MENOCHIO, Giovanni Stefano
– Nacque a Padova il 9 dic. 1575 da Giacomo e da Margherita Candiani, figlia di Giovanni Antonio, mercante di Pavia.
Secondo il libro di famiglia, il M. fu battezzato il 15 dicembre nella chiesa di S.Bartolomeo di Padova, ed ebbe come padrini il giureconsulto Bartolomeo Selvatico e il celebre anatomista Girolamo Fabrici d’Acquapendente (Franchi, p. 341).
Dal matrimonio, celebrato il 10 luglio 1557, la coppia aveva avuto undici figli: Giovanni, che morì poco dopo la nascita, Gaspare Francesco, Paola Emilia, Giovanni (morto il giorno dopo la nascita), Giovanni Matteo, Laura, Daria Maddalena, Antonia Caterina, Olimpia, Pietro Martire e il M., l’ultimogenito.
Celebre giurista e senatore di Milano, il padre, che aveva ottenuto nel 1601 l’inclusione dei Menochio tra le famiglie decurionali pavesi, aveva diligentemente annotato nel suo libro di famiglia, interamente scritto in latino, ogni passo della sua vita; aveva poi lasciato il libro in consegna proprio al M. che ne scrisse le ultime righe. In seguito il M. lavorò a una biografia del padre in latino, di cui rimangono quindici capitoli (Milano, Biblioteca Trivulziana, Mss., 1627), insieme con l’autobiografia di Giacomo (in Franchi, pp. 342-354).
Diversamente da Francesco, il M. non seguì la professione del padre, ma nel 1594 entrò nella Compagnia di Gesù, ad Arona, studiò filosofia dal 1596 al 1599 e teologia dal 1602 al 1606 all’Università di Brera, a Milano. In questa città fu ordinato sacerdote nel 1605 e ad Arona fece professione del quarto voto il 21 sett. 1621.
Dal 1605 insegnò greco, ebraico, teologia morale e Sacre Scritture a Milano e a Cremona. Da allora fu superiore delle case della Compagnia di Gesù, carica che mantenne per quasi tutta la vita. Fu rettore del collegio di Cremona dal 1611 al 1614, superiore della casa professa di Genova (1616-17 e 1636-37), provinciale della provincia di Milano (1617-21), rettore del Collegio romano dal 1623 al 1625 e dal 1640 al 1642, provinciale della provincia di Venezia (1631-34, 1639-40) e visitatore di questa stessa tra il 1638 e il 1639, provinciale della provincia romana (1642-45) e ammonitore dei padri generali della Compagnia Vincenzo Carafa (1646-49) e Francesco Piccolomini (1649-51).
Il M. morì a Roma il 4 febbr. 1655.
L’impegno costante nella Compagnia di Gesù, che lo portò a occupare posizioni di prestigio e responsabilità, non gli impedì di continuare a leggere, a studiare, ma soprattutto a scrivere e a divulgare quanto nelle sue lezioni universitarie insegnava.
Il M. fece della Bibbia e dell’esegesi il centro di ogni sua riflessione. Per lui era necessario uno studio attento del Vecchio e del Nuovo Testamento, che fosse filologicamente accurato ma che sapesse rifuggire dalle insidie che riformati ed ebraizzanti avevano seminato nell’interpretazione biblica. Pareva così riprendere un’illustre tradizione che nell’Europa del tempo avevano esercitato biblisti di fama come lo spagnolo Benito Arias Montano, offrendo però ai suoi lettori la sicurezza di una lettura accurata ma insieme chiara, piana e soprattutto inequivocabilmente ortodossa.
La sua prima opera, dal titolo Hieropoliticon, sive Institutiones politicae e Sacris Scripturis depromptae (Lione 1625), è un ponderoso trattato di quasi mille pagine e si inserisce a pieno nel filone della trattatistica politica sulla ragion di Stato; esso proponeva però di ricavare dallo studio storico e filologico della Bibbia insegnamenti e indicazioni per il nuovo principe cattolico, con un’intuizione che, secondo alcuni interpreti, ne fa un precursore della Politique di J.B. Bossuet. Alla prima edizione, dedicata al cardinale Alessandro Orsini, fece immediatamente seguito una seconda, corretta e aumentata, pubblicata a Colonia nel 1626 e dedicata dall’editore Johan Kinck all’imperatore Ferdinando II d’Asburgo. Fu decantata nella diciottesima ode dei Lyrica del polacco Maciej Kazimierz Sarbiewski.
Nel 1627, il M. pubblicò le Institutiones oeconomicae e Sacris Scripturis depromptae, a Lione, con una dedica al cardinale Ludovico Ludovisi. L’opera, tradotta in italiano dallo stesso M. e pubblicata postuma a Venezia nel 1656 come Economica Christiana, conobbe un notevole successo editoriale e divenne uno dei testi di riferimento dell’oeconomica del tempo.
Se lo Hieropoliticon trattava dell’educazione di un principe assoluto cattolico, le Institutiones si rivolgevano a ogni pater familias che avesse a cuore la crescita della propria famiglia. Barbieri annovera il M. «tra i più ferventi esaltatori della vita della campagna e dell’industria agricola» e soprattutto nota come, seguendo l’esempio del Caetano (Tommaso De Vio), il M. costituisse «una parziale deviazione del pensiero economico scolastico» (p. 20) nell’affermare la legittimità dell’accumulo di ricchezze da parte del pater familias e quasi il dovere di garantire un’ascesa sociale alla propria famiglia. L’esempio del padre Giacomo, evidentemente, gli era assai vicino.
Nello stesso filone di riscoperta dell’immensa messe di insegnamenti, consigli e suggestioni che venivano dalla storia biblica si colloca il De Republica Hebraeorum (Parigi 1648). Dedicata al cardinale Juan de Lugo, ricordando gli anni passati insieme al Collegio romano, l’opera nasceva dalla constatazione che se molto erano studiati le storie, i costumi, le leggi e le costituzioni di Solone, Licurgo e Numa Pompilio, non altrettanto conosciute erano quelle date al popolo di Israele da Dio stesso. In realtà il De Republica Hebraeorum si inseriva in una tradizione di studi ebraici da parte cristiana che aveva avuto precedenti soprattutto in ambito riformato – ma anche l’illustre caso italiano di Carlo Sigonio – e che era destinata a crescere e a diventare argomento di discussione e polemica nel Seicento europeo. Degli antecedenti e dei possibili rivali protestanti, infatti, il M. aveva piena conoscenza. Nella prefazione cita esplicitamente Sigonio, criticandone la scarsità di fonti utilizzate e l’essersi limitato a una piccola parte di un campo tanto ampio, e segnala la necessità di fornire una versione di parte cattolica in un terreno che invece era battuto da eterodossi, rabbini o ebreizzanti.
La volontà di volgarizzazione e diffusione di argomenti di solito destinati a una élite filologicamente accorta e la volontà di svuotare quegli argomenti da ogni potenzialità sovversiva o eterodossa spiccano in modo palese dalle dichiarazioni del M.: il suo intento è di rendere la storia ebraica, anche nei suoi aspetti «più astrusi», immediatamente chiara a tutti, anche a quanti non sapessero il greco e l’ebraico, addirittura a quanti poco conoscessero e frequentassero le Sacre Scritture.
Stupisce la capacità del M. di entrare nel vivo di un dibattito sulle antichità giudaiche e la loro funzione – che si espresse solo nella seconda metà del Seicento e raggiunse l’acme con il Tractatus thelogico-politicus di Baruch Spinoza – di captare quanto di nuovo si stava muovendo in Europa e di riproporlo sminuzzato, semplificato e privo di ogni connotazione eretica ai propri pii lettori.
L’opera di maggiore rilievo del M., il culmine di una vita intellettuale passata sulle storie e l’interpretazione della Sacra Scrittura, è il commento esegetico al Vecchio e al Nuovo Testamento, intitolato Brevis explicatio sensus literalis totius Sacrae Scripturae ex optimis quibusque auctoribus per epitomen collecta (Colonia 1630; ristampato, solo o con altri commentari, fino al 1873, raggiunse le trenta edizioni). Fu particolarmente apprezzato per lo stile chiaro, piano, capace di avvicinare e persuadere i lettori, di sciogliere i passi più controversi, sempre in senso rigorosamente cattolico. I suoi scoli furono riprodotti in commentari celebri come la Biblia magna (1643) e la Biblia maxima (1660) di J. de la Haye, la Biblia Sacra di Luca di Bruges (1747-67). Nel 1719 il gesuita francese René-Joseph Tournemine ne fornì una riedizione, corretta ed emendata degli ormai numerosi refusi che si erano accumulati nelle varie ristampe, affiancandogli una serie di commenti celebri: Jacques Bonfrère, il commentario sull’Apocalisse di José de Acosta, il discusso trattato di Juan de Mariana Pro editione vulgata e il suo De ponderibus et mensuris e il De Republica Hebraeorum di Sigonio (scelta, quest’ultima, che sicuramente il M. non avrebbe apprezzato).
Ma l’opera che rese più famoso il M., e forse anche quella più rappresentativa, è un’imponente miscellanea in volgare di storie e curiosità. Le aveva chiamate Stuore pensando agli Stromata di Clemente Alessandrino ma anche alle stuoie che i padri del deserto intessevano la sera, davanti al fuoco. Il primo libro delle Stuore, che contiene la prima centuria di storielle, fu pubblicato con lo pseudonimo di Giovanni Corona (Le stuore di Gio. Corona tessute di varia eruditione sacra, morale, e profana, Venezia 1646). Il folgorante successo lo indusse a ripubblicarla con il proprio nome e a stampare il progetto completo delle Stuore: tra il 1648 e il 1654 apparvero a Roma altri cinque volumi, per un totale di 600 storie, raccolte in sei volumi, o centurie. Si trattava di storie curiose, strane, incredibili, che era andato annotandosi nel corso di una vita; le aveva raccontate nei salotti per «ricreare» ed «edificare» e ora provava a raccoglierle in un libro: «Amico lettore, spero che questa selva di varia lettione sacra, e morale, che ti presento, non sia per dispiacerti. Ella contiene historie curiose, e questioni amene, e riti antichi di varie sorti. Leggendo io diversi autori m’è cresciuta fra le mani, mentre andava notando quelle cose che mi pareva potessero servire per materia di conversatione grave, gioconda e profittevole» (Prefazione, cc. n.n.). L’argomento miscellaneo spazia dai fiumi del paradiso terrestre ai funghi velenosi; dalle supposizioni sulla negrezza degli Etiopi, alla Cabala spiegata in mezza pagina; dalle misure e disposizioni degli animali nell’arca di Noè, alle lettere della Vergine; dal falso miracolo di Calvino all’agghiacciante capitolo sulla «natione de’ Zingari» che traduceva ampi stralci della Cosmographia di Sebastian Münster e raccoglieva pesanti stereotipi da tutta Europa. Vi traspare la curiosità per i viaggi e le scoperte, per paesaggi, uomini, riti del Nuovo Mondo e delle terre orientali. Il M. pescava a piene mani dalle lettere gesuitiche, ma anche da una letteratura di viaggio che andava da Leone Africano a J. de Acosta, dalla storia delle Indie del padre G.P. Maffei a quella del Giappone di François Solier. In una vertiginosa varietà passava dai miracoli attorno alla reliquia del prepuzio di Cristo (argomento su cui si sarebbero scatenati i lazzi di Pietro Giannone e dei suoi amici napoletani) al capitolo Del non aggravare li popoli, che era un efficace riassunto di un celebre capitolo del De rege di Mariana, alle meditate biografie di Erasmo e Guillaume Postel. Impressionante esempio di erudizione e insieme raccolta di luoghi comuni, di curiosità bigotta e cultura dotta, le Stuore conobbero un notevolissimo successo editoriale. Arrivarono anche tra le mani di Giannone, che trasformò il M. nel simbolo della credulità e dell’erudizione di una cultura vacua e ridicola ormai superata dai lumi. Il M. divenne infatti uno dei protagonisti della sua Apologia de’ teologi scolastici, mentre le Stuore, che Giannone ebbe con sé negli anni del carcere, furono fonte inesauribile di argomenti e di tagliente ironia per L’ape ingegnosa.
A queste opere seguirono la Historia sacra della vita, attioni, doctrina, miracoli, passioni, morte, risurretione e salita al cielo del n. Redentore, Salvatore Gesù Cristo (Roma 1653); la Historia sacra degi Atti degli Apostoli (ibid. 1654); e, postuma, la Historia miscellanea sacra nella quale particolarmente si contengono detti de’ santi, varie dottrine morali, e spirituali, et altre breui narrationi… Raccolta da varii buoni autori (Venezia 1658).
Fonti e Bibl.: P. Giannone, L’ape ingegnosa, a cura di A. Merlotti, introduzione di G. Ricuperati, Roma 1993, passim; J.-M. Vosté, Le commentaire de Menochius sur l’Apocalypse traduit en syro-chaldéen, in Orientalia Christiana Periodica, V (1939), pp. 515-524; G. Barbieri, Ideali economici degli Italiani all’inizio dell’Età moderna, Milano 1940, pp. 18-20; L. Franchi, Memorie biografiche di Giacomo Menochio (dal codice Trivulziano n. 1627), in Contributi alla storia dell’Università di Pavia, pubblicati nell’XI centenario dell’Ateneo, Pavia 1925, pp. 325-355; D. Frigo, Il padre di famiglia. Governo della casa e governo civile nella tradizione dell’economica tra Cinque e Seicento, Roma 1985, pp. 44, 61; Le grand siècle et la Bible, a cura di J.-R. Armogathe, Paris 1989, p. 31; F. Laplanche, L’érudition chrétienne aux XVIe et XVIIe siècles et l’État des Hébreux, in L’Écriture Sainte au temps de Spinoza et dans le système spinoziste, Paris 1992, p. 134; G. Ricuperati, La città terrena di Pietro Giannone: un itinerario tra «crisi della coscienza europea» e illuminismo radicale, Firenze 2001, pp. 106, 136, 143; C. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, s.v.; M. Zanfredini, Diccionario histórico de la Compañía de Jesús, Roma 2001, s.v.; Enciclopedia cattolica, VIII, pp. 688 s.; Enciclopedia Italiana, XXII, p. 861.
S. Pastore