VENTIMIGLIA, Giovanni.
– Sesto marchese di Geraci (Gerace, per le fonti napoletane), principe di Castelbuono e principe di Belmontino, nacque probabilmente a Messina nel 1678 da Francesco V Ventimiglia e Corvino e da Girolama Caterina Di Giovanni e Ardoino. I titoli feudali erano stati acquisiti tra il 1680 e il 1698 dal padre Francesco e dal nonno Girolamo Ventimiglia, duca di Ventimiglia, grazie a un complesso di circostanze molto favorevoli.
La morte senza eredi dello zio materno Mariano Corbino aveva consentito al padre di ereditare nel 1680 il feudo Belmontino (in territorio di Aidone), con il titolo di principe, e di prenderne l’investitura nel 1681 (San Martino De Spucches, 1924, pp. 265 s.). D’altra parte, nel corso dell’ultimo ventennio del Seicento nel marchesato di Geraci maturarono una serie di eventi che alla fine del secolo avrebbero portato il nonno Girolamo alla titolarità del marchesato.
Nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1687 era morto Francesco IV (Francesco Rodrigo) Ventimiglia, che nel 1676 era succeduto al padre Giovanni IV, fratellastro di Girolamo. Gli successe il figlioletto Giovanni V Ventimiglia (1680-1689), deceduto a Palermo il 10 maggio 1689 insieme con il fratellino Ettore, per una caduta dal balcone della villa di famiglia nella piana dei Colli, alle porte di Palermo. La successione passò allo zio Blasco, fratello di Francesco IV, che sposò la nipote Felice, altra figlia di Francesco IV. Con il matrimonio tra zio e nipote non ancora undicenne si era voluto evitare una lunga lite per la successione, perché, se è vero che il fedecommesso istituito con il suo testamento dal marchese Giovanni I prevedeva che nella successione subentrasse l’agnato più vicino in grado, Francesco IV aveva invece disposto che, in caso di morte del figlio Giovanni senza eredi diretti, nei beni feudali gli succedesse Ettore e, in caso di morte anche di questi, gli subentrasse Felice e via via le altre sue figlie fino all’esaurimento della linea diretta della sua discendenza, per via sia agnatizia sia cognatizia. La morte di Blasco due anni dopo, nel luglio del 1691, ripropose il problema, anche perché il defunto nel testamento ribadì il vincolo agnatizio di Giovanni I e designò come successore il fratello gesuita Carlo e, in caso di sue impossibilità per questioni religiose, l’altro fratello Ruggero. Si aprì così un lungo e accanito contenzioso, che solo nel 1698 si risolse definitivamente a favore di Ruggero, che però non sopravvisse a lungo: la morte lo colse infatti un mese dopo, nel settembre del 1698, e nel marchesato di Geraci gli successe Girolamo Ventimiglia e Del Carretto, duca di Ventimiglia e fratellastro del padre Giovanni IV. Alla morte di Girolamo nel 1707, successe il figlio Francesco V, principe di Belmontino e padre di Giovanni VI (San Martino De Spucches, 1940, pp. 272 s).
Giovanni VI nel 1704 era convolato a nozze con Livia Sanseverino (1672-1749) – figlia del principe di Bisignano Carlo Maria Sanseverino e di Maria Fardella e Gaetani, principessa di Paceco – già vedova di Carlo di Tocco, principe di Montemiletto, e sorella della poetessa Aurora Sanseverino. Anche se il padre Francesco V, principe di Belmontino ed erede del marchesato di Geraci era ancora in vita, già nel 1705, in occasione del battesimo del figlio primogenito Luigi Ruggero, Giovanni era indicato come principe di Belmontino.
Luigi Ruggero ricordava nel nome il re di Francia Luigi XIV, il re Sole, che gli faceva da padrino, e il defunto marchese Ruggero Ventimiglia. Al fonte battesimale fu tenuto per procura dal viceré Isidoro de la Cueva, marchese di Bedmar.
