GIOVANNINO de Grassi
Pittore, miniatore, scultore e architetto noto documentariamente per essere stato attivo presso la Fabbrica del duomo di Milano dal 5 maggio 1389 sino alla morte (5 luglio 1398). Dai documenti della fabbriceria milanese risulta l'esistenza di un fratello dell'artista, Paulino, suo compagno d'arte e collaboratore alla Fabbrica dal 3 ottobre 1395, poi citato una sola altra volta il 9 febbraio 1396. Anche un figlio di G., Salomone, fu assunto come ingegnere del duomo il 21 settembre 1398, ma era già morto nel dicembre 1400.Abbandonata l'identificazione ipotizzata alla metà del secolo scorso (Calvi, 1859) di G. con il pittore Giovanni da Milano (v.), le testimonianze della sua attività precedente non risalgono oltre il 1370 circa. Un quaderno pergamenaceo di disegni (Bergamo, Bibl. Civ. A. Mai, Cassaf. 1.21, già Delta 7-14), prevalentemente di animali, motivi decorativi e araldici, figure e immagini del repertorio cortese e con un alfabeto in minuscole gotiche corsive composte con figure d'uomini, animali ed esseri fantastici nel gusto della drôlerie (v. Alfabeto figurato), reca a c. 4v la scritta "Iohininus de Grassis designavit", non altrimenti interpretabile che come firma dell'artista (Cadei, 1984). Tra i disegni, che nel complesso costituiscono una delle testimonianze più significative delle fonti lombarde del naturalismo tardogotico (Pächt, 1950) e si scalano in un arco di tempo che arriva fino alla fine del sec. 14°, sono riconoscibili a G. solo quelli del primo dei quattro fascicoli di cui il taccuino si compone, più precisamente delle cc. 1-8r, dovendosi gli altri a seguaci, ma anche ad altri artisti contemporanei.I disegni di G., da considerarsi comunque il nucleo originario della raccolta, appaiono per ragioni stilistiche contemporanei o immediatamente precedenti all'inizio della decorazione dell'offiziolo Visconti di Modrone (Firenze, Bibl. Naz., B.R. 397), prima parte di un offiziolo in due volumi sfarzosamente decorato commissionato da Gian Galeazzo Visconti duca di Milano, che Toesca (1905; 1912) attribuì a G., avviando per primo la ricostruzione scientificamente attendibile della fisionomia stilistica e del corpus dell'artista. La data 1370 che compare nella scena della Presentazione al Tempio a c. 2r dell'offiziolo può sempre essere assunta come data d'inizio della decorazione (Arslan, 1963).Nei disegni del taccuino di Bergamo e nelle miniature dell'offiziolo oggi a Firenze si manifesta un artista già maturo, che ha attinto alla pittura lombarda della seconda metà del Trecento le qualità più caratteristiche di realistica osservazione della realtà naturale, di fluidità narrativa, sfrondandole di ogni impostazione monumentale in favore della scala ridotta, cromaticamente e linearisticamente preziosa, propria della miniatura, e potenziandole con il ricorso in un'estensione sino allora inedita allo studio di natura, soprattutto nella raffigurazione degli animali. Non contraddice questa intonazione peculiare dell'arte pittorica di G. il recentissimo recupero di una cospicua testimonianza della sua attività nel campo della pittura murale: la decorazione con figure di animali entro brani di paesaggio e con la scena della Vergine intenta a cucire assistita dal Bambino di una sala della Rocchetta dei Mantegazza a Campomorto, presso Siziano, tra Milano e Pavia (Mazzilli Savini, 1991; Rossi, 1991). L'interesse tutto particolare del reperto, oltre che nel rapporto strettissimo con i disegni del taccuino di Bergamo - non solo per gli animali, ma per la stessa Vergine, che elabora il 'modello' della suonatrice d'arpa a c. 3v del taccuino -, ai quali è evidentemente contemporaneo, sta nella galleria di finte architetture a trompe-l'oeil in veduta di sottinsù che inquadra le tabelle con gli animali e la scena sacra; essa documenta con una evidenza prima inedita la tangenza dell'arte pittorica di G. con la pittura monumentale lombarda nel secondo Trecento, ma nella discontinuità spaziale tra cornice architettonica e figurazioni, cui fanno da sfondo minute trame versicolori di quadrettature e tappezzerie fiorate proprie della miniatura contemporanea, ribadisce l'estraneità all'artista della tridimensionalità geometrica dello spazio pittorico che ancora conservava in Lombardia