FERRETTI, Giovanni Pietro
Nacque a Ravenna nel 1482, da Niccolò e da Bona Franchina. Il padre, figura di spicco dell'umanesimo ravennate, fu professore di grammatica e di retorica e provvide personalmente alla prima istruzione del figlio. Studiò giurisprudenza a Siena, dove nel 1510 conseguì il dottorato in utroque iure. In quell'occasione recitò una sua composizione in versi latini in onore della città toscana, dal titolo Sena vetus civitas Virginis. Rimase a Siena ancora per alcuni anni, dedicandosi all'insegnamento del diritto canonico. Tornato a Ravenna, divenne canonico cantore della basilica ursiana e prevosto della collegiata di S. Agnese.
Spinto da una grande passione per gli studi eruditi, intraprese sin da giovanissimo una intensa attività di ricerca. Per questi motivi soggiornò spesso a Roma, dove divenne protonotario apostolico, entrò in contatto con l'ambiente umanistico e frequentò biblioteche ed archivi.
La produzione letteraria del F. fu vastissima, ma è tuttora rimasta manoscritta. Un catalogo dei suoi lavori, nel quale si possono contare ben novantacinque titoli, è riportato in Ginanni, pp. 231 ss., ed è tratto dal manoscritto Vat. lat. 5835 della Biblioteca apost. Vaticana, dove segue una breve nota autobiografica dell'autore databile al 1510.
Nel 1530 fu nominato vicario generale dell'arcivescovo di Ravenna, cardinale B. Accolti. Il 15 agosto dello stesso anno papa Clemente VII lo nominò suo procuratore nella causa che opponeva la S. Sede al duca di Ferrara Alfonso d'Este, per il possesso delle città di Modena, Reggio e Rubiera, e sulla quale venne chiamato a giudicare l'imperatore Carlo V.
Quest'ultimo, l'anno precedente a Barcellona, aveva promesso al pontefice il suo appoggio contro il feudatario ribelle, ma dopo la sua incoronazione, nel febbraio del 1530 a Bologna, la sua posizione si era rivelata sempre più incerta e sfumata. Il processo si aprì a Ravenna il 25 agosto. Per il F. si trattava di documentare, carte alla mano, l'esistenza delle prerogative e dei diritti pontifici sulle città contese. Nell'aprile 1531 si giunse alla sentenza: Carlo V, guadagnato alle ragioni degli Este e timoroso di uno Stato della Chiesa troppo esteso territorialmente, con un improvviso ribaltamento di posizioni confermò al duca di Ferrara il possesso delle tre città, fatti salvi i diritti imperiali.
Nonostante l'insuccesso, da imputarsi di certo assai più a ragioni di opportunità politica che ad una pretesa incapacità del procuratore pontificio, il F. ebbe l'occasione di approfondire, con documenti di prima mano, le sue ricerche sulla storia della Romagna. Ne nacque la sua opera storiografica più significativa, il De Ravennati Exarchatu, che l'autore dedicò a Clemente VII. In seguito, sollecitato dai papi Paolo III e Giulio III, il F. ampliò il lavoro iniziale, comprendendovi anche le vicende degli altri possedimenti territoriali della Chiesa.
La tradizione manoscritta di quest'opera è costituita pressoché integralmente da manoscritti conservati presso la Biblioteca Vaticana, che in parte contengono anche frammenti degli altri lavori del Ferretti. Si tratta perlopiù di copie postume realizzate o fatte realizzare dall'attivissimo nipote-segretario E. Ferretti, anche se non mancano pagine autografe. Un primo gruppo di manoscritti contiene la prima versione del De Ravennati Exarchatu, unitamente ai documenti pontifici esibiti durante il processo del 1530: si tratta del Vat. lat. 3752 e del Barb. lat. 2500. Entrambi recano la dedica a Clemente VII. Un terzo manoscritto, il Vat. lat. 3751, riporta solamente i privilegi pontifici rintracciati dal F. negli archivi ravennati.
Un nucleo assai più consistente di manoscritti della Vaticana contiene invece il De Ravennati Exarchatu nella versione ampliata, in sette libri. Esso è costituito dal Barb. lat. 2746 (con dedica a Giulio III), dal Vat. lat. 5441 (databile attorno al 1554, con dediche a Giulio III, poi sostituite da una lettera dedicatoria a Paolo V ad opera di G. C. Ferretti, nipote dell'autore), Vat. lat. 5831 (anch'esso dedicato a Giulio III, poi a Sisto V), Urb. lat. 408 (postumo, dedicato a G. Della Rovere, arcivescovo di Ravenna). Tutti e quattro i manoscritti sono di mano di E. Ferretti. Sono invece da considerarsi copie del sec. XVII i manoscritti Vat. lat. 4968, Barb. lat. 2479 e Vat. Lat. 3753. G. Pasolini (pp. 108-111) segnalava anche un manoscritto della Biblioteca Altieri conservato a Bologna. Il Mazzatinti (p. 145) riportava una traduzione dell'opera in lingua volgare, in sei libri, nel Magliabechiano cl. XXV 698 della Biblioteca nazionale di Firenze.
Sempre nel fondo Vat. lat. della Vaticana sono conservati anche i manoscritti che raccolgono altre opere del F., spesso allo stato di frammenti. Essi sono: i Vat. lat. 5832, 5833 (autografo), 5834, 5835, 5836, e contengono, tra gli altri, gli otto libri Ecclesiasticarum disciplinarum, divinarumque institutionum commentaria, il De viris illustribus civitatis Ravennae, e il primo libro degli Annales di Ravenna, una storia della città dalle origini al XVI secolo.
Dal 1535 al 1539, pur conservando il canonicato a Ravenna, il F. fu vicario generale del vescovo di Adria, cardinale G. D. De Cupis. Convocò il sinodo, compì la visita pastorale della diocesi e fece restaurare a sue spese la casa del vescovo. Il 4 febbr. 1541 Paolo III lo consacrò vescovo di Milo, nelle Cicladi. Tuttavia il F. non visitò mai la sua diocesi, né riuscì mai a trarne i mezzi per vivere. Nel 1545 divenne suffraganeo del vescovo di Brescia, cardinale A. Corner, incarