SCOTO ERIUGENA, Giovanni
Giovanni, chiamato ora Scottus (Scottigena), ora Eriugena, ora Jerugena, nacque in Irlanda, molto probabilmente verso l'810. Onde il soprannome Eriugena pare derivi dalla forma celtica (h) ériu = Erin, Irlanda. Nelle scuole d'Irlanda egli ebbe la sua educazione, e quivi imparò il latino e il greco mirabilmente. Fra gli scrittori latini conobbe principalmente Agostino e Boezio e fra i greci lo Pseudo-Dionigi, Massimo il Confessore, Epifanio e Gregorio Nisseno. Prima dell'847 emigrò in Francia, dove Carlo il Calvo, appena salito al trono, lo chiamò nella scuola palatina di Parigi, che lo S. diresse per lungo tempo. Durante questa sua permanenza a Parigi, per incarico dello stesso Carlo attese alla traduzione degli scritti dello Pseudo-Dionigi, regalati a Ludovico il Pio dall'imperatore Michele Balbo. Questa traduzione destò serie apprensioni nel papa Niccolò I, il quale si lamentò presso il re che l'Eriugena l'avesse pubblicata senza la debita approvazione ecclesiastica e gli chiese conto di talune eresie in cui sembrava che l'Eriugena fosse caduto, specialmente quando questi entrò terzo nella lotta teologica che combattevano Gotescalco e Incmaro sulla predestinazione. Alla morte di re Carlo, avvenuta nell'anno 877, pare che anche l'Eriugena, secondo B. Haureau, fosse morto. Invece, secondo altri, fu chiamato dal re Alfredo all'università di Oxford, di recente fondata. Leggendaria è la notizia accolta da alcuni che egli come abate di Athelney fosse ucciso dai monaci.
Nel primo periodo della sua attività speculativa pubblicò il libro De divina praedestinatione, dove si avverte l'orientazione del suo pensiero verso una filosofia religiosa-panteistica, la quale collega elementi pelagiani con elementi neoplatonici. Quando però si accostò ai teologi e filosofi greci, il suo pensiero si approfondì attingendo un'originalità insospettata. Dopo avere tradotto nell'858 gli scritti dello Pseudo-Dionigi, nell'864 gli Ambigua di Massimo il Confessore e lo scritto De hominis opificio di Gregorio Nisseno, stese la sua massima opera De divisione naturae in cinque libri, la quale in forma dialogica delinea in una costruzione audace e indipendente tutta una nuova visione della realtà tendente a una sintesi superiore fra il cristianesimo e il neoplatonismo.
Nel trattato De divina praedestinatione Giovanni aveva agitato il problema agostiniano della relazione fra la grazia e la libertà umana, e in esso si possono rintracciare le prime battute del concetto che sarà svolto compiutamente nel De divisione naturae e che consiste nella dimostrazione dell'identità del pensiero umano col pensiero divino.
Ricollegandosi alla tradizione cristiana, rappresentata specialmente dallo Pseudo-Dionigi, Massimo il Confessore, Agostino e Gregorio Nisseno, egli pone con grande ardimento la tesi che la vera filosofia è la vera rivelazione, e, viceversa, la vera religione è la filosofia. Così è naturale che la predestinazione sia considerata da lui come identica alla scienza, che è poi la stessa essenza divina. Pertanto la predestinazione non è necessità, ma libertà. La causa determinante o compulsiva è propria della natura, ma non della volontà umana (De praed., II, 6), e tanto meno di Dio. Onde la divina prescienza non solo non costringe al male, ma neanche al bene, perché se Dio conoscesse il male, il male dovrebbe esistere nella natura delle cose, mentre esso è un difetto dell'essere, anzi una negazione. Questi problemi attingono una coscienza più chiara nel De divisione naturae, dove si afferma più energicamente l'identità tra la filosofia e la religione. La Scrittura, i Padri, costituiscono l'autorità da cui è necessario rifarsi; ma l'autorità ha un senso in quanto rappresenta la stessa ragione: ogni autorità che non si fondi sopra una ragione è debole (De div. nat., I, 66). Cronologicamente l'autorità precede la ragione, ma idealmente la seconda precede la prima. Pure noi non possiamo svilupparci se non cominciamo a credere nell'autorità divina. Una tale fede per altro è un punto di partenza, non un punto d'arrivo. Giacché per comprendere quello che Dio c'insegna, noi siamo costretti a ricorrere alla ragione, la quale non può non servirsi dell'autorità degli uomini, ma in quanto la giudica essa conserva il suo primato assoluto (ibid., I, 69). Perciò quando c'è contrasto fra l'autorità e la ragione, il predominio spetta alla ragione, giacché auctoritas ex vera ratione processit, ratio vera nequaquam ex auctoritate (ibid.).
