BENIVIENI, Girolamo
Da Paolo Benivieni nacque a Firenze il 6 febbr. 1453 (stile fiorentino 1452), fratello di Antonio e di Domenico, entrambi personaggi di notevole rilievo nella cultura fiorentina del tardo Quattrocento. Non possediamo testimonianze sicure sui primi anni della sua vita e sugli studi compiuti durante l'adolescenza; ma è probabile che in età più matura seguisse i corsi dello Studio fiorentino, preparandosi forse a percorrere la stessa carriera di medico già intrapresa brillantemente dal fratello Antonio. Una grave malattia, sopravvenuta nel 1470, gli impedì di continuare un ordine regolare di studi, lasciandolo poi sempre molto debole e cagionevole. Ma il B., tralasciando dí "eleggersi più una che l'altra professione o servitù" (Firenze, Bibl. Naz., II. I. gi [già Magl. VII, 746], c- 132V), si dedicò completamente alle lettere, ampliando la sua cultura classica.
Studiò a lungo il greco e l'ebraico, giungendo a padroneggiare assai bene le due lingue, ed alternò questi studi con la lettura dei grandi poeti volgari, dallo "Stil novo" al Petrarca, e con la meditazione appassionata della Commedia dantesca. Ancora adolescente, il B. cominciò così ad esercitarsi in componimenti letterari in volgare che gli meritarono una notevole fama negli ambienti letterari fiorentini. Ed anzi la sua abilità letteraría, la sua conoscenza della musica e, soprattutto, la facilità di elegante improvvisatore gli valsero buona accoglienza nel circolo di letterati che si adunavano intorno a Lorenzo de' Medici. Delicato e sottile poeta cortigiano, il giovane B. poté così godere della vita fastosa e gioiosa che si svolgeva nel chiuso della corte medicea; ebbe anche la possibilità di avvicinare altri signori del tempo, come Giulio Cesare Varano, signore di Camerino, al quale dedicò una Bucolica, pubblicata nel 1482, assai interessante per i riferimenti biografici che contiene.
Verseggiatore aggraziato e abile facitore di rime, il B. si dimostrò, in questo e in altri componimenti, discreto imitatore delle personalità dominanti nella poesia fiorentina del tempo, il Magnifico e il Poliziano. Reminiscenze polizianesche, unite a motivi che risalgono all'esperienza poetica degli antichi (Mosco, Teocrito) e ai motivi dello "Stil novo", dominavano le sue composizioni ispirate ai temi d'amore, e in particolare il poemetto allegorico in ottave Amore. Tradusse anche in volgare, dalle versione latine del Poliziano, l'Amore fuggitivo di Mosco; e questa traduzione (codd. Magl. VII, 710; XXXIV, 1, della Bibl. Naz. di Firenze) conferma le sue eleganti qualità poetiche.
L'evento che decise di tutto il futuro orientamento spirituale del B. e l'allontanò dal suo giovanile costume di poeta cortigiano fu l'incontro con Giovanni Pico, che egli conobbe probabilmente nell'ambiente della corte medicea, iniziando un profondo rapporto di amicizia destinato a mutarsi in una vera e propria venerazione dopo la morte del giovane filosofò.
Non è possibile dire con esattezza quando il Pico, che giunse a Firenze per la prima volta nel 1479, strinse i suoi primi rapporti col B.; ma è certo che la loro amicizia risale al primo soggiorno fiorentino del Pico, perché nella citata Bucolica il B. parla già del suo grande affetto per il nobile mirandolano e ne lamenta la lontananza. Il ritorno a Firenze dei Pico nel 1484 rinsaldò il legame tra i due giovani studiosi; e quando nell'86, dopo P primo viaggio a Parigi, il Pico fu costretto, per la nota avventura con Margherita de' Medici, a rifugiarsi a Perugia e poi a Fratta, il B. venne a visitarlo in quest'ultimo rifugio e si trattenne qualche tempo con lui. Sembra che risalga a questo periodo la diffusìone della Canzona dell'Amor celeste e divino del B., col Commento del Pico, alla quale si allude in due lettere del Pico dell'ottobre dell'86. Però è probabile che la composizione della Canzona, elaborata sulla scorta del Simposio platonico commentato da Marsilio Ficino, risalga a qualche tempo prima, e che il Commento del Pico, con le sue vivaci punte antificìniane, sia posteriore alla stesura della non bella canzone dell'amico fiorentino.