I Ventimiglia di Geraci avevano quindi riacquistato l’antico prestigio e si accingevano a raggiungere nuovi traguardi, schierandosi decisamente, sin dall’inizio della guerra di successione spagnola ancora in corso, dalla parte dei franco-ispanici di re Filippo V di Borbone (nipote ex filio di Luigi XIV), acclamato a Palermo nel gennaio del 1701 re delle Spagne e di Sicilia.
Nell’occasione, annotava il canonico Antonino Mongitore (1871), «alimentava la maraviglia il superbissimo apparato, con che era abbellito il palagio del marchese di Geraci [nel Cassaro]. Dalle sue cime sino a’ balconi era freggiato di velluti cremisini e tele d’argento ed oro, molti de’ quali, o ripiegati in circoli, o raggroppati in quadrati, componevano dilettevole oggetto. Nel mezzo della lunga continuazione de’ balconi si solleva ricchissimo tosello d’asprino cremisino, tessuto a fiorami d’argento ed oro; sotto al quale si venerava l’imagine del re Filippo. Da’ balconi pendevano ricchi drappi di lame e broccati cremisini» (p. 239).
Per i Borbone la guerra però non aveva un andamento molto favorevole e il 22 luglio 1710, in attesa di lasciare Madrid, la regina di Spagna Maria Luisa di Savoia, che fungeva da reggente, concesse al marchese di Geraci la «Grandeza de España para vostra persona y casa» (Madrid, Archivo historico nacional [in seguito AHN], Consejos, 8976, a. 1710, exp. 216, c. 1r), ossia titolo personale e trasmissibile agli eredi, al quale i Ventimiglia aspiravano da oltre un secolo e che intanto aveva un costo di 8000 ducati. Francesco V era morto a Palermo nell’agosto del 1708 e marchese di Geraci di fatto era ormai Giovanni VI Ventimiglia, anche se l’investitura ritarderà sino al novembre del 1712.
La guerra di successione spagnola si concluse con il trattato di Utrecht dell’aprile del 1713, seguito nel marzo del 1714 da quello di Rastadt. Con il primo trattato la Sicilia fu ceduta da Filippo V al suocero, il duca di Savoia Vittorio Amedeo II. Da Palermo il 10 settembre 1713 partirono per Torino per rendere omaggio al nuovo sovrano parecchi nobili con a capo Giovanni VI, che a Vittorio Amedeo, dalle informazioni assunte, risultava «di poco giudicio e stravagante» (Lo Faso di Serradifalco, 2005a), giudizio confermato dal cardinale Francesco Giudice, viceré (1702-05), per il quale era «un giovane di costumi poco circospetti e di talento moderato» (Lo Faso di Serradifalco, 2009). L’11 ottobre il re e la regina Anna sbarcarono a Palermo e attraversarono il Cassaro parato a festa. Nell’occasione il palazzo del marchese di Geraci, nominato intanto gentiluomo di camera, «era ornato con damaschi lavorati a bei fioroni e trinati d’oro, e con delicatissimo arazzi portanti i trionfi di varii membri di casa Ventimiglia» (Mango di Casalgerardo, 1899, p. 11).
L’ingresso ufficiale avvenne il 21 dicembre e l’incoronazione a re di Sicilia il 24 successivo. Dopo gli ecclesiastici, giurò fedeltà al re il braccio militare: il principe di Butera, primo titolo del Regno, seguito dal principe di Pietraperzia, dal principe di Castelbuono Giovanni VI e via via da tutti gli altri feudatari. Il grandato di Spagna non costituiva più precedenza, ormai regolata dall’antichità del titolo feudale. Ma il marchese di Geraci non era interamente contento e inoltrò al sovrano un memoriale, nel quale faceva la storia dei titoli nobiliari di Sicilia, per dimostrare come quelli dei Ventimiglia fossero i più antichi e per chiedere di essere autorizzato, come già i suoi predecessori, a non partecipare, se non con suoi procuratori, alle cerimonie ufficiali in cui fossero presenti anche i principi di Butera, di Castelvetrano, di Pietraperzia e di Paternò. Prima di lasciare Palermo per Messina, da dove sarebbe ripartito per Torino, con privilegio del 9 marzo 1714 Vittorio Amedeo dispose così «che nelle occasioni d’essere egli [il marchese di Geraci], o sua moglie chiamato in quelle funzioni nelle quali non trattandosi del nostro servizio non volessero intervenirvi, non vi debbano essere astretti, e quando fussero chiamati per atti necessari e precisi del servizio nostro a’ quali non si dovesse supplire per via di procura» (Lo Faso di Serradifalco, 2005b). E il 22 marzo 1714 conferì a Giovanni VI Ventimiglia la nomina di cavaliere dell’Ordine supremo della SS. Annunziata (San Martino De Spucches, 1940, p. 274).
