione del Villari è provata dal confronto delle due opere: ad esempio il lungo brano del libro XIII del De bellis Italicis dedicato alla battaglia navale di Capo d'Orso (cc. 226v-229r del manoscritto vaticano) è evidentemente riassunto, pur se sfrondato e ridotto all'essenziale, nel primo capitolo del libro XIX della Storia d'Italia.
Incerte le notizie fornite sul luogo e la data della morte del B. dai suoi biografi, che spesso presero per un'epigrafe funebre la dedica alla Vergine di una cappella che il B. aveva eretto a Massalubrense; l'unica notizia attendibile è una glossa d'ignoto: "Questa e lultima che fece" accanto a un epigramma del 13 giugno 1550 nel Barb. lat. 1903. È verosimile che il B. sia morto, forse a Napoli, quell'anno stesso.
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