NEGRI, Giovenale
NEGRI, Giovenale (in religione Girolamo). –Nacque a Fossano (Cuneo) nel 1496 da famiglia della nobiltà locale.
Cambiò il nome Giovenale in Girolamo entrando nell’Ordine degli eremitani di s. Agostino, dove fece professione solenne dei voti il 27 marzo 1517. La sua cultura teologica e una predicazione orientata alla riforma della Chiesa gli suscitarono consensi e opposizioni e produssero anche effetti involontari di proselitismo protestante: esemplare il caso di Celio Secondo Curione che dall’ascolto delle sue prediche a Torino nel 1523-24 ricavò l’impulso ad accostarsi agli scritti di Martin Lutero e di Ulrich Zwingli. Fu così che intorno alla sua inquieta personalità si moltiplicarono accuse e sospetti di eresia. Il generale dell’Ordine Girolamo Seripando, che gli aveva rinnovato la licentia praedicandi nel capitolo generale di Milano del 1540, dovette occuparsi di lui nell’ottobre 1543, quando Negri dopo aver trascorso alcuni anni al di fuori dell’Ordine chiese di tornarvi, promettendo pace e obbedienza. Seripando accolse la domanda, ma invitò il vicario alla sorveglianza nei confronti di un uomo che, a suo dire, poteva giovare ma anche nuocere: la libertà con cui il frate denunziava le colpe della Chiesa non era più tollerata.
Da alcuni capitoli fortunosamente conservati di un suo libro (Aaron, sive de institutione christiani pontificis) si capisce perché l’autore fosse malvisto e perché l’opera rimanesse inedita.
Per invito fattogli nel 1542 da Gian Battista Provana, vescovo eletto di Nizza, Negri dedicò il libro alla definizione del tipo ideale di pontefice, intendendo così nello stesso tempo i vescovi e il papa. Dei 60 capitoli originari ne sono giunti solo i primi dieci e parte dell’undicesimo, insieme con la dedica a Provana, datata Fossano 23 gennaio 1543, e alla risposta del vescovo del successivo 5 marzo. Il padre Giacinto Della Torre, che lesse l’opera nella seconda metà del Settecento, la descrisse come uno scritto dove si affrontavano con una certa libertà di pensiero questioni come l’autorità della Chiesa, le ordinazioni dei vescovi, il valore della Messa, la necessità della confessione, le devozioni ai santi e alle sacre immagini.
Seguendo il modello melantoniano della teologia positiva di impianto umanistico, il piccolo trattato si articola in brevi capitoli costruiti intorno a brani dell’Antico Testamento, degli Atti degli Apostoli e delle epistole paoline. L’autore vi si fa interprete di una domanda di riforma morale e disciplinare del clero e del popolo cristiano rivolta ai vescovi-pastori affinché combattano le superstizioni e gli abusi. Il modello del buon vescovo è ricavato dall’esempio di vita e di costumi offerto da Aronne, la gloria del sacerdozio mosaico. Tra i contemporanei, sono citati i nomi di Girolamo Vida e Gian Matteo Giberti. Negri si dichiara favorevole all’elezione dei vescovi, incluso quello di Roma, con voto popolare: a suo avviso, col passaggio di tale potere nelle mani del pontefice romano si era diffusa la simonia, con la compravendita dei benefici ecclesiastici, le pensioni, le riserve, i diritti di regresso, e al posto di Pietro era subentrato Simone mago. Bisognava dunque tornare al metodo antico di elezione di ogni membro del clero: era in quel modo che era stato eletto vescovo il non ancora battezzato Ambrogio. Quanto alla questione della castità sacerdotale, il frate si dichiarava favorevole a un decreto conciliare che ratificasse il diritto dei sacerdoti di sposarsi. Non mancavano critiche al papa che non scomunicava i sovrani che si alleavano con i turchi, come aveva fatto Francesco I. Vi si leggeva anche una vigorosa filippica contro chi divideva la Chiesa, diretta non contro Lutero o i suoi imitatori come si potrebbe immaginare, ma contro gli ordini religiosi e le confraternite colpevoli di combattersi fra di loro e di fondarsi sulle loro regole più che sul sangue di Cristo. Frati e monaci vi erano accusati di corruzione e di avarizia per la pretesa di vivere di elemosine disprezzando il lavoro manuale; il clero secolare, secondo Negri, era litigioso, tirannico e del tutto ignorante delle Sacre Scritture. Quanto ai vescovi, lontani dalle loro diocesi, erano tali solo in apparenza, portando la mitria ma senza il pastorale. Su questo sfondo l’elezione di Provana era per Negri il segno che Dio voleva cominciare a portare rimedi adatti a tempi e in particolare alle necessità dello Stato sabaudo, ora in preda alla peggior feccia di ladroni, stupratori, sacrileghi e bestemmiatori.
