GRIMANI, Giovanni Pietro (Zampiero)
(Zampiero Nacque a Venezia il 13 genn. 1755, da Marcantonio del ramo di S. Polo, "dell'Albero d'Oro", e Maria Pisani. Il 25 nov. 1796 sposò Marina Donà; il matrimonio fece scalpore per la bellezza della sposa. Dopo alcuni incarichi nelle magistrature minori della Serenissima, il G. fu eletto a più riprese, tra 1786 e 1789, tra i cinque savi di Terraferma, organo del Collegio presieduto dal doge. Ma si distinse soprattutto nella diplomazia, giungendo all'apice del cursus honorum nell'ultimo decennio della Repubblica con la nomina (2 maggio 1789) ad ambasciatore alla corte di Caterina II di Russia.
Le relazioni diplomatiche tra la Serenissima e gli zar erano recenti: datavano, infatti, al 1783, quando erano stati allacciati rapporti ufficiali attraverso la nomina di un "nobile a Pietroburgo", città dove risiedevano lo zar e il corpo diplomatico. San Pietroburgo, infatti, era comodamente raggiungibile via Varsavia, e rispondeva più di Mosca ai criteri occidentali della zarina.
Il G. partì per la Russia nella primavera successiva: giunto in riva alla Neva nel maggio 1790, ripartì per Venezia alla fine dell'ottobre 1794. Nella Dominante rimase due anni come savio del Collegio, sino a quando ricevette le credenziali per una nuova missione diplomatica, per la quale era stato scelto dal Senato sin dal 30 apr. 1795: fu l'ultimo rappresentante diplomatico veneto "in Germania", cioè alla corte dell'imperatore Francesco II, affiancando A. Garzoni, a Vienna già dal 1792. Giunse nella capitale austriaca alla vigilia di Natale del 1796, rimanendovi, dopo la partenza di Garzoni, oltre il fatidico 12 maggio 1797.
La quarantina di dispacci che il G. firmò, sino al 25 apr. 1797, costituiscono un'ulteriore testimonianza del triste tramonto della Repubblica e della sua classe dirigente. La confusione sulle sorti della Serenissima, mentre si svolgeva il congresso di Leoben, è evidente: "tal è l'oscurità che accompagna l'andamento delle cose e così profondo secreto copre le idee di questo ministero che molto incomodo riesce […] il dover travagliare soltanto sopra segni incerti ed alle volte contraditori, onde penetrare […] quale possa essere alla pace il destino dell'Italia e quali pensieri si abbiano sulla Lombardia" (n. 34/I, 22 aprile). Un quadro oscuro che non fa immaginare, al pur attento ambasciatore, la fine della Repubblica: si parla, infatti, solo della possibile perdita della Lombardia, mentre le legazioni diventano merce di scambio tra Impero, Venezia e Francia. Anche la situazione della corte imperiale, sotto la minaccia francese, non è meno drammatica: "continuano ancora ad ispedirsi per la Boemia le casse degli archivi" delle cancellerie, ma "nulla si sente ancora intorno alla partenza delle loro maestà imperiali, le quali è certo che portar si devono a Buda, mentre il corpo diplomatico […] si sente che avrebbe assegnata la sua residenza [nel]la città di Praga, dove la cancelleria di Stato si fisserebbe" (n. 34/II, 22 aprile). Timori che l'armistizio del 18 aprile vanificò per l'Austria, con il rientro degli archivi e della corte (n. 36, 25 aprile), ma accentuò per Venezia, con la firma dei preliminari di Leoben, ratificati dal trattato di Campoformido (17 ott. 1797).