L'assenza del Pico da Firenze durò fino al giugno del 1488; ma dal ritorno nella capitale toscana fino alla morte, sopravvenuta sei anni dopo, il nobile mirandolano non si allontanò più che per brevi viaggi alla Mirandola e nel Ferrarese. Così l'amicizia con il B. divenne sempre più stretta e intima, come testimonia, tra l'altro, un interessante frammento di lettera, edito recentemente dal Kristeller (Studies..., pp. 171 s.), nel quale il B., nel 1513, ricordava la sua strettissima famigliarità col conte e difendeva l'amico dall'accusa di aver praticato esperienze magiche. All'evoluzione spirituale del Pico, sempre tesa verso un ideale di pace universale e di mistica attesa dell'"età nuova", si accompagnò la progressiva accentuazione nel B. di un rigido attegteggiamento religioso, ben lontano dalle eleganze letterarie e dalla pratica cortigiana della sua prima giovinezza. Insieme col Poliziano, con Yohānān Alemanno, con Matteo Bosso e con Battista Spagnoli, egli fece parte del piccolo gruppo di amici che si riuniva frequentemente nella villa fiesolana del conte o nel convento di S. Marco dove già dominava l'imperiosa volontà riformatrice di Girolamo Savonarola.
Il B., incline per natura al misticismo, imbevuto di dottrine platoniche assorbite nell'ambiente del Ficino e del Pico, subì presto l'influenza del monaco ferrarese. Le biografie più antiche del Savonarola lo annoverano tra i primi dotti della Firenze umanista convertiti dall'impetuosa predicazione profetica di fra, Girolamo; il primo effetto di questa conversione fu il ripudio di tutte le numerose poesie che il B. aveva scritto con sentimenti troppo "mondani e carnali" e la correzione, con sottili varianti e adeguati commenti, di quelle composizioni che erano ormai troppo note e diffuse per Poter essere facilmente distrutte. Dal momento della conversione la sua poesia abbandonò le "frivolezze" e i temi d'amore, e divenne, anzi, l'espressione talvolta eloquente e felice del vasto moto di "riforma" spirituale che dal convento di S. Marco si diffondeva impetuosamente negli strati popolari di Firenze.
Nel mutare così profondamente il significato delle sue poesie il B. non trovò certo eccessiva difficoltà, giacché quei sonetti e quelle canzoni, d'ispirazione spesso petrarchesca, erano già profondamente permeati di quello spirito neoplatonico che aveva ispirato la Canzona e si risolveva nell'esaltazione di una bellezza "infinita in se stessa e nei suoi riflessi terreni" (V. Rossi).
La morte di Lorenzo de' Medici e la crisi della signoria medicea, travolta dall'invasione di Carlo VIII (1494), trovarono il B. tra i più ardenti seguaci del domenicano, al quale guardava con sempre maggiore amicizia e speranza anche Giovanni Pico. Ma proprio il giorno dell'entrata in Firenze di Carlo VIII Giovanni Pico moriva, vestito dell'abito domenicano. Fu questo certo il dolore più aspro che colpì il B. nella sua lunga vita, un dolore che sembrò, sul momento, rinnovare in lui quella tendenza al suicidio che già l'aveva minacciato negli anni infelici dell'adolescenza. Sotto l'incalzare degli avvenimenti politici che decidevano la storia di Firenze, egli si schierò però decisamente a fianco del Savonarola nel momento in cui sembrava che il suo programma di riforma religiosa e politica potesse esser realizzato nella città liberata dai Medici. Non solo compose diverse laudi spirituali di schietta impronta piagnona (come quella sulla futura felicità "spirituale" di Firenze cantata solennemente dai "fanciulli" savonaroliani sulla piazza della Signoria la domenica delle Palme del 1496. o la lauda che il 7 febbraio del '97 salutò le fiamme salutari che ardevano le "vanità"), ma tradusse anche in volgare il trattatello del Savonarola Della semplicità della vita cristiana, pubblicato quasi contemporaneamente all'originale latino nell'ottobre del '96 ("Firenze, presso Lorenzo Morgiani, ad istanza di Pietro Pacini, 1496"). Dal volgare invece tradusse, probabilmente nello stesso periodo di tempo, la savonaroliana Epistola dell'umiltà, la cui versione latina autografa del B. è conservata nell'Arch. di Stato di Firenze, fondo Gianni-Mannucci, già Leonetti, cod. 45.