l'eredità giottesca. Vien fatto di pensare, per gli affreschi di Campomorto, alla collaborazione di G. con una sorta di quadraturista ante litteram.Costituisce un'estensione probabilmente attardata all'ultimo decennio del secolo di questo specifico versante più naturalisticamente intonato della creatività di G. la sua partecipazione all'illustrazione della Historia plantarum (Roma, Casanat., 459) con scene di genere e figure di animali (Cadei, 1985). La tecnica del disegno acquerellato più che della miniatura e lo stile sostanzialmente intento alla descrizione esaltano la vicinanza tra le illustrazioni della Historia plantarum e i disegni del taccuino di Bergamo (dal quale sono spesso ripresi modelli per gli animali) sin quasi a non fare avvertire la distanza cronologica.Ma, in progressivo intensificarsi nell'arco del pluriennale lavoro all'offiziolo Visconti di Modrone, ove l'impegno del miniatore-decoratore prevaleva nettamente su quello del disegnatore-illustratore, G. aveva innestato sul sostrato lombardo di partenza, già arricchito della conoscenza della miniatura boema del tempo di Carlo IV, componenti di linearismo aguzzo e sforbiciato, di accentuazione più irrealistica del colore, che dovettero corrispondere a contatti nel frattempo intervenuti con miniatori francesi attivi in Lombardia, come uno dei partecipanti alla decorazione del messale-libro d'ore di Parigi (BN, lat. 757; Arslan, 1963). Resta, dunque, sostanzialmente in ombra la formazione lombarda di G. anche per gli aspetti che attengono alle competenze di architetto, scultore, orafo e, come è stato recentemente riconosciuto, anche di maestro vetraio più tardi esplicate nel cantiere del duomo di Milano; ma le opere sin qui ricordate, corrispondenti al decennio 1370-1380 della sua attività, documentano passo a passo la creazione della variante autenticamente lombarda dello stile internazionale che nel giro dello stesso decennio coinvolgeva tutti i maggiori centri artistici europei in sostanziale affinità di intonazione tematica ed espressiva.Le oltre cinquanta menzioni dell'artista ricorrenti nei documenti della Fabbrica milanese (Annali, 1877; Appendici, 1883) ne disegnano la carriera all'interno del grande cantiere e ricordano esplicitamente un consistente elenco di opere, solo in piccola parte conservate o identificate. Si devono dare per definitivamente perdute tutte le pitture su supporto mobile che G. eseguì in un biennio tra il 1389 e il 1391, in cui operò come collaboratore esterno: un'immagine di s. Gallo per l'altare maggiore - forse quello dell'antica S. Tecla, che continuava a esistere e funzionare - nel 1389; due immagini indicate come 'maestà', quindi probabilmente della Vergine in trono, dipinte su tele fissate a telai di legno come addobbi per bussole di elemosine nel 1390; una terza immagine su tela bianca, ma in funzione di stendardo processionale, rappresentante Bonifacio IX, in occasione del giubileo indetto in quell'anno dallo stesso papa. Ancora il 16 settembre del 1396 G. veniva incaricato di dipingere un perduto mappamondo nella sagrestia settentrionale del duomo, mentre restano frammenti di una decorazione dipinta presso la sovraporta della stessa sagrestia da lui realizzata l'anno precedente (Rossi, 1994).Tra il marzo e il giugno 1391 G. avviò una figura in marmo, probabilmente il rilievo con Cristo e la samaritana al pozzo, menzionato in lavorazione l'agosto successivo, che si trova sopra il lavabo della sagrestia meridionale del duomo, ove è ricordato nel 1396, quando ancora a lui, con l'aiuto del fratello, toccò rifinirlo, insieme alle altre sculture dei lavabi e delle sovraporte di ambedue le sagrestie, con foglia d'oro, azzurro ultramarino e piccole componenti in metallo dorato. Mentre le sovraporte sono documentariamente accertate ad altri artisti, l'affinità nell'impostazione architettonica e nella qualità delle decorazioni delle nicchie dei lavabi, sormontate da alte ghimberghe gattonate, permette in ambedue i casi l'attribuzione a G., con il riscontro - soprattutto per il delicato rilievo di foglie abitate da angioletti nudi reggenti le lettere del motto pax che ciglia l'arcata del lavabo della sagrestia meridionale - che essi trovano anche in modi e motivi delle decorazioni miniate