Fallito il tentativo spagnolo di occupare nel 1718 la Sicilia, con il trattato dell’Aja del febbraio del 1720, l’isola fu assegnata all’Austria dell’imperatore Carlo VI. A Palermo si insediò il nuovo viceré Nicolò Pignatelli, duca di Monteleone e principe di Castelvetrano, suocero del principe di Bisignano Giuseppe Sanseverino, fratello di Livia, la moglie di Giovanni VI. In occasione dell’acclamazione di Carlo VI a re di Sicilia il marchese di Geraci la sera del 2 ottobre 1720 diede nel suo palazzo un sontuoso ricevimento in onore del viceré e della viceregina (Il festino della felicità..., 1720, p. 28). Con l’aristocrazia siciliana e il Senato di Palermo il duca di Monteleone ebbe rapporti difficili, ma fu indulgente con alcuni feudatari tra cui proprio Giovanni VI, concedendo loro lunghe dilazioni per l’indebitamento nei confronti del Tribunale del Real patrimonio. E di debiti il marchese di Geraci ne aveva anche altri.
Con il governo del nuovo viceré, il marchese Gioacchino Fernandez Portocarrero, giunto a Palermo il 1° luglio 1722, il gruppo di aristocratici che era stato vicino a Monteleone finì presto emarginato, anche se il marchese di Geraci il 27 settembre 1723 riuscì a ottenere da Carlo VI la concessione del titolo di principe del Sacro Romano Impero con il trattamento di celsissimus (‘altezza’), la potestà di battere moneta e medaglie con il proprio nome e di titolarsi Dei gratia nei suoi diplomi.
Un esemplare della moneta, mezza piastra d’argento del valore di 6 tarì, si conserva presso il museo Salinas di Palermo, dono nel 1901 di Vittorio Emanuele III. Risulta coniata nella Zecca imperiale di Vienna nel 1725 e raffigura da un lato Giovanni VI con l’iscrizione IOAN:D:G:COM: – DE VIGINTIMIL, e dall’altro lato lo stemma dei Ventimiglia con corona e manto principeschi, circondato dal collare dell’Ordine della SS. Annunziata e dall’iscrizione S:R:I:PRINC:MAR CH:GERACIS.1725 (Grassi Grassi, 1903, pp. 61 s., 95-99). Monete del genere erano destinate all’ostentazione, non alla circolazione.
Il privilegio comprendeva anche la concessione del titolo di conte del sacro palazzo lateranense a tutti i secondogeniti del principe di Castelbuono.
Dodici anni dopo, il 4 giugno 1735, in attesa di essere incoronato nella cattedrale, il nuovo sovrano Carlo di Borbone, figlio di Filippo V, nominò Giovanni VI Ventimiglia gentiluomo d’entrata e il figlio primogenito, il conte Luigi Ruggero, gentiluomo d’esercizio. La cerimonia dell’incoronazione nella cattedrale di Palermo si svolse un mese dopo, il 3 luglio, e nell’occasione, lo strascico del manto regale del sovrano, che si avvicinava all’altare per ricevere l’eucaristia, era tenuto nella parte centrale dal conte Luigi Ruggero.