Questo fondo razionalistico pervade specialmente la celebre sua divisione della natura, la quale non è una classificazione, bensì un processo che è lo stesso processo del mondo, da cui si leva luminoso il concetto dell'uomo come microcosmo.
Il suo Dio, o l'Universale, non è il concetto generico in cui si attardavano realisti, nominalisti e concettualisti, bensì il reale originario, che contiene e produce il particolare compiendo un processo attraverso quattro successive participationes. Dio, in quanto Essere primordiale, originario, è natura creatrice increata (natura creans nec creata): esso è l'essenza vera di tutte le cose, cioè principium, medium et finis (ibid., I, 62), e come tale non può essere colto dal pensiero, è inconoscibile, ineffabile, impersonale, perché in... naturis a Deo conditis, motibusque earum categoriae qualiscumque sit potentia praevalet. In ea vero natura quae dici nec intelligi potest per omnia in omnibus deficit (ibid., I, 15). Per un processo ineluttabile, necessario, l'Essere primordiale si fa, diviene, e divenendo comincia ad avere coscienza delle cause originarie degli esseri e in questo momento egli è natura creatrice creata (natura creans creata): è creato e crea; è creato perché è a seipsa (natura divina) in primordialibus causis, e per questo appunto seipsam creat, hoc est in suis theophaniis incipit apparere (ibid., III, 23; III, 4 e III, 17). Dal secondo momento passa al terzo, dove egli in omnia currit et nullo modo stat, sed omnia currendo implet (ibid., I, 12).
Qui si compiono le teofanie, per cui gli esseri relativi, contingenti cominciano ad emergere; essi hanno, in tal modo, la stessa sostanza (οὐσία), e quindi si rivelano fondamentalmente identici, e le loro differenze si riducono a semplici accidenti. Questi tre momenti corrispondono, secondo lo Scoto, al processo della Trinità cristiana; il primo rappresenta il Padre, il secondo il Figlio, il terzo lo Spirito Santo. Ma questo divenire divino non è una gerarchia ascendente bensì digradante, e quindi gli esseri che emergono nel terzo momento hanno una realtà meno intensa. Se non che l'Essere non è solo egressus ma anche regressus (ritorno), è natura non creatrice e non creata (natura nec creata nec creans); gli esseri relativi, o gli esistenti, ritornano all'Universale. Difatti il fine di tutto il movimento, o divenire divino, è il principium sui; giacché non alio fine terminatur nisi suo principio a quo incipit moveri (ibid., V, 3). Il ritorno (regressus) di tutte le cose a Dio costituisce il quarto momento, dove ogni cosa è deificata, e Dio e il mondo formano una cosa sola. Così il principio, o causa di tutte le cose (l'Universale), fa ritornare a sé tutte le cose, che sono suo prodotto o genitura, per virtù della sua bellezza; ma in questo ritorno egli rimane sempre sé stesso, è immoto (ibid., I, 75).