dell'artista. Nel lavabo della sagrestia settentrionale, le cui sculture sono state gravemente danneggiate per la collocazione nel sec. 17° di armadiature che normalmente lo nascondono (Ferrari da Passano, 1973), il rilievo con Dio Padre in posizione analoga a quella della samaritana, al centro della ghimberga, è ormai leggibile solo nel profilo. Non paiono potersi attribuire a G. le cinque teste umane e animali entro compasse, meglio conservate nella profondità della nicchia, che fungevano da bocche per l'acqua, il cui stile linearisticamente duro e polito come avorio contrasta con il morbido pittoricismo evocatore di profondità spaziale, ma anche vividamente descrittivo del rilievo della samaritana.Da quando G. venne assunto come architetto capo (inzignerius generalis), in un primo tempo (13 luglio 1391) per quattro mesi, stabilmente dal 6 dicembre 1391, le sue mansioni, pur molto varie, si specializzarono nel trattamento con oro e colori delle sculture decorative interne, spesso di altri artisti, e nel disegno architettonico. Numerosi furono i disegni per capitelli, in relazione al fatto che si deve a G. l'ideazione, esecuzione e messa in opera, tra il giugno e il dicembre 1393, del prototipo di capitello dei pilastri maggiori, identificabile (Cadei, 1969) in quello del secondo pilastro a sinistra all'ingresso del coro (corrispondente al nr. 83 della pianta numerata in uso alla Fabbrica del duomo di Milano). La formula del giro di nicchie disposte per accogliere statue, sormontate da alte ghimberghe a finti trafori e spartite da pilastrini cuspidati secondo l'articolazione ottagona dei pilastri, pur prevista sin dall'origine, come indica il disegno di sezione del duomo dell'architetto bolognese Antonio di Vincenzo, risalente al 1391 (Bologna, Mus. di S. Petronio), riceveva così definizione progettuale secondo una metrica stilistica che esplicitava i suggerimenti pittoricamente chiaroscurali della modellazione dei pilastri a morbide superfici inflesse. Ne raccoglieva l'eco la forma ridotta dei semicapitelli a muro di navate laterali interne e deambulatorio, in cui due ordini di archi inflessi, lobati e gattonati si sovrappongono, come in trasparenza, a fasci di membrature salienti dai fusti dei pilastri e la cui ideazione reca tutti i segni dell'inventiva di G. (Romanini, 1973).Carte consegnate a G. nel 1392 e 1395 per disegni di finestre dovettero riguardare precipuamente ideazione e messa in opera dei trafori dei due finestroni laterali del deambulatorio, ove il motivo centrale degli anelli concentrici di vesciche di pesce, alternativamente centripete in senso orario e centrifughe in senso antiorario, impostava una trina mobile e continua distesa entro le enormi luci, sintetizzando spunti di provenienza boema e di flamboyant parigino introdotti nel cantiere milanese da Nicolas de Bonaventure e Heinrich III Parler di Gmünd, autori di precedenti progetti non realizzati per i due finestroni.Momento saliente del ruolo progettuale di G. fu il disegno in scala della sezione trasversale del duomo, commissionato a lui e a Giacomo da Campione il 22 novembre 1394, probabilmente come base di discussione e contrasto alle critiche avanzate da Ulrich von Ensingen al progetto di alzato del duomo, approvato il 1° maggio 1392 da una commissione di esperti e fabbricieri cui G. aveva partecipato come architetto in carica; quel progetto non venne più modificato, né allora né in nessuna delle numerose e accese discussioni successive. È verosimile che il disegno di sezione dovesse riproporne i termini, così come certamente li riproponeva il modello in legno che G. riuscì a portare quasi a fine. Se ne ha notizia dopo la sua morte, quando (28 dicembre 1398) l'amministrazione della Fabbrica del duomo ne disponeva il sollecito completamento e la conservazione, affinché restasse come riferimento vincolante per chiunque sarebbe stato incaricato di guidare il prosieguo della costruzione. Una sua traccia diretta è stata reperita (Cadei, 1991) nella coincidenza sistematica, a livello di disegno generale e di singoli dettagli, tra il prospetto di guglia che decora il frontespizio del libro delle consuetudini della cattedrale milanese, noto come Beroldo (Milano, Bibl. Trivulziana, 2262), miniato da G. e aiuti nel contesto