Nel novembre del 1735 fu istituita, sul modello dell’abolito Consiglio d’Italia, la Suprema Giunta di Sicilia in Napoli, la cui presidenza era affidata a «uno de los Barones Parlamentarios Sicilianos, nacido y habitante in Sicilia, y Consejero de Estado», con un salario annuo di 5000 scudi (Capitula Regni Siciliae, 1743, p. 412), scelto su una rosa di tre nomi proposta dalla Deputazione del Regno di Sicilia. La qualifica di consigliere di Stato, che consentiva al presidente di partecipare a tutte le consulte del re, era stata voluta da Manuel Domingo de Benavides y Aragón, conte di Santisteban, dal 1734 al 1738 maggiordomo maggiore e segretario di Stato di re Carlo, del quale era stato anche precettore. Un errore, ricorderà molto più tardi Bernardo Tanucci, del quale lo stesso Santisteban si era reso subito conto, «poiché il principe di Palagonia [Ferdinando Gravina], appena entrato in Consiglio, propose tante novità che il Conte si alterò, e una mattina, davanti al Re, anche si scompose. Erano forse cose buone quelle che Palagonia proponeva, ma il proporle a mal tempo commossero il conte» (Tanucci, 1997, p. 566). La scelta iniziale del presidente della Giunta era infatti caduta su Palagonia, il quale però morì prima di raggiungere Napoli.
«Dovendosi poi fare il successore, il Conte [di Santisteban] cercò una mazza vestita nel marchese di Gerace [sic], il quale non parlò mai» (ibid). «Il muto Gerace si volle consiglier di stato – riferiva Tanucci al viceré Corsini nel 1744 – colla regola [...] del non prendere chi potesse por qualche freno almeno di parole allo sfrenatissimo arbitrio di tutte le cose che Sua Eccellenza [Santisteban] voleva» (Tanucci, 1980, I, pp. 725 s.). E così il 21 luglio 1737 il marchese Giovanni VI Ventimiglia partì finalmente per Napoli. Un anno dopo, il 13 luglio 1738, fu insignito del titolo di cavaliere di S. Gennaro (San Martino De Spucches, 1940, p. 274) e il 5 ottobre 1739 ottenne che il suo titolo di grande di Spagna fosse dichiarato di prima classe (AHN, Consejos, 5240, Rel. 1).
La documentazione sull’attività della Giunta è inesistente: presso l’Archivio di Stato di Napoli risulta disponibile solo dal 1775. La sua attività è stata comunque alquanto irrilevante. Se ne lamentava nel 1747 con il neo viceré Eustachio de Lavieville Tanucci, il quale attribuiva il ritardo dei provvedimenti del Consiglio di Stato, del quale era componente, alla «regola di dover io tutto passar alla Giunta di Sicilia e attenderne le consulte [...] Questa Giunta è composta di due siciliani, dei quali il più importante [il marchese di Geraci] è ottuagenario [recte: settuagenario] e sempre infermo [affetto da podagra]» (Tanucci, 1980, II, p. 264). E qualche mese dopo aggiungeva: «La Giunta è tardissima [...] Il difetto viene dai membri. Arena [il magistrato siciliano Girolamo Arena] è inutile. I due napoletani [il giurista Niccolò Fraggianni e il giureconsulto Carlo Danza] non hanno soldo e son tratti dalle cose della lor patria e dalle cariche napoletane che loro fruttano più danaro e stima ed autorità che le, ad essi inutili e non interessanti, siciliane. E veramente sono occupatissimi d’incumbenze napoletane» (ibid., p. 320).
Sulle malattie di podagra e di calcoli renali del marchese di Geraci, che molto spesso bloccavano i lavori della Giunta, insiste molto Fraggianni nelle sue lettere settimanali al viceré Bartolomeo Corsini. Più che dell’attività della Giunta, egli parlava delle sedute non svolte proprio a causa dei problemi fisici del marchese, tanto che qualcuno brigava per prenderne il posto. Ogni volta però il marchese si riprendeva e così «svaniscono le inique misure prese da qualcuno ambizioso per ereditare la decorosa successione che quegli qui gode» (Fraggianni, 1991, p. 237). E nel luglio del 1742: «qualunque siano le voci che costì in certe contingenze si fanno spargere, Gerace sta bene è forte e in risoluzione di voler qui finire dopo mille anni i suoi giorni colla cara e bella carica. Onde non occorre che altri se ne dian briga» (ibid., p. 348).