Questi quattro gradi si riducono a due. Il secondo e il terzo sono creati, sebbene l'uno crei e l'altro non crei (il mondo creato); il primo e il quarto sono increati e costituiscono il creatore (ibid., I, 1). Ma qui importa rilevare che, secondo lui, le idee sono create e sono proprie della seconda divisione della natura. La creatura che è creata e che crea è l'uomo, concepito come coeterno al Creatore. Tuttavia di una identità perfetta fra il Creatore e la creatura non si può parlare, ma c'è di essa certamente una forte esigenza. Difatti la creazione è il processo di Dio mediante le cause primordiali nelle creature invisibili e visibili (ibid., III, 25), e questo processo è un unico processo eterno, in cui Dio si rivela come la sostanza di tutte le cose (Nam et creatura in Deo est subsistens, et Deus in creatura mirabili et ineffabili modo creatur, seipsum manifestans, invisibilis visibilem se faciens, et incomprehensibilis comprehensibilem, et occultus apertum, et incognitus cognitum [ibid., III, 17]). Quest'apparizione di Dio negli angeli e negli uomini è ciò che l'Eriugena chiama appunto teofania. Ma il centro vero delle teofanie è l'uomo, che comprende in sé tutta la vita e la spiritualità del mondo, perché egli è il vero microcosmo (homo veluti omnium conclusio). Ma ciò che propriamente riconduce il molteplice all'unità, il mondo e gli uomini a Dio, è il Logos, il principio della redenzione e deificazione del mondo. Solo nel Logos l'umanità attinge la divinità. E se da un lato egli afferma che tutto l'universo non è che l'infinita realizzazione del divenire divino, perché "tutte le cose che sono chiamate eterne o create sono Dio" (ibid., III, 17), dall'altro, sostiene che le teofanie sono soltanto intelligibili alle nature intellettuali, e però l'uomo che è essenzialmente la conoscenza eterna di Dio diventa pari a Dio.
È stato detto che con questa sua dottrina della deificazione l'Eriugena è sul solco dei Padri greci, Ireneo, Ippolito, Clemente, Origene, lo Pseudo-Dionigi e Massimo e segnatamente della filosofia greca; ma, in verità, il suo concetto di deificazione ottiene una significazione più profonda, che è data dal concetto stesso di microcosmo, l'opera mirabile, per cui l'anima è presente in tutto il corpo così che l'uno e l'altro sono intimamente uniti. La vecchia definizione aristotelica: l'uomo è un animale razionale, riceve uno sviluppo sorprendente quando egli cerca di dimostrare che se Dio non avesse creato l'uomo come animale, non avrebbe potuto attingere l'universalità della natura che consiste nell'unità del visibile e dell'invisibile. Ecco perché Dio volle creare in lui ogni creatura (omnem creaturam). Anzi, originariamente, il corpo era stato creato incorruttibile, e in tale stato sarebbe rimasto senza il peccato. Ma l'uomo decaduto per il peccato può tornare a Dio mediante il Logos, redentore del mondo. L'uomo quindi creato a simiglianza di Dio e divenuto dissimile da lui per il peccato, per ritornare allo stato di prima, bisogna che tenda con tutte le sue forze a ridiventare simile a lui. Questo ritorno è costituito da una serie di reversioni o ricorsi parziali, per le quali l'uomo che si era, dopo la caduta, dissipato nella molteplicità degli affetti e desiderî temporali o carnali fino ad arrivare all'amore per le cose materiali, si raccoglie in sé e attraverso varî gradi perviene alla salvazione. Se non che il vero ritorno dell'uomo a Dio si attua dopo la dissoluzione del nostro corpo nei quattro elementi sensibili, i quali per la resurrezione dei corpi si riuniscono. Avvenuta questa riunione, il corpo passa attraverso tutti i gradi della spiritualita con una ascensione progressiva, e quando esso è divenuto tutto spirituale, l'uomo veramente si identifica in Dio (ibid., V, 31 segg.).