Il nome di Negri comparve di nuovo nei registri del generale alla data 2 gennaio 1546 con l’accusa di eresia. Seripando inviò sul suo conto una relazione al cardinale Marcello Cervini, non pervenuta. Non sono rimasti altresì un’opera che figura tra gli scritti attribuitigli dai biografi – dal titolo eloquente di Apologiapro tribus propositionibus S.P. Augustini ab haereticis impugnatis – redatta intorno al 1547, probabilmente per dare prova della sua ortodossia, e il testo, forse pubblicato a stampa, di una disputa col riformato Michele Bonelli.
Resta invece il trattato sulla presenza reale di Cristo nell’eucarestia, pubblicato nel settembre 1554: De admirando mysterio et Christo adorando in Eucharistia, libri quattuor. Il sottotitolo – Contra haereses. Omnia sub iudicio Ecclesiae – mostra la volontà dell’autore di obbedire alla sollecitazione che gli era giunta dal nuovo generale degli agostiniani Cristoforo Patavino di scrivere un libro che cancellasse la macchia di eresia dal proprio nome. Tuttavia Negri non adottò lo stile aggressivo della controversistica e non rinunciò a difendere le sue idee: pur rifiutando le dottrine dei riformatori protestanti non attenuò la durezza delle critiche alle carenze morali e disciplinari del clero cattolico. La materia teologica consiste nella critica delle tesi calviniste contenute nell’opera Annotomia della Messa (s.l. 1552) uscita a stampa sotto il falso nome di Antonio d’Adamo: Negri non ignorava che dietro quel nome si celava il suo antico confratello Agostino Mainardi. E si mostrava ben informato della discussione suscitata dal recente caso del rogo di Michele Serveto a Ginevra quando sosteneva che, a suo avviso, non con la violenza dei roghi e con l’aggressione dottrinale si doveva rispondere agli eretici bensì con una seria e profonda riforma della Chiesa.
L’opera è costruita in forma di dialogo tra due protagonisti, l’ortodosso Eusebio e l’eretico Ircino (che ha i tratti di Martin Butzer). Affrontando la questione teologica della presenza reale del Cristo nell’eucarestia Negri vuole dare un esempio di come a suo avviso si debbano affrontare i dissensi dottrinali, cioè col dialogo. Contro Ircino, Eusebio difende la liceità del ricorso alla forza ma solo come rimedio estremo dopo il fallimento di ogni altro tentativo. E ricorda che proprio in quell’anno a Ginevra gli eretici hanno mandato a morte un certo «Cerveto» per cui devono ammettere che quello stesso metodo poteva essere usato contro di loro.
Anche in questo contesto, pagato il suo tributo a chi gli chiedeva una dichiarazione di ortodossia, Negri tornò a sostenere le sue proposte di riforma relative a scelta e preparazione dei ministri della parola, conferimento dei benefici ecclesiastici, lotta contro le superstizioni. Era più che sufficiente perché contro l’autore si levassero accuse di eresia insistenti e diffuse. A quanto racconta Donato Calvi (Delle memorie istoriche della Congregazione osservante di Lombardia..., 1669, pp. 333 s.) Negri fu denunziato «come sospetto nella fede, appresso la suprema Romana Inquisitione, onde poi l’anno tutto 1556 si trovò in un mare di travagli immerso, citato, processato, perseguitato, sospeso da gl’essercitii dell’insegnare, del disputare, del predicare». Di questa persecuzione si lamentò in una lunga lettera al cardinal Giacomo dal Pozzo del 14 aprile 1557, conservata in copia nell’Archivio romano dei gesuiti (Ital., 108, cc. 17r-18v, segnalata da Scaduto, 1959, pp. 72 s. n. 82). Lo difese il vicario vescovile Giuseppe Parpaglia, il quale scrisse all’arcivescovo di Torino Cesare Usodimare Cybo, allora in corte a Roma, per informarlo che l’agostiniano era stato scelto dal Consiglio regio come ‘missionario generale’ (cioè senza limitazioni di luogo) presso i Valdesi, sottolineando la stranezza di una situazione in cui «costì sii perseguitato per conto d’eresia, e qua facci conoscere a tutto il paese con opere, e vivi effetti che sii il più caldo diffensore delle sante constitutioni catoliche, e vero persecutor de gl’eretici» (cit. in Calvi, 1669, pp. 333 s.). Nella lettera si raccontava la vicenda dell’eretico Michele Bonelli «ripreso, processato, et astretto all’abiuratione publica in assistenza e publica disputatione del buon Padre» (ibid.). Si citavano a testimoni i calvinisti affermando che c’erano «lettere scritte in Geneva di quest’anno, che chiamano questo buon frate il corvo, e can rabido» (ibid.); e si chiedeva all’arcivescovo di «mandar a Girolamo un’ampla, et longa licenza di sua Santità, o del R.do commissario della Sagra Inquisitione, della quale se ne possa servire a utile, et beneficio della fede catholica» (ibid.).
