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Giovanni XXII Papa

di Raoul Manselli - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Giovanni XXII Papa

Raoul Manselli

Originario di Cahors, Jacques Duèse nacque di ricca famiglia borghese verso il 1244. Iniziati i suoi studi nella città natale, li concluse a Montpellier, quando aveva già abbracciato la vita ecclesiastica: fu successivamente arciprete di S. André di Cahors, canonico di Saint-Front di Périgueux e di Albi, poi (1300) vescovo di Fréjus. Per breve tempo cancelliere di Carlo II d'Angiò (1308-1309), passò poi alla diocesi di Avignone (18 marzo 1310), donde venne chiamato da Clemente V a far parte del collegio cardinalizio come cardinale prete del titolo di S. Vitale (24 dicembre 1312) e poi come cardinale vescovo di Porto (maggio del 1313). Prese perciò parte al conclave di Carpentras e ne visse le drammatiche vicende col successivo suo trasferimento a Lione, dove, in seguito a un ultimo compromesso fra i tre partiti in cui era diviso il sacro collegio, venne eletto pontefice il 7 agosto 1316.

All'elezione non era certo stata estranea la pressione politica, specialmente di Roberto d'Angiò e, insieme, il pensiero che il pontefice, assai avanti negli anni, potesse essere un ‛ papa di transizione '. Superati gravi contrasti in seno alla stessa corte pontificia. G. dovette affrontare i gravi problemi politici e religiosi, che il suo predecessore gli aveva lasciati sul tappeto. Rivelando allora un'energia insospettata egli diresse la sua attività, spesso travolgente, nelle direzioni più diverse, come al riordinamento degli uffici ecclesiastici all'interno della corte pontificia, alla sistemazione delle questioni religiose pendenti, quali la soluzione del contrasto all'interno dell'ordine francescano, e la discussione di problemi teologici e morali (visione beatifica ed ereticità o meno della magia) e infine ai problemi politici in Italia e in Germania.

Va detto che non sempre quest'energia venne accompagnata da un sufficiente equilibrio di giudizio, né sempre fu immune da ostinazioni senili. La stessa innegabile buona volontà di raggiungere soluzioni giuste e vere non sempre fu sorretta da un'umiltà pronta ad accettare anche le idee contrarie alle proprie.

Lo si vide soprattutto a proposito dei contrasti in seno all'ordine francescano. Senza riuscire a comprendere i motivi profondi che opponevano la comunità agli spirituali (v. FRANCESCANESIMO), egli credette di poter superare le posizioni delle due parti, affermando per entrambi il dovere dell'obbedienza e finendo col dare ragione unicamente alla comunità: ne venne così la tragica vicenda degli spirituali e dei beghini in Francia meridionale e la dispersione degli spirituali d'Italia. Emerse allora la questione della povertà, su cui il papa organizzò un vero e proprio referendum fra le personalità della curia, i vescovi e i teologi; ma non tardò a manifestare il suo malumore a quanti non risposero nel senso a lui gradito, mettendo da parte, in seno al sacro collegio, il cardinale Vidal du Four, e deponendo l'arcivescovo di Salerno, perché entrambi avevano difeso la povertà secondo la rigorosa tradizione minoritica.

Ancora in conseguenza di un referendum G. affidò il compito di perseguire gli atti di magia agl'inquisitori per le implicazioni possibili fra magia ed eresia, iniziando così una persecuzione destinata a durare secoli. Nella sua esigenza di ordine il papa cercò di affrontare, sul piano politico, la situazione romana e italiana, per cui poteva solo contare sull'appoggio di Roberto d'Angiò. Questo riordinamento dell'Italia doveva essere la condizione preliminare del suo ritorno a Roma; nel frattempo egli scelse come residenza provvisoria Avignone, già sua diocesi, politicamente collocata fuori del regno di Francia, nella contea di Provenza, che era governata da Roberto d'Angiò. Mandò quindi più volte negoziatori e ambasciatori per cercare di riportare la pace a Roma sconvolta dalla prosecuzione delle lotte tra Colonna e Caetani o nell'Italia centrale, dilaniata dalle guerre tra Pisa, Lucca e Firenze con le effimere signorie di Uguccione della Faggiola e di Castruccio Castracani o, infine, nella pianura padana ove era addirittura preoccupante il disordine provocato dalla politica espansionistica dei Visconti in Lombardia o degli Scaligeri nel Veneto. Tale situazione, che per decenni fu appunto caratterizzata da un'instabilità permanente, venne complicata e aggravata dal contrasto politico, ma con molti aspetti religiosi, tra lo stesso papa e Ludovico il Bavaro, re di Germania e re dei Romani. Ne venne, com'è noto, la spedizione in Italia del Bavaro, la sua incoronazione a Roma con l'intervento di Marsilio da Padova e, insieme, l'elezione dell'antipapa Niccolò V (Pietro di Corbara). G. mandò allora in Italia Bertrando del Poggetto, che riuscì a obbligare Ludovico il Bavaro a tornare in Germania, ma vanamente cercò di ottenere la pace nella pianura padana. Teso in questo sforzo, il papa v'impiegava tutte le sue energie, quando la morte lo raggiunse il 4 dicembre 1334.

