GIOVE (Iuppiter)
Il sommo degli dei, nella religione dei Romani. Esso è per eccellenza la divinità del cielo e della luce, come dice il suo nome, derivato dalla radice indoeuropea di̯eu ("sfolgorare, risplendere"): nome che ricorre in gran parte degli antichi dialetti indoeuropei, perché non solo il greco Ζεὺς πατήρ corrisponde all'indiano Dyauḥ pitā e all'italico Iuppiter (umbro Iupater, Iuve patri; anche latino Diespiter), ma la divinità della luce si ritrova, denominata dalla stessa radice, anche nel celtico, nel germanico, nel lituano.
Questa considerazione, inoltre, dimostra che una divinità comune, etnica, del cielo luminoso si era già formata, al disopra delle molteplici singole divinità locali e particolari, e faceva parte del comune patrimonio mitico delle stirpi indoeuropee, prima che esse si dividessero e procedessero, in più progrediti stadî di cultura, all'elaborazione di distinte mitologie nazionali. D'altra parte, è probabile che questa.. di Giove debba riguardarsi come l'unica figura divina propriamente indoeuropea, poiché sembra ormai da respingere anche l'identificazione della greca Dione con l'italica Iuno (v. giunone) e l'identità del nome di Vesta (v.) con quello di Hestia non si spiega altrimenti che con la derivazione di questo da quello. Ma se identici risultano, nelle origini e nell'intima natura, lo Zeus greco e l'italico G., non v'è dubbio che le due figure divine si differenziarono poi notevolmente nell'ulteriore processo di sviluppo, nelle separate e definitive sedi delle due stirpi; e per tanto debbono essere separatamente illustrate.
Il Giove padre dei Latini è divinità comune, con lo stesso nome, a tutti i popoli italici, i quali conobbero pure tutti l'epiteto di Lucetius ("apportatore di luce") col quale a Roma i Salî invocavano il dio.
Il suo aspetto essenziale di divinità della luce si palesa evidentemente così nelle forme del rituale come nella figura del sacerdote addetto al suo culto. A G. erano infatti sacre le Idi (come a Giunone le Calende), perché nel tempo di plenilunio, in cui esse cadono, rimane fissa la luce nel cielo, così di giorno come di notte: pertanto tutti i giorni di Idi venivano considerati festivi (feriae Iovis) e in essi il sacerdote di G., il flamen Dialis offriva, con solenne pompa, al dio una pecora bianca (ovis Idulis), e in essi pure cadevano gli anniversarî delle dedicazioni dei suoi templi e si celebravano i giuochi a lui dedicati (Ludi Capitolini del 15 ottobre). Quanto al flamine diale, di cui si parla a suo luogo (v. flamine), basterà qui aver ricordato come la sua persona e tutti gli atti della sua vita e del suo sacerdozio fossero costretti in una quantità di minute e complicate norme, le quali culminavano nella proibizione (comune anche alla sua consorte, la flaminica diale) di feralia adtrectare, cioè di avere contatti di qualunque genere con persone, animali, oggetti, che avessero in qualsiasi modo attinenza con l'oltretomba, cioè col mondo delle tenebre.
Il dio del cielo fu, in Italia come in Grecia, il signore dei fenomeni atmosferici (tempestatium divinarum potens, auctor bonarum tempestatium). Da lui s'implorava, a Roma, la pioggia, con una supplicazione (aquaelicium), nella quale, sotto la guida dei pontefici, le matrone a piedi nudi e coi capelli disciolti e i magistrati in abiti dimessi ascendevano processionalmente il Campidoglio: donde il culto di Iuppiter Elicius, che aveva sede sull'Aventino, non lungi dal luogo ove si trovava il cosiddetto lapis manalis, una pietra a cui si attribuiva uno speciale potere magico nel rituale per sollecitare la pioggia. Da Giove proveniva anche il fulmine; onde gli epiteti di Fulgur (anche Iuppiter Fulgur Fulmen), e di Tonans; sotto il qual nome gli era dedicato un tempio nel Campo di Marte. Speciali riti richiedeva la caduta del fulmine; e, d'altra parte, era necessario distinguere il fulmine scagliato da G. e che cadeva sempre di giorno (fulgur Dium), dal fulmine che cadeva di notte, scagliato da Summano, dio del cielo notturno e ipostasi di G. stesso (fulgur Summanum). Alla divinità signora delle tempeste e dispensatrice della pioggia era naturale si attribuisse la protezione dell'agricoltura: onde lo invocava l'agricoltore e, al principio della seminagione, gli offriva un banchetto (daps; donde l'appellativo Iuppiter Dapalis), mentre, in città, gli se ne offriva, allo stesso scopo, uno più solenne o epulum (donde l'appellativo di Iuppiter Epulo). A G. erano consacrate anche le feste della vendemmia, che si apriva solennemente con l'intervento del flamine diale, e cioè le Vinalia rustica del 19 agosto; le Meditrinalia dell'11 ottobre, alla fine della vendemmia, quando si gustava per la prima volta il giovane mosto, al quale si attribuiva una speciale efficacia salutifera; le Vinalia priora, del 23 aprile, che coincidevano con l'introduzione del vino nuovo, della vendemmia precedente.