Continuavano ad angustiarlo notevolmente i forti contrasti con il figlio Luigi Ruggero, tanto da spingere Fraggianni a chiedere a Corsini di sostenerne i difensori, «tutti spaventati per lo timore incusso loro dal figlio: abbandonano gl’interessi del padre e non assistono affatto né per la difesa, né per la economia et esazione delle rendite del padre» (ibid., p. 126). Non proprio uno stinco di santo Luigi Ruggero, se lo stesso marchese era costretto a raccomandarsi alla protezione del viceré, «perché non vi sarà mai cosa che basterà per alimentare [...] i vizi del suo figliolo» (ibid., p. 138).
Dalla madre nel 1744 il marchese di Geraci ereditò la signoria di Graziano, Gallidoro, Gebbiarossa, Grasta, Miano, Rovitello e Tavernolo, ma non riuscì a recuperare i gioielli e il denaro della defunta, molto probabilmente donati alla nipote Maruzza, figlia del secondogenito Domenico, principe di Belmontino, molto cara alla nonna. Invano egli cercò le prove, minacciando anche di ricorrere alla scomunica contro i ladri.
Giovanni VI morì a Napoli nel settembre del 1748.
Con il testamento dettato a Palermo il 1° maggio 1730 aveva chiesto di essere sepolto a Palermo, nella chiesa dei cappuccini, dove poi nel 1734 aveva fatto costruire una tomba per sé e la moglie, come tuttora si legge sulla lapide nella parete sinistra dell’attuale cappella di S. Rosalia, nelle catacombe sottostanti la chiesa. Il trasferimento a Palermo della salma del marchese però non avvenne: rimase infatti a Napoli, come testimonia il figlio Luigi Ruggero, il quale nel suo testamento dell’8 dicembre 1771, il giorno stesso del decesso, ordinava «che il mio corpo sia seppellito coll’abito di San Francesco nella Venerabile Chiesa de Padri Cappuccini di Sant’Eframo Nuovo [di Napoli] nell’istesso luogo ove sta seppellita la buona memoria di mio padre Don Giovanni Ventimiglia Marchese di Geraci» (Archivio di Stato di Napoli, Notaio Pietro Emilio Marinelli, s. 2, scheda 7, prot. 38, 9 dicembre 1771, c. 1215v).
Fonti e Bibl.: Madrid, Archivo historico nacional [AHN], Consejos, 8976, a. 1710, exp. 216, cc. 1r-2r, Consejos, 5240, Rel.1.
Il festino della felicità nel cuore della bocca e nella pompa di Palermo su la trionfal accoglienza di Carlo VI imperatore, III re delle Spagne e di Sicilia, Palermo 1720, p. 28; Capitula Regni Siciliae, II, Palermo 1743, p. 412; A. Mongitore, Diario palermitano, in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, a cura di G. Di Marzo, VII, Palermo 1871, p. 239; A. Mango di Casalgerardo, Dell’ingresso e dimora di Vittorio Amedeo II di Savoia e della sua acclamazione a re di Sicilia, Palermo 1899, p. 11; A. Grassi Grassi, Delle monete di Ventimiglia, in Bollettino di numismatica e di arte della medaglia, I (1903), 5-6, pp. 61 s., 95-99; F. San Martino De Spucches, La Storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, I, Palermo 1924, pp. 265 s., IX, 1940, pp. 272-274; B. Tanucci, Epistolario, a cura di R.P. Coppini - L. Del Bianco - R. Neri, I (1723-1746), Roma 1980, pp. 725 s., II (1746-1752), pp. 264, 320; N. Fraggianni, Lettere a B. Corsini (1739-1748), a cura di E. Del Curatolo, Napoli 1991, pp. 126, 138, 237, 348; B. Tanucci, Epistolario, 1763-64, a cura e con introduzione di M.C. Ferrari, XII, Napoli 1997, p. 566; A. Lo Faso di Serradifalco, Vittorio Amedeo II – Un anno in Sicilia (ottobre 1713-ottobre 1714), in Società italiana di studi araldici, 2005a, https://www.socistara.it/studi/; Id., La supplica del marchese di Geraci, ibid., 2005b; Id., Notizie per il governo della Sicilia inviate dal cardinale Giudice a Vittorio Amedeo II nella primavera del 1713, ibid., 2009.