delle mansioni svolte alla Fabbrica del duomo, e il corpo del c.d. ostensorio gotico di Voghera (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Applicata), oreficeria milanese del primo Quattrocento. In ambedue i casi è presumibile venga riflessa la struttura del tiburio del duomo previsto in quel modello.La documentazione relativa a disegni architettonici e interventi progettuali prospetta in modo preciso la qualità del contributo di G. all'architettura del duomo di Milano, entro il quadro normativo dell'articolata distribuzione di competenze caratteristica di un grande cantiere tardogotico: mentre non autorizza ad attribuirgli la paternità esclusiva e nemmeno preminente dei parametri specificamente architettonici, dimensionali e statici delle progettazioni collegiali del maggio 1392, identifica in lui l'interprete e depositario principale, finché visse, dell'idea spaziale che le sottendeva. Con l'ideazione di momenti salienti dell'economia spaziale e strutturale soprattutto interna, come i finestroni absidali e più ancora i giganteschi capitelli abitati da statue, G. dava forma a un postulato inespresso di quelle progettazioni, risolvendo in sequenze eminentemente decorative nodi strutturali primari e con ciò concorrendo a sciogliere il rigore 'razionalista' della costruzione gotica in fluida, ombrosa continuità spaziale, potenzialmente infinita. Finestre, capitelli, forme dei pilastri fissate durante il periodo della sua direzione e spesso su suo progetto, il modo stesso di colorare e dorare le fioriture figurate e ornamentali dell'architettura sedimentarono in costanti che avrebbero segnato la plurisecolare vicenda costruttiva della cattedrale milanese, avendone costruito un'immagine tanto caratterizzata che nessuna delle epoche successive ebbe più la forza di modificarla alla radice.Tale immagine è trasferita, quasi con valore di manifesto, nella ornamentazione miniata del Beroldus, la cui copia da un esemplare antico conservato presso la Fabbrica fu affidata il 16 aprile 1396 allo scriba Andriolo de' Medici da Novate e la cui decorazione, terminata con incredibile rapidità al momento della morte di G., veniva pagata al figlio Salomone il 13 agosto 1398. La qualità dell'esecuzione fa presumere che G. si sia limitato a dirigere una nutrita bottega, elemento trainante della quale era il figlio. Il rapporto specifico, coinvolgente anche il contenuto iconografico, tra la decorazione del Beroldus e l'architettura del duomo risulta evidente dal repertorio di forme architettoniche sistematicamente usato nella composizione di iniziali e fregi marginali. In quella singolare congiuntura di contiguità tra architettura e miniatura, determinata dall'identità della forma della cattedrale milanese che si faceva esponente delle sue tradizioni e della sua liturgia, nasceva anche un nuovo stile di decorazione del manoscritto destinato ad affermarsi nella miniatura lombarda di fine Trecento. Tramite essenziale fu la decorazione della seconda parte dell'offiziolo visconteo nota come Landau Finaly (Firenze, Bibl. Naz., Landau Finaly 22), cominciata da Salomone dopo la morte del padre, ma in gran parte condotta e portata a termine per commissione di Filippo Maria Visconti da un gruppo di miniatori tra cui primeggiò Belbello da Pavia (Cadei, 1984), assicurando vitalità a quello stile fino al quinto decennio del 15° secolo.A. CadeiAlle opere documentariamente certe o attribuite con maggiore verosimiglianza e unanimità a G. si affianca un certo numero di opere controverse e variamente assegnate a lui, al suo ambito o ad altri artisti a lui contemporanei.Già Toesca (1912) aveva individuato l'affinità della decorazione di una Bibbia in quattro volumi, eseguita per la Certosa di Pavia (Milano, Bibl. Naz. Braidense, AE.XIV.24-27), con le meno belle tra le miniature eseguite dalla bottega di G. nell'offiziolo Visconti (Firenze, Bibl. Naz., B.R. 397; Landau Finaly 22), e proponeva di attribuire le immagini al figlio di G., Salomone de Grassi. Lo studioso segnalava inoltre un gruppo di manoscritti assegnabili ad ambito giovanniniano: il De remediis utriusque fortunae di Petrarca (Milano, Bibl. Naz. Braidense, AD.XIII.30); la Legenda ss. Haymonis et Vermondi (Milano, Bibl. Trivulziana, 509/2); un breviario (Milano, Bibl. Naz. Braidense, AG.XII.4); il Commentarium in feudorum usus di Baldo degli Ubaldi (Parigi, BN, lat. 11727); le Postillae in Genesim di Nicola di Lira (Parigi, BN, lat. 364). In relazione a queste attribuzioni, Cadei (1984, pp. 18, 195-196) ha indicato che solo la Bibbia realizzata per la Certosa di Pavia si può effettivamente collocare nell'ambito di un influsso diretto di Giovannino.Prendendo in esame la pittura lombarda di fine Trecento, Toesca (1912) avvicinava alle opere di G. e di suo figlio l'affresco staccato con S. Eufemia proveniente da S. Maria dei Servi a Milano (Pinacoteca di Brera; già Mus. della Scienza e della Tecnica), il dipinto con la Madonna in trono con il Bambino tra santi nella conca di un'absidiola nel transetto destro del duomo di Piacenza, la decorazione pittorica di una custodia per reliquie (Piacenza, Mus. Civ.) e i pannelli ad affresco con S. Caterina e con la Maddalena in S. Francesco a Lodi. Allo stesso ambito, e più genericamente alla miniatura di fine Trecento, è stato avvicinato il ciclo di affreschi con la Vita di s. Caterina dall'ex chiesa di S. Lorenzo a Piacenza (Mus. Civ.; Matalon, 1963, pp. 405-406).Direttamente alla mano di G. sono state attribuite le prime carte del Tacuinum sanitatis di Liegi (Bibl. Univ., 1041, cc. 1v-9v), eseguito a partire dal 1380; il resto del codice sarebbe dovuto alla bottega del maestro, alla cui influenza viene collegato anche il Theatrum sanitatis di Roma (Casanat., 4182; Cogliati Arano, 1973, pp. 22-34).Alla bottega di G. sono invece state assegnate due tavole: la prima raffigurante la Madonna in trono fra i ss. Giovanni Evangelista e Antonio Abate e una figura di un donatore aggiunta, recante un'iscrizione dedicatoria datata 1452, anch'essa aggiunta, con il nome di Matteo de Attendoli Bolognini (Raleigh, North Carolina Mus. of Art, Kress Coll.); la seconda, di piccole dimensioni, ancora più vicina ai modi di G., con S. Gaudenzio (Milano, Mus. Poldi Pezzoli), databile poco prima dell'altra, verso il 1390 (Todini, 1984, pp. 54-56).Un riesame del corpus delle opere attribuite alla bottega di G. ha ripreso la questione dell'individuazione della mano di Salomone nell'offiziolo Visconti e nel Beroldus (Milano, Bibl. Trivulziana, 2262), assegnando al figlio di G. il primo volume della Bibbia Braidense; è stata proposta inoltre l'attribuzione a Salomone di un'inedita tavoletta con la Trinità e angeli apparsa sul mercato antiquario parigino (Bollati, 1987).Si sono inoltre accolti nell'ambito della bottega dei de Grassi una miniatura ritagliata con Cristo che risana il cieco (Firenze, Fond. Longhi; La fondazione Roberto Longhi, 1980), una miniatura con la Presentazione al Tempio (Bologna, Mus. Civ. Medievale; Volpe, 1976), il frontespizio del De consolatione philosophiae di Boezio (Cesena, Bibl. Com. Malatestiana, D.XIV.2) - assegnato da Salmi (1955) a Michelino da Besozzo -, due figure femminili nel castello di Pavia (Civ. Mus.) e una tavoletta con Madonna tra santi (Raleigh, North Carolina Mus. of Art, Kress Coll.; Bollati, 1987).Le proposte di attribuzioni più recenti riguardano principalmente affreschi: quello con lo Sposalizio mistico di s. Caterina sull'arco della cappella di S. Bernardino nella chiesa di S. Francesco a Lodi, assegnato a maestranze direttamente dipendenti da G. (Bandera Bistoletti, 1987); un affresco frammentario raffigurante la Comunione mistica di s. Caterina da Siena, staccato dal coro alto di S. Eustorgio a Milano, le cui qualità formali, oltre a confronti con il taccuino di Bergamo (Bibl. Civ. A. Mai, Delta 7-14, ora Cassaf.1.21) e con il Beroldus, indicano G. come possibile autore (Gatti Perer, 1988); alcuni frammenti di affreschi con santi (Sigismondo, Giorgio, Cristoforo e Caterina) ancora visibili sulla sovraporta della sagrestia settentrionale del duomo, la cui decorazione venne affidata a G. il 25 luglio 1395 (Rossi, 1994).Sono stati segnalati alcuni documenti inediti relativi a G., tra i quali risultano di particolare interesse quelli che lo attestano attivo tra il settembre e l'ottobre 1396 alla realizzazione delle vetrate della sagrestia settentrionale, testimoniando un'attività di G. finora sconosciuta (Rossi, 1994).F. Manzari
Bibl.:
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