La concezione che faceva di G. la somma divinità del cielo, passando dal campo fisico in quello etico e politico, fu causa che venissero attribuite nuove e importanti funzioni al dio, riguardato come protettore del diritto e della fede data, come difensore dello stato e largitore di vittoria. G. è infatti il dio della lealtà e del giuramento (Diovis o Dius Fidius): sotto la sua tutela sono i giuramenti, non solo quelli scambiati fra privati, ma anche i giuramenti pubblici dei trattati, che si prestavano nel santuario capitolino di Iuppiter Lapis (v. oltre), presso il quale sorgeva anche un sacello della dea Fides, evidentemente essa pure un aspetto distinto del G. Fidio. In stretta relazione con G. Fidio, patrono della fede nei rapporti internazionali, stavano i Feziali (v.), le cui invocazioni erano rivolte a Giove Lapis, a Marte e a Quirino. Molto vicino a questo aspetto del dio è quello di G. protettore dei confini (Iuppiter Terminus); e l'altro di G., considerato come patrono del matrimonio contratto col più solenne rito religioso, quello della confarreazione (in sacris nihil religiosius confarreationis vinculo erat): alla cerimonia presiedevano il pontefice massimo e il flamine diale, e G. era considerato a essa presente, come testimone e mallevadore dell'indissolubilità del vincolo nuziale. Come divinità poliade, G., che esercita in cielo la sua potestà col fulmine e col tuono, è il dio della guerra e della vittoria: a lui si rendevano grazie dopo la vittoria, e il duce trionfatore dedicava in voto le spoglie del nemico ucciso (spolia opima) a G. Feretrius (da ferire, piuttosto che, come volevano gli antichi, dal feretrunt o carro su cui si trasportavano le spoglie). A questo stesso aspetto del dio si riferisce l'epiteto di Stator, col quale era invocato come quegli che dà all'esercito la forza di resistere all'urto nemico e lo preserva dal panico e dalla fuga.
Il culto di G. fu indubbiamente diffuso, fin da antichissima data, su tutti i colli di Roma; ma la religione ufficiale si concentrò ben presto nel culto del Giove del Monte Capitolino, dove, secondo la tradizione, Romolo aveva fondato la cappella di G. Feretrio; e l'antichità di questo sacrario era dimostrata dalla mancanza in esso di qualsiasi immagine del dio, il quale vi veniva invece adorato sotto il simbolo di una pietra focaia (silex): donde il suo nome di Iuppiter Lapis. Con questo santuario di Giove Capitolino erano connessi i Ludi Capitolini delle idi di ottobre, allestiti da un collegium Capitolinorum, formato dagli abitanti del colle.
Anche per le altre città del Lazio ci sono testimoniati culti di G., simili a quelli esaminati ora e fra loro indipendenti. Particolare importanza assunse lo Iuppiter Latiaris, venerato sul monte Albano e riguardato come protettore dell'antica lega latina, posta sotto la supremazia di Alba Longa; quando Roma prese il posto di Alba nella presidenza della Lega, seguitò a prestar culto a Giove Laziale, al quale fu dedicata una solenne festa, che si teneva, senza data fissa (feriae conceptivae), al principio dell'anno di carica dei consoli, durava quattro giorni ed era presieduta, in assenza dei consoli, da un dittatore nominato a questo scopo.
Ma frattanto, verso la fine dell'età regia e il principio della repubblica, andava sempre più emergendo in Roma il Giove del Campidoglio o, come fu allora chiamato, Iuppiter Optimus Maximus, venerato nel tempio capitolino (giorno anniversario della dedicazione il 13 settembre) insieme con Iuno regina e Minerva: la nuova triade che, sotto gli ultimi re, si andò sostituendo, probabilmente per influsso etrusco, a quella più antica di G., Marte e Quirino. Al tempio capitolino si recava il giovane romano, quando assumeva la toga virile; ivi sacrificava il magistrato prima di entrare in carica; là saliva in trionfo il generale vittorioso, e allora si celebravano in suo onore i Ludi Magni, i quali poi, resisi indipendenti dalla cerimonia del trionfo, furono dati regolarmente, dal sec. IV a. C. in poi, a cura degli edili curuli, col nome di Ludi Romani. Il santuario di G. capitolino divenne così il centro religioso e politico dello stato: là si conservavano, su tavole di bronzo, i trattati internazionali, e i doni e le dediche inviate da principi e da genti straniere al popolo romano. La triade capitolina divenne, specie nell'età imperiale, la rappresentante più cospicua della religione ufficiale di Roma; e i Campidogli (Capitolia) col sacrario delle tre divinità sorsero in tutte le città dell'impero. (V. tavv. LXXXIII e LXXXIV).
Bibl.: L. Preller-H. Jordan, Römische Mythologie, I, 3ª ed., Berlino 1881, p. 194 segg.; E. Aust, art. Iuppiter, in Roscher, Lex. der griech. u. röm. Myth., II, coll. 619-762; P. Perdrizet, art. Iuppiter, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités gr. et rom., III, pp. 691-713; C. O. Thulin, art. Iuppiter, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., X, coll. 1126-1144; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., Monaco 1912, p. 113 segg.; H. M. R. Leupold, La religione dei Romani nel suo sviluppo storico, Bari 1924.