QUIRINI, Giovanni
QUIRINI, Giovanni. – Probabilmente identificabile con «Ser Zanino Quirino quondam Karuli» (Padoan, 1993, p. 248), nacque a Venezia prima del 1295 e verosimilmente un decennio prima, da Carlo, il quale godette nella città di una certa autorevolezza.
Quirini apparteneva al ramo della famiglia di S. Paolo rimasto estraneo alla congiura organizzata da Baiamonte Tiepolo, conservando per questo residenza veneziana e rango nobiliare. Nei documenti, infatti, è disegnato rispettosamente come «nobilis vir», «dominus», e «ser». Il padre fu incaricato varie volte di delicate ambascerie: nel marzo del 1310 fu inviato, con Francesco Dandolo, il futuro doge, oratore a Clemente V per chiedere l’assoluzione dall’interdetto che il pontefice aveva emesso contro Venezia (Padoan, 1993, pp. 248 s.). Ebbe un fratello, Francesco, con il quale collaborò nelle mercature. Di un altro fratello, Marco, è rimasto solo il nome negli alberi genealogici (ibid., p. 249).
Nel 1312 era per mercatura in Armenia, come si apprende dall’elenco delle tasse esatte dai mercanti in transito a Tabriz, mandato al doge dal bailo veneziano in Armenia Gregorio Dolfin (ibid., p. 249). Nel 1316 sposò a Venezia Donata di Giacomo Quirini da S. Zulian, del ramo sfortunato della famiglia, dalla quale ebbe quattro figli maschi: Roberto, Francesco, Balduzzo e Piero. Tra l’estate del 1317 e l’agosto del 1318 era in Eubea: è infatti nominato («Johannes Quirino») in una delibera del Maggior Consiglio, in cui venne però coinvolto anche il fratello Francesco: il fatto che gli ufficiali si fossero rivolti a Francesco dimostra che Giovanni probabilmente non si trovava a Venezia. Dall’Eubea scrisse, infatti, tre sonetti, in cui racconta di avere assistito a uno scontro navale tra la compagnia catalana degli Almogaveri e i Veneziani capitanati da Bertuccio Michiel (sonetto 31, vv. 1-4: «Lo nostro bon Bertucio de’ Micheli / cum duo suo legni e due altre galee / a la Compagna là dal Ponte dèe / grave bataglie cum balestre e teli», Rime, a cura di E.M. Duso, 2002, p. 52).
È in questo periodo che va collocato l’inizio dell’attività lirica di Quirini, che si protrasse sino al 1327. La tradizione delle sue rime, adespote, ma a lui oggi attribuibili con una certa sicurezza, è quasi totalmente rappresentata da una sezione di cento componimenti del manoscritto Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Lat. XIV.223 (= 4340), dove coabitano insieme rime di Francesco Petrarca e di Giovanni Dondi dall’Orologio, alla cui mano una parte della critica tende ad attribuire la paternità. All’interno della silloge sono individuabili parziali criteri di ordinamento: le rime sono suddivise in religiose-moraleggianti e amorose, e tendono a raggrupparsi anche in base alla forma metrica. Le uniche due canzoni appaiono collocabili in posizioni strategiche: la prima, di soggetto politico-morale, si trova nella metà della silloge e chiude una lunga sequenza di sonetti; la seconda occupa proprio l’ultimo posto, fungendo come vero e proprio congedo (Rime, cit., p. XXI).
Nel 1320, rientrato a Venezia, Quirini fu nominato, con il cognato Andriolo, commissario ed esecutore testamentario dal suocero, che risiedeva a Gubbio (Padoan, 1993, p. 250). L’anno dopo era ancora a Venezia o almeno nel Veneto, se poté compiangere, sempre in un sonetto, la morte di Dante (sonetto 52, vv. 12-17: «Or sum le Muse tornate a declino / or sun le rime in basso descadute, / ch’erano in preggio et in honor cresciute. / Lo mondo plora il glorioso Dante, / ma tu, Ravenna, che l’avesti in vita / et or l’ài morto, ne se’ più agradita» (Rime, cit., p. 82).
Uno degli aspetti più interessanti della vita di Quirini, su cui la critica ha a lungo dibattuto, è proprio il presunto rapporto di amicizia con Dante Alighieri. La credenza di una vera e propria amicizia tra i due cominciò prestissimo: già entro il 1382 Giovanni Girolamo Nadal nella sua Leandreide metteva in bocca a un Dante intento a una rassegna di poeti trecenteschi questi versi: «il primo è Ian Querin, che mi fu amico / in vita» (Rime, cit., p. XVI). Due codici, inoltre, Milano, Biblioteca Ambrosiana, O.63 sup. e Oxford, Bodleian Library, Canon. it. III, tramandano una decina di componimenti di corrispondenza, esplicitamente attribuiti a Dante e a Quirini. Ma l’attribuzione a Dante, nonostante uno dei sonetti, Nulla m’aparve mai più crudel cosa, venga inserito da autorevoli critici, come Gianfranco Contini, Michele Barbi e Vincenzo Pernicone, tra le rime dubbie dantesche, appare poco plausibile. La questione del rapporto tra i due poeti riguarda infine il dibattito sul cosiddetto ciclo di Lisetta o dell’orsa, cui appartiene una serie di sonetti di Quirini e dei suoi corrispondenti in cui si cantano le lodi di una donna chiamata Elixe o Issabetta, che avrebbero le stesse caratteristiche della Lisetta dantesca. Proprio Dante sarebbe stato sollecitato a intervenire nella corrispondenza: lo avrebbe fatto con il sonetto Per quella via che la bellezza corre (Barbi, 1941, pp. 246 s.). In realtà pare più probabile l’ipotesi che non sia stato Dante, in tarda età, a inserirsi nella corrispondenza poetica sull’Issabetta, ma al contrario siano stati Quirini e i suoi corrispondenti a giocare sul rapporto con la Lisetta dantesca (Rime, cit., p. XIX).
Nel 1322 Quirini non era a Venezia: la commissaria del suocero fu, infatti, assunta temporaneamente dal fratello Francesco. Due anni dopo le parti si invertirono: Quirini era a Venezia, e Francesco a Tabriz per mercatura. Tra il 1326 e la prima metà del 1327 si fece promotore e difensore dell’opera dantesca dagli attacchi di Cecco d’Ascoli. Avendo sentito parlare dell’Acerba, la chiese in prestito al suo corrispondente, Matteo di Mezzovillani: letto il poema con attenzione, ne biasimò l’autore, rallegrandosi perfino della sua morte. A Quirini spetta di diritto il titolo di primo cultore e diffusore dell’opera dantesca nel Veneto e anche di custode della sua tradizione manoscritta: egli infatti risulta, da un suo sonetto (n. 34 dell’edizione Duso), essere possessore di un codice contenente forse l’intera Commedia (Folena, 1990, pp. 303 s.).
Tra il 1327 e il 1330 fu a Venezia, sempre più impegnato nelle prestazioni commissariali per la tutela dei beni dei Quirini colpiti da condanne politiche (Padoan, 1993, pp. 252-254).
Morì, come comprovato dal testamento stilato per mano del notaio Nicolò Donusdeo, a Venezia, in una data compresa tra il 21 febbraio e il 1° dicembre del 1333.
L’edizione moderna delle Rime è a cura di E.M. Duso, Padova 2002.
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