L'umanità non è qualcosa di determinabile empiricamente, ma in qualunque momento rispecchia in sé l'identica ragione, principio e fine dell'universo. E la ragione è, sì, l'identità, ma l'identità che diviene. Ma il vero centro di essa, come s'è detto, è costituito dall'uomo, seconda creazione dell'universo creato, ma creazione perfettissima, in cui si raccoglie ogni cosa, perché la ragione divina che è in lui non solo contiene tutto, ma si fa tutto. La creatività della ragione, così, è posta in pieno rilievo dallo Scoto, il quale parlando di essa si esprime con queste profonde parole: "Noi, mentre disputiamo, in noi stessi reciprocamente ci facciamo. Poiché mentre io intendo quello che tu intendi, io divento il tuo intelletto, e sono divenuto in te in certo modo ineffabile. Parimenti quando nettamente intendi ciò che io chiaramente intendo, tu sei divenuto il mio intelletto, e di due intelletti se ne fa un solo, formato da ciò, che entrambi con sincerità e senza indugio intendiamo". - "Entrambi gli intelletti fanno un solo... e per questo io sono creato in te, e tu in me sei creato" (ibid., IV, 9). Che pare ed è una felice intuizione idealistica. Pure bisogna riconoscere che Scoto rimase, nell'orientazione generale del suo pensiero, legato alla filosofia antica; e se egli parla dell'essenza creata che è insieme creatrice, intende con ciò l'uscita intemporale delle cose dalle loro idee che sono i loro prototipi e modelli originarî. In altri termini, le idee sono considerate da lui nel senso neoplatonico come energie creatrici, ma egli è lontano dal porre un soggetto concreto come punto di partenza e centro di ogni creazione. Nel tessuto del suo pensiero, Dio come l'ultimo fine delle cose è totalità assoluta, in cui tutte le cose o di natura fisica o di natura intellettuale ritornano definitivamente per riposare per sempre in lui (Quoniam vero ad eandem causam omnia, quae ab ea procedunt, dum ad finem pervenient, reversura sunt, propterea finis omnium dicitur, et neque creare neque creari perhibetur. Nam postquam in eam reversura sunt omnia, nil ulterius ab ea per generationem loco et tempore generibus et formis procedet, quoniam in ea omnia quieta erunt et unum individuum atque immutabile manebunt [ibid., II, 2]). Così, il ciclo eterno della creazione è suggellato; e Dio non apparirà dissimile dal Dio immoto, proprio di Aristotele, cioè come l'essenza reale che abbraccia tutto, talché le sue prime tre divisioni sono apparse una rifusione, mal riuscita, cristiano-neoplatonica, con quelle che Aristotele nella sua Metafisica (XII, 7) aveva poste: l'immoto che muove, il mosso che muove, il mosso immobile. Donde deriva il suo realismo per il quale gli oggetti particolari sono contenuti negli universali e le stesse categorie o i dieci universali si trovano in natura rerum per opera dell'autore di tutte le cose, e però è naturale che gli uomini non siano considerati creatori delle arti, ma soltanto inventores.
L'Eriugena, in cui sono lampeggiamenti vigorosi e intuizioni molto feconde, non supera adunque la filosofia antica, e la sua fusione fra il cristianesimo e il neoplatonismo è lontana dall'essere compiuta. Ecco perché in lui razionalismo e misticismo appaiono confusi, ed egli finisce col rifugiarsi nella caligine mistica che costituisce lo stato finale della natura umana deificata.
Minore interesse presenta la sua astronomia, benché, attraverso Macrobio, egli ammetta l'eliocentrismo parziale di Eraclide Pontico, ma mentre questi pare abbia soltanto ammesso il giro di Mercurio e di Venere attorno al Sole, il nostro filosofo lo ha esteso anche a Marte e Giove. Ma questa sua intuizione fu ripresa solo più tardi nel Rinascimento, sebbene il suo pensiero speculativo avesse avuto una grande efficacia non solo fra i contemporanei, ma anche in tutto il periodo della Scolastica.
Le dottrine dell'Eriugena contenute nel De divina praedestinatione furono condannate dai concilî di Valenza nell'855, di Langres nell'859 e poi di Roma nel 1050, di Vercelli nel 1050 e di Parigi nel 1051. Il De divisione naturae fu condannato dal concilio provinciale di Sens e poi da Onorio III con Bolla del 1225.