La vicenda si chiuse sotto il pontificato di Pio IV, con una soluzione tipica della politica anticarafesca del nuovo pontefice: il caso fu demandato al tribunale ordinario del nunzio evitando di costringere l’imputato a consegnarsi nelle mani della congregazione romana dell’Inquisizione. A favore di Negri intervennero Vida e il gesuita Antonio Possevino, il quale, in una lettera al generale Diego Laínez del 28 aprile 1560 (edita da Scaduto, 1959, pp. 113-117) invocò una chiusura della vicenda che non creasse scandalo e non esponesse Negri a umiliazioni tali da istigarlo ad apostatare dalla fede cattolica. Possevino assicurava comunque che non c’era ragione di temere una cosa del genere da un uomo come l’agostiniano che stava dedicandosi alla polemica contro gli eretici e dopo il De admirando mysterio aveva composto una lunga lettera contro Pietro Martire Vermigli. Il vescovo di Ginevra e primo nunzio di Savoia Francesco Bachod istruì il processo raccogliendo attestati e testimonianze intorno all’accusato ed esaminando i suoi scritti, tra i quali un’opera appena composta contro i Valdesi per ordine del duca di Savoia. Il 12 marzo 1561 a Vercelli fu redatta la sentenza conclusiva: l’imputato fu riconosciuto innocente dall’accusa di aver macchiato di eresia il marchese di Saluzzo e l’intero Marchesato, e si proibì a chiunque di tornare a molestarlo.
Quanto alla missione tra i Valdesi, il nome di Negri era stato proposto nel 1559 da un consigliere di Emanuele Filiberto, Ottaviano d’Osasco, che aveva suggerito anche la convocazione di un concilio provinciale al quale invitare rappresentanti degli eretici. Di fatto, la cosa si risolse in una spedizione armata con un inquisitore per accogliere le abiure, cui Negri non partecipò. Il suo parere sulla questione, esposto in una missiva al duca del 22 marzo 1560 (Claretta, 1876, pp. 467 s.), furono una vigorosa contestazione della pena di morte per gli eretici, sulla linea di quanto aveva già sostenuto nel De admirando mysterio, e la proposta di «un general concilio non per nove determinationi di cose pertinenti alla fede, ma per restituire i costumi e riti e ordinarli in la primitiva chiesa» (ibid.).
La carriera interna all’Ordine portò Negri a rivestire le cariche di priore nei conventi di Carignano, Saluzzo, Bargie, Villafranca, Cherasco, Savigliano, e per tre volte in quello di Torino (1551, 1561, 1568), fino all’elezione a vicario generale nel capitolo di Savigliano del 1573.
Morì a Savigliano nel 1580.
Opere: Aaron, sive de institutione christiani pontificis (un frammento del manoscritto originale dell’opera che comprende i primi dieci capitoli e parte dell’XI è stato reperito da Carlo Morra di Fossano, che ne prepara una edizione); Apologia pro tribus propositionibus S.P. Augustini ab haereticis impugnatis (ms. non reperibile); De admirando mysterio et Christo adorando in eucharistia, libri quattuor, Taurini apud Martinum Cravotum 1554.
Fonti e Bibl.: D. Gerdes, Specimen Italiae reformatae, Leiden 1765, p.12; D. Calvi, Delle memorie istoriche della Congregazione osservante di Lombardia dell’Ordine eremitano di s. Agostino, Milano 1669, pp. 331-335; G. Della Torre, Elogio di Girolamo N. agostiniano, in Piemontesi illustri, III, Torino 1783, pp. 115-165; G. Claretta, Spigolature sul regno di Carlo III duca di Savoia, in Arch. stor. italiano, XXIII (1876), pp. 467 s.; A.C. De Romanis, Il P. Girolamo N. da Fossano agostiniano 1496-1580, inBoll. stor. agostiniano, VI (1930), pp. 45-53; H. Jedin, Girolamo Seripando. Sein Leben und Denken im Geisteskampf des 16. Jahrhunderts, I, Würzburg 1937, p. 271; D.A. Perini, Bibliographia Augustiniana, III, Firenze 1929-38, p. 13; M. Grosso - M.F. Mellano, La Controriforma nella arcidiocesi di Torino (1558-1610), I, Città del Vaticano 1957, p. 47; R. De Simone, Tre anni decisivi di storia valdese. Missioni, repressione e tolleranza nelle valli piemontesi dal 1559 al 1561, Roma 1958; M. Scaduto, Le missioni di A. Possevino in Piemonte. Propaganda calvinista e restaurazione cattolica, 1560-1563, inArchivum Historicum Societatis Jesu, XXVIII (1959), pp. 113-117; F. Lauchert, Die Italienischen literarischen Gegner Luthers, Nieuwkoop 1972, pp. 675 s. (ed. anast., Freiburg i.B. 1912); D. Gutiérrez, I primi agostiniani italiani che scrissero contro Lutero, in Analecta Augustiniana, 1976, vol. 39, pp. 7-74; A. Prosperi, Echi italiani della condanna di Serveto: Girolamo N., in Riv. stor. italiana, XC (1978), pp. 233-261 (poi in Id., Eresie e devozioni. La religione italiana in età moderna, I, Roma 2010, pp. 87-115); Hieronymi Seripando O.S.A. Registra generalatus, 1538-1551, a cura di D. Gutiérrez, Roma 1982-90, I (1538-1540), p. 356; II (1540-1542), p. 254; III (1542-1544), pp. 238 s.; IV (1544-1546), p. 260.