In questi componimenti, e soprattutto nello liriche sacre, ispirate a un vivo e sincero fervore religioso, il B. trovò talvolta un tono originale e spontaneo che lo distingue nella poesia devota dei tempo, anche se in altri componimenti non riuscì ad evitare lo stesso gusto artificioso e complesso che aveva ispirato talune sue poesie giovanili e, soprattutto, la Canzona dell'amore. Ma le sue Laudi e canzoni morali dovettero comunque godere di una discreta fortuna, come mostra la loro diffusione a stampa. Le troviamo, infatti, stampate nell'edizione delle Rime spirituali di diversi autori, apparsa a Venezia nel 1552, e poi ancora nelle Rime spirituali, edite a Firenze dai Giunti nel 1578. E così pure compaiono nell'edizione del 1550 delle Rime spirituali di diversi autori ("in Venezia, al segno della Speranza") le sue versioni in terza rima dei Salmi di Davide (già edite dal Tubino a Firenze nel 1505) e della Sequenza dei morti (edita nell'ed. giuntina delle sue Opere e nelle venete del 1522 e 1524, e ristampata poi a Verona nel 1749, nella raccolta fatta da Francesco Turchi di Salmi penitenziali tradotti da diversi) e le Stanze in passione Domini.
Strettamente legato ormai alle vicende del movimento piagnone, il B. nell'aprile del 1497, quando si sparse la voce di un imminente ritorno di Piero de' Medici, fu scelto da Filippo Arrigucci per consultarsi col Savonarola. Ed è nota la risposta: "Modicae fidei qua re dubitasti?" che il Savonarola gli avrebbe dato, esortandolo a riferire che Piero sarebbe arrivato alle porte della città, ma avrebbe dovuto abbandonare la sua impresa. Piu tardi, nel luglio dello stesso anno, il nome del B. figura tra quelli dei trecentosessantatrè cittadini che sottoscrissero la supplica ad Alessandro VI perché liberasse il frate dalla scomunica. Ma della sua intensa partecipazione alle vicende savonaroliane offrono testimonianza diverse frasi dei protocolli del processo del Savonarola di fra' Domenico Bonvicini e fra' Silvestro Maruffi, dalle quali risulta, tra l'altro, che egli sarebbe stato tra i pochissimi ai quali il frate ferrarese avrebbe compiutamente rivelato il suo progetto per la convocazione dei concilio.
Il rapido declino della fortuna del Savonarola, il suo improvviso arresto, il processo e la morte non spensero la fede piagnona del Benivieni. Secondo una tradizione sostenuta dai primi biografi del Savonarola, sarebbero toccate a lui molte reliquie del martire; e certo egli fu tra i cittadini ammoniti per aver abbracciato il partito del frate ferrarese (Arch. di Stato di Firenze, Otto di Guardia e Balìa, maggio-agosto 1498, n. mo, cc. 95v-96r).
Dopo la fine della Repubblica piagnona il B. si ritirò a vita privata, continuando a professare il più devoto culto per la memoria dei Savonarola. Ma ciò non gli impedì di tenere stretti rapporti di amicizia con il ramo cadetto dei Medici, e, in specie, con Giovanni detto il Popolano.