Ediz.: Opere contenute nel volume CXXII della Patrologia Latina del Migne a cura di N. Gius. Floss: 1. Expositiones super Jerarchiam coelestem S. Dionysii; 2. Expositiones super Jerarchiam ecclesiasticam S. Dionysii; 3. Expositiones seu Glossae in mysticam Theologiam S. Dionysii; 4. Homilia in prologum S. Evangelii secundum Ioannem; 5. Commentarius in S. Evangelium secundum Ioannem (fragmenta III); 6. Liber de Praedestinatione; 7. De divisione naturae; 8. Liber de egressu et regressu animae ad Deum (fragmentum); 9. Versio operum S. Dionysii Areopagitae; De celesti Jerarchia; De ecclesiastica Jerarchia; De divinis nominibus, De mystica Theologia; S. Dionysii epistolae; 10. Versio Ambiguorum S. Maximi; 11. Versus; 12. Commentarii in Evang. sec. Ioann., fragmentum IV. Questa edizione delle opere dell'Eriugena è la più completa, ma parziali edizioni furono curate dal Mauguin del De praedestinatione, I, Parigi 1650, in Veterum auctorum qui nono sæculo de praedestinatione et gratia scripserunt opera et fragmenta; Tommaso Gale pubblicò la prima edizione del De divisione naturae e la traduzione di Massimo, Oxford 1681. Una seconda edizione con tredici carmi fu pubblicata da G. B. Schlüter, Münster in Vestfalia 1838. Dopo l'edizione del Floss, I. Dräseke pubblicò un frammento del De div. nat., tratto da un nuovo codice trovato a Bamberga; il Traube in Monumenta Germ. histor., III, Berlino 1956, un'edizione completa e critica delle poesie; B. Hauréau pubblicò le Glosse dell'Eriug. sul IV. libro di Mar. Capella (De arte dialectica), in Notices et extraits des manuscrits de la bibliothèque impériale, ecc., XX, 11, pp. 8-39, Parigi 1862. Lo stesso autore ripubblicò un frammento dell'omilia sul prologo di S. Giovanni, Notices et extraits des manuscrits de la Bibliothèque Nationale, XXXVIII, 11, pp. 412-13, Parigi 1906.
Il commentario dell'Eriugena su Boezio è stato pubblicato da E. Kennard Rand: Johannes Scottus, in Quellen und Untersuchungen zur lateinischen Philologie des Mittelalters, Monaco 1906.
Bibl.: F. A. Staudenmauer, Johannes Scotus Erigena, ecc., I, Francoforte sul M. 1834; De Iohanne S. E. Commentatio, di autore anonimo, Bonn 1835, premessa all'edizione del Floss, Patr. Lat., CXXII; Saint-René Taillandier, Scot. Érigène et la philosophie scolastique, Strasburgo 1861; F. Monnier, De Godescalci et Johannis Scoti Erigenae controversia, Parigi 1853; T. Chrislieb, Leben und Lehre des Johannes Scotus Erigena, Monaco 1861; B. Hauréau, Histoire de la philosophie scolastique, I, pp. 148-175, in Notices et extraits des manuscr. de la Bibl. imp., ecc., XX, parte 2ª, pp. 1-39, Parigi 1862; A. Clerval, Les écoles de Chartres au moyen âge, Chartres 1895; F. Dräseke, Johannes Scotus Erigena und dessen Gewahrsmanner in seinem Werke de Div. nat., I, v, Lipsia 1902; G. Brunhes, La foi chrétienne et la philosophie au temps de la renaissance carolingienne, Parigi 1903; P. Baldini, S. E. e la filosofia religiosa nel sec. IX, in Rivista delle scienze teologiche, II, Roma 1906, pp. 413-31; P. Jacquin, Le néoplatonisme de Jean Scot; Le rationalisme de Jean Scot; L'influence doctrinale de Jean Scot au debut du XIIIe siècle, in Revue de sciences philosophiques et théologiques, I (1907), pp. 674-85; II (1908), pp. 747-48; IV (1910), pp. 104-106; E. Kennard Rand, Johannes Scottus, Monaco 1906; M. Techert, Le platonisme de J. Scot. Érigène, in Revue néoscol., I; C. Albanese, Il pensiero di G. E., Messina 1929.
Per una più compiuta bibliografia cfr. il Grundriss dell'Ueberweg, 2ª parte curata dal Geyer, Berlino 1928, p. 693 segg.