I rapporti stabiliti dal G. alla corte viennese gli tornarono particolarmente utili nel prosieguo della sua carriera politica e nelle istituzioni. Come lui altri aristocratici veneziani, da F. Pesaro a F. Labia, da I. Priuli ad A. Querini Stampalia, fuggiti a Vienna o rimastivi dopo la caduta della Repubblica, intuendo che gli Asburgo sarebbero arrivati presto a Venezia, iniziarono ad accreditarsi come fedeli uomini d'ordine, divenendo poi esponenti del governo austro-veneto, la cui prima presidenza venne affidata, però, al lombardo G. Pellegrini (gennaio 1798). Il G. fu tra i primi a rientrare, nominato i.r. consigliere intimo e presidente di un effimero Maggior Consiglio, convocato un'ultima volta per il giuramento di fedeltà all'Austria (23 febbraio). Fu quindi presidente del tribunale di Sanità (31 marzo); all'improvvisa morte di F. Pesaro (25 marzo 1799), allora commissario straordinario, venne coinvolto come presidente del governo, carica che ricoprì da solo o affiancato dall'i.r. consigliere L. de Roner, dal marzo 1800 al 1801. Nel 1802-03 gestì la fase di passaggio istituzionale come vice del nuovo governatore, il barone J. von Mailath; poi, per qualche mese, anche del successore, il conte F. von Bissingen-Nippenburg, quando l'Austria diede sistemazione definitiva alle nuove province. Completata la riforma istituzionale, il G. tornò alla guida del tribunale di Sanità sino al 1806, quando scomparve di scena all'arrivo dei Francesi, mentre anche i conti economici della famiglia seguivano le sorti dell'ex Dominante, con la biblioteca e la quadreria del palazzo di S. Polo venduti all'incanto nel 1808.
La sua azione politica, nel tribunale di Sanità e più tardi nel governo, risentì spesso di un clima di rivalsa, a volte di "personale vendetta", nei confronti dei vecchi nemici democratici protagonisti dell'intensa stagione della Municipalità, ritenuti dal patriziato complici dei Francesi e principali responsabili della fine della Repubblica, indipendentemente dal ruolo effettivo dei singoli. Così il G. cercò di esautorare il celebre protomedico F. Aglietti, salvato dall'intervento di Pellegrini; ma peggiori e più ampi regolamenti di conti vennero intrapresi con l'arrivo di F. Pesaro. Il breve governo di questo (due mesi) fu un tentativo di restaurazione oligarchica sotto l'egida imperiale, confidando nel fatto che l'Austria lasciasse una forma di autonomia alla città. La sua morte improvvisa (25 marzo 1799) riportò a più miti consigli anche il G., che progressivamente sposò la linea della corte di Francesco II (poi Francesco I d'Austria). Lo si vide nel progetto di riforma ecclesiastica messo in atto da Mailath con l'appoggio del G., che ricalcava un modello tardo giuseppino teso a riaffermare la centralità e il controllo dello Stato.
Ritornata Venezia sotto il dominio degli Asburgo, il G. fu riconfermato nella nobiltà l'8 febbr. 1819, ricevendo la dignità di conte dell'Impero. La data di morte è ignota (nel 1830 è indicato da Schröder come già morto).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Elezioni in Pregadi, reg. 26 (1786-97), cc. 54 (Vienna), 56 (Pietroburgo); Ibid., Dispacci Senato, Ambasciatori, Germania, filza 300; Ibid., Commissione araldica, b. 108; Ibid., Misc. codd., I, St. veneta, 17: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, IV, cc. 155-156; F. Schröder, Repertorio genealogico delle famiglie confermate nobili e dei titolati nobili esistenti nelle provincie venete, I, Venezia 1830, pp. 399 s.; E. Bassi, Palazzi di Venezia. Admiranda urbis Venetae, Venezia 1874, pp. 418-423; R. Bratti, La fine della Serenissima, Venezia 1917, pp. 100 s.; M. Gottardi, L'Austria a Venezia. Società e istituzioni nella prima dominazione austriaca, 1798-1806, Milano 1993, pp. 31-44, 152-159; Al servizio dell'"amatissima patria". Le memorie di Lodovico Manin e la gestione del potere nel Settecento veneziano, a cura di D. Raines, Venezia 1997, passim.