Alla sua morte, avvenuta tra il 14 e il 15 sett. 1498, il B. scrisse una consolatoria alla vedova, raccolta più tardi nel suo canzoniere, e a lei rivolse altri due brevi carmi, sempre celebrativi del defunto marito. Ai legami di amicizia con il ramo mediceo cadetto si deve probabilmente la scelta del B. come "arbitro ed amichevole compositore" del contrasto tra Caterina e il cognato Lorenzo de' Medici, contrasto che fu appunto sanato dal suo lodo arbitrale reso il 14 ag. 1504 dinanzi al cancelliere degli Officiali dei Pupilli (Archivio di Stato di Firenze, Med. av. il Princ, filza 87, cc. 4 ss.) e dai successivi compromessi dei 28 febbr. 1505 e dei 5 giugno 1505. Dopo la morte di Caterina, avvenuta il 28 maggio isog, gli Officiali dei Pupilli lo nominavano, con deliberazione del 6 ag. 1511, curatore dei beni di Giovanni. A tale incarico il B. rinunziò poco dopo, il 29 maggio 1512 (Arch. di Stato di Firenze, Arch. vecchio dei Pupilli, 122, c. 39v; 123, cc. 19 ss.), ma continuò ad adoperarsi in favore del futuro condottiero per salvaguardare i suoi interessi nei confronti dei Medici del ramo principale tornati a Firenze nel settembre dello stesso anno. Anzi, il 12 ottobre riassunse la * attoria" alla quale rinunziò definitivamente il 31 maggio 1513.
Frattanto la sua fama di scrittore era andata crescendo. Ma il B., che aveva ripudiato i versi di gioventù che cantavano "d'amore... lascivo e sensuale", solo nel 1500 si decise a pubblicare un suo Commento a cento dei propri componimenti poetici, rielaborati e "riformati" per meglio rispondere ai sentimenti "spirituali" che ora lo dominavano.
Il Commento di Hieronymo Benivieni sopra a più sue canzone et sonetti dello Amore e della Bellezza divina fu pubblicato in Firenze, per i tipi del Tubini, l'8 sett. 1500, preceduto da una lettera dedicatoria a Giovan Francesco Pico, il nipote del filosofo mirandolano. E sia i componimenti, nei quali prevale l'ispirazione petrarchesca, sia il commento di tono platonico e savonaroliano (ma ricalcato, in gran parte, sul Commento del Pico, allora ancora inedito, di cui il B. adopera quasi alla lettera interi passi), forniscono una testimonianza di notevole interesse sulla sua cultura e sui suoi legami con il gusto letterario e filosofico del tempo. Ma nella silloge egli non raccolse la Ghismonda (o Tancredi principe di Salerno, secondo il titolo datogli dallo Zambrini nella sua edizione bolognese del 1863, l'unica che possediamo, essendo praticamente introvabile l'originaria stampa quattrocentesca), riduzione in versi della nota novella boccaccesca; mentre invece vi pubblicò, in appendice, il poemetto Amore, già dedicato a Niccolò da Correggio, e la Deploratoria allo Illustre Principe Giovanni Pico Mirandulano, documento assai interessante della sua evoluzione spirituale.
Curata e compiuta questa pubblicazione, il B. continuò a condurre la sua vita solitaria e modestissima e a dedicare gran parte del suo tempo e delle sue sostanze ad opere di carità, secondo un modello di condotta perfettamente coerente allo spirito di fedele "piagnone". Non tralasciò per questo di continuare anche i suoi studi letterari, dedicandosi soprattutto allo studio del poema dantesco. Così nel 1506, nell'edizione giuntina della Comedia, egli pubblicò, a guisa dintroduzione, un "capitolo" in onore di Dante e vi aggiunse un suo Dialogo di Antonio Manetti circa al sito, forma et misure dello Inferno di Dante Allighieri.