Personalità complessa e per molti aspetti difficile, G. non ha ancora trovato uno storico che gli renda pienamente giustizia: superstizioso (ebbe autentico terrore della magia) più che religioso, giurista esperto più che pastore di anime, è certo uno dei principali responsabili dello iato che venne aprendosi tra la gerarchia ecclesiastica e la massa dei fedeli nel corso del secolo XIV. Ciò non sfuggì alla sensibilità religiosa di D., che dà di G. due giudizi di un'estrema severità e durezza. Il primo ha luogo nel cielo di Giove, quando, dopo aver descritto le trasformazioni della m finale della parola iustitiam nell'aquila, il poeta invoca la giustizia di Dio contro la corte pontificia ond'esce il fummo che 'l tuo raggio vizia (Pd XVIII 120). Queste colpe sono ricondotte a quelle stesse che già Gesù Cristo aveva sferzato e colpito nei venditori del tempio e che sono condannate con tanta maggiore asprezza perché commesse nella chiesa: il tempio che era stato murato di miracoli e di martiri. Con un procedimento non insolito nella Commedia e più volte adoperato con efficacia proprio in relazione al papato e alla Chiesa (invettiva contro i simoniaci in If XIX, invettiva di s. Pietro in Pd XXVII), D. invoca la preghiera dei santi tutti del Paradiso contro il malvagio esempio della corte papale, che viene, con trapasso vivo e commosso, fatto culminare nel papa stesso che distribuisce scomuniche non per motivi religiosi, ma politici, come arma di guerra invece delle spade: di fronte vengono evocate le figure di s. Pietro e s. Paolo che son vivi, essi che moriro / per la vigna che guasti (Pd XVIII 132). La vigna per indicare la Chiesa è simbolo allegorico che vien ricavato dal Cantico dei Cantici 2, 15, in un passo estremamente significativo ove si parla appunto delle " vulpes parvulas, quae demoliuntur vineas ". Queste " vulpes parvulas " venivano interpretate concordemente dall'esegesi dei secoli XII-XIV come gli eretici che con le loro dottrine astutamente (e perciò volpi) danneggiavano la Chiesa. Ora ci sembra non casuale il ricordo della ‛ vigna ' e del ‛ guasto ' provocato dal pontefice, ricordo voluto dal poeta a suggerire l'idea che il male provocato da G. non era in nulla inferiore a quello che in altri tempi avevano causato gli eretici.

Causa della rovina della Chiesa è - osserva il poeta - la cupidigia di danaro, per cui si lanciavano condanne e si emanavano sentenze, sol per poterle modificare a suon di monete, mentre in bocca allò stesso pontefice, noto per la sprezzante durezza di molti suoi giudizi, vengono poste parole di crudo cinismo: I' ho fermo 'l disiro / sì a colui che volle viver solo / e che per salti fu tratto al martiro, / ch'io non conosco il pescator né Polo (Pd XVIII 133-136).

In tal modo un altro pontefice viene ricondotto nell'ambito maledetto della cupidigia, di quella colpa centrale e fondamentale e della Chiesa e del genere umano, da cui derivano tutti i disordini del mondo.

Si chiarisce e si giustifica, allora, il culmine di male che Clemente V e G. rappresentano, quando in Pd XXVII 58-60 D. mette in bocca a s. Pietro le parole: Del sangue nostro Caorsini e Guaschi / s'apparecchian di bere: o buon principio, / a che vil fine convien che tu caschi! D. nega cioè a questi due papi la stessa grandezza superba nel male che riconosce a Bonifazio VIII, considerandoli come il vil fine (Pd XXVII 60), l'ignobile conclusione di un buon principio, e, quindi, come il momento più basso di una decadenza che richiede l'intervento inevitabile della Provvidenza divina.

A tal proposito, quanto D. dice di G. nel Paradiso s'inserisce nello stato d'animo di polemica attesa che fu proprio del mondo degli spirituali francescani, nei primi anni appunto del pontificato del ‛ Caorsino ', mentre già erano cominciate le condanne per disubbidienza e andava maturando la polemica contro la povertà minoritica. La morte non consentì al poeta di conoscere gli sviluppi sempre più tragici della vicenda.

Bibl. - G. Jorio, Una nuova notizia sulla vita di D., in " La Rivista Abruzzese " X (1895) 353-358; G. Mollat, Les Papes d'Avignon, 1305-1378, Parigi s.a. [ma 1949]; G. Tabacco, La casa di Francia nella politica di G. XXII, Roma 1953; Y. Renouard, La papauté à Avignon, Parigi 1954; R. Manselli, Spirituali e Beghini in Provenza, Roma 1959. Per G. e D. mancano studi particolari; bisognerà perciò ricorrere alle varie ‛ lecturae ', relative ai canti XVIII e XXVII del Paradiso.

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