Si tratta in realtà non di uno, ma di due dialoghi, nei quali il B., ponendo se stesso tra gli interlocutori (uno dei quali è, non a caso, il "profeta" Francesco da Meleto, autore di scritture mistiche sull'incipiente riforma della Chiesa), si faceva espositore dei risultati cui era giunto il letterato e matematico Antonio Manetti, morto ormai da quasi dieci anni. Non è facile dire quanta parte della materia dei dialoghi sia opera personale del B. e quanta sia invece opera del Manetti, i cui studi erano stati già citati fin dal 1481 da Cristoforo Landino nella dissertazione Del sito, forma e misura dell'Inferno preposto al suo commento della Commedia ("impresso in Firenze, per Nicholò di Lorenzo Della Magna, a di XXX da Gosto MCCCCLXXXI"), né è possibile ricordare nei loro particolari le tesi esposte dal B., contro le quali doveva aspramente polemizzare nel 1544 Alessandro Vellutello, controbattuto nel 1592 da Galileo Galilei, che difese il Manetti e il B. in due sue lezioni giovanili di argomento dantesco. Tuttavia il Dialogo costituisce un notevole documento dell'interesse per la Commedia nella cultura del primo Cinquecento, e un tentativo di fissare alcuni principi essenziali all'intendimento dell'architettura del poema dantesco. Ma degli studi del B. su Dante reca una preziosa testimonianza anche il Discorso in difesa di Dante steso dal pronipote Antonio Benivieni il Giovane sulla traccia dei "ragionamenti" del vecchio prozio, conservato in diversi codici (Firenze, Bibl. Maruc., A. CXXXVII; Ibid., Bibl. Naz., II. I. gi; Ibid., Arch. di Stato, cod. Gianni., n. 43) e pubblicato da L. Greco con il titolo La difesa di Dante di Gerolamo Benivieni (in Giornale dantesco, n. s., V [1897], quad. XI, pp. 509 ss.). Va pure ricordato che il nome del B. figura tra i primi firmatari della petizione presentata a Leone X, nel 1519, dai membri della "Sacra Academia" medicea, per chiedere il ritorno in patria delle ossa di Dante; e, già prima, egli stesso, il 15 marzo del 1515, aveva steso la minuta di una lettera che Lucrezia de' Medici-Salviati doveva inviare al fratello papa, sempre per implorare la restituzione della salma del poeta (cfr. Kristeller, Studies..., pp. 328-330).
Alla pubblicazione del "capitolo" e del Dialogo danteschi seguì, tredici anni dopo, l'edizione, per i tipi dei Giunti, della raccolta completa di tutte le rime che il B. ritenne degne di esser pubblicate e consone al suo atteggiamento spirituale (Opere di Hieronymo Benivieni. In Firenze per li Eredi di Filippo di Giunta, 1519; e poi nuovamente edite in Venezia, da Niccolò Zoppino e Vincenzo Compagni, 1522, e ivi, "per Gregorio", 1524). E qui, dopo lunghe esitazioni, egli lasciò stampare anche la Canzona d'amore con il Commento del Pico, alla quale premise una "lettera al lettore" ove si spiegava la genesi dei due componimenti e gli scrupoli d'ìndole religiosa che l'avevano indotto a ritardarne così a lungo la pubblicazìone. Alla Canzona fece poi seguire la nuova edizione della Bucolica, quindi il "capitolo" dantesco, varie deploratorie e consolatorie, poesie in lode di Lorenzo e in morte di Simonetta Cattaneo, altre dedicate al Pico, saggi di traduzione dall'ebraico e dal latino, laudi e canzoni morali di schietta ispirazione savonaroliana, nonché altribrevi minori componimenti di tono scherzoso e faceto.
Dopo il 1519, nel pieno della prima restaurazione medicea, il B. non compose quasi nulla di nuovo e venne sempre più ritirandosi da ogni impegno o interesse mondano. Sempredebole di salute, la vecchiaia già incombente lo tormentava con noiosi malesseri; il suo pessimismo sugli eventi del tempo lo spingeva nel 1524 a scrivere che le cose mondane "mi si mostrano hogi con altra faccia ch'elle non facevano quando era più giovane. In his enim praeter vanitatem et afflictionem spiritus, nihil boni invenio" (Arch. di Stato di Firenze, Med. av. il Princ., filza 69, c. 301). Appunto per le cattive condizioni fisiche egli rinunziò lo stesso anno all'offerta, fattagli dal pontefice Clemente VII e dal cardinale Iacopo Salviati, d'istruire il figlio di Giovanni delle Bande Nere, il futuro Cosimo I.
Anche i suoi rapporti con i Medici del ramo principale si erano però fatti nel frattempo più amichevoli e stretti. All'ascesa di Leone X al soglio pontificio il B. gli aveva inviato una "frottola" in renovatione Ecclesiae, singolare testimonianza della speranza, caldeggiata per breve tempo da certi ambienti savonaroliani, di trovare nel nuovo pontefice mediceo il papa riformatore profetato da Girolamo. Quando il cardinale Giulio de' Medici, arcivescovo di Firenze e futuro pontefice sotto il nome di Clemente VII, aveva soggiornato a lungo nella sua sede arcivescovile, l'antico piagnone aveva accettato i suoi pressanti inviti, frequentando spesso la mensa e la corte del prelato mediceo, allora molto preoccupato di cattivarsi la simpatia degli elementi savonaroliani. Del resto, valendosi della sua familiarità con Giulio, il B. non aveva perso occasione per difendere la memoria del Savonarola e per ammonire il futuro pontefice della necessità di un profondo rinnovamento della Chiesa. Già assai avanzato negli anni quando nel '27 cadde di nuovo il regime mediceo e Firenze tornò al suo ordinamento repubblicano, non sembrache il B. svolgesse nessuna attività o che partecipasse a quella infiammata ripresa di spirito piagnone che distinse l'eroica resistenza della Repubblica contro gli eserciti imperiale e papale. Ma dei suoi sentimenti di sofferta partecipazione alle sorti della sua città, durante l'assedio, testimonia una sua lettera (contenuta nel cod. XXXVII, 288, della Bibl. Naz. di Firenze), edita parzialmente in Francesco Ferruccio e la guerra di Firenze del 1529-'30, Firenze 1889, pp. 460-63- Poi, il 10 nov. 1530, quando già Firenze era caduta, egli scrisse una fiera lettera a Clemente VII (conservata nei codd. Magl. [Stroz.] XXV, 564, e XXV, 341 della Bibl. Naz. di Firenze), nella quale, insieme con la difesa della memoria del Savonarola, esortava il pontefice a dare alla sua città il miglior governo possibile (cfr. B. Varchi, Storia fiorentina, Firenze 1838-41, II, l. XII, pp. 534 s.). E sempre mantenne la sua amicizia per Donato Giannotti.
Sotto il nuovo governo ducale il B., nel 1532, fece parte dei Duecento; ma l'età e la naturale ritrosia per gli affari mondani lo tennero aneora lontano dalla vita pubblica. Solo si adoperò, ma inutilmente, perché il duca Alessandro facesse innalzare in S. Marco un mausoleo al Pico. In realtà, già da tempo il B. era un sopravvissuto, un uomo quasi fuori del suo tempo, guardato con sospetto tanto dagli avversari che dai fautori del governo mediceo. Trascorse così, nel ricordo degli avvenimenti di cui era stato spettatore o protagonista, gli ultimi anni della sua vita, ormai dedicata unicamente a pratiche di pietà. Morì, dopo breve malattia, nell'agosto del 1542 e fu sepolto in S. Marco nella stessa tomba del Pico.
Fonti e Bibl.: Fonti assai interessanti sono le tre redaz. di una biogr. del B. in Firenze, Bibl. Nazionale Centrale, II. I. 91; Ibid., Bibl. Maruc. A. CXXXVII; Arch. di Stato di Firenze, cod. Gianni, n. 43 (Arch. Leonetti Mannucci Gianni), opera, secondo la Re, di Antonio Benivieni. Inoltre: M. Poccianti, Catalogus Scriptorum Florentinorum, Florentiae 1589, p. 80; A. Zilioli, Istoria de' poeti ital., Venezia 1630, p. 163; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, pp. 299 s.; G. M. Crescimbeni, Dell'istoria della volgar poesia, II, Venezia 1730. pp. 330-332; F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d'ogni poesia, II, Milano 1741, p. 218; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 860-864; P. Villari, La storia di G. Savonarola, Firenze 1898, I, pp. 81. 154, 337, 438, 504, 505, 509, 528; II, pp. 15. 239, CLVII, CCII, CCXXX, CCLXI, CCLXVII; M. Barbi, Dante nel Cinquecento, in Ann. della R. Scuola Norm. Sup. di Pisa, XIII, Filos. Filol. VII (1890), pp. 23-25 (anche sotto il titolo Della fortuna di Dante nel secolo XVI, Pisa 1890, pp. 23-25); E. Percopo, Una tenzone su Amore e Fortuna fra Lorenzo de' Medici, P. Collenuccio, il Poliziano e G. B., in Rass. critica della lett. Ital…, I (1897), pp. 9 ss., 42 ss.; A. Della Torre, Storia dell'Accad. platonica di Firenze, Firenze 1902, pp. 2, 23, 36, 691 ss., 759, 760, 762, 765, 766, 783; A. Pellizzari, Un asceta del Rinascimento (Della vita e delle opere di G. B.), in Giorn. stor. e letter. della Liguria, VII (1906). pp. 3-70; C. Re, G. B. fiorentino..., Città di Castello 1906; Id., Un poeta tragico fiorentino della seconda metà del sec. XVI: Antonio Benivieni il giovane, Venezia 1906; P. Fattibene, Versi inediti di G. B., in Giorn. stor. d. letter. ital., LIII (1908), pp. 171-172; J. Flechter, Benivieni's ode of love and Stenser's Foure Hymmes, in Modern Philology, VIII (1910-11), pp. 545-60; P. Toynbee, Dantés "Convivio" in some Italian writers of the Cinquecento and incidentally of the title of the treatise, in Studi dedicati a F. Torraca, Napoli 1912, pp. 205-232; E.Giorgi, Le più antiche bucoliche volgari, in Giorn. stor. d. letter. ital., LXVI (1915), pp. 140-152; A. Amati, Cosimo I e i Frati di S. Marco, in Arch. stor. ital., LXXXI (1923), p. 238; J. Schnitzer, Savonarola, I-II, Milano 1931, passim;D. Giannotti, Lettere a Piero Vettori, a c. di R. Ridolfi e C. Roth (intr. di R. Ridolfi), Firenze 1932, pp. 5, 9-10; L. Tonelli, L'amore nella poesia e nel pensiero del Rinascimento, Firenze 1933, pp. 20 ss., 307-309; G. Semprini, La filos. di Pico della Mirandola, Milano 1936, pp. 18. 27, 31, 34, 86, 89, 99, 104, 136; E. Garin, Giovanni Pico della Mirandola,Firenze 1937, pp. 4, 6, 14, 17, 18, 29, 30, 41, 48, 50, 51, 73. 84, 85, 91, 99. 121, 228; E. Gombrich, Goethe's "Zueignung" and Beninvienis "Amore", in Journal of the Warburg Institute, I (1937-38), pp. 331-339; E. Garin, Marsilio Ficino, G. B., Giovanni Pico, in Giorn. critico della filos. ital., XXIII, 1-2 (1942), pp. 93-99; Id., La Filosofia, Milano 1947, I, pp. 354, 362, 363, 364, 367, 383, 385; Id., L'umanesimo ital., Bari 1952, pp. 144 ss.; R. Ridolfi, Vita di G. Savonarola, Roma 1952, I, pp. 51, 63, 64. 69, 148, 192, 229, 288, 392; II, pp. 102, 231; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1956, pp. 252, 392-393, 508; P. O. Kristeller, Studies in Renaissance thought and letters, Roma 1956, pp. 102, 249, 291. 303, 324, 328-330; G. Saitta, Il Pensiero ital. nell'Umanesimo e nel Rinascimento. I. L'Umanesimo, Firenze 1961, pp. 590, 616; E. Garin, La cultura filos. del Rinascimento ital., Firenze 1961, pp. 141, 180 s., 186, 205, 214, 218-219, 231, 249, 261, 266, 287 s., 336; G. Ridoffi, G. B. e una sconosciuta revisione del suo canzoniere, in Belfagor, XIX (1964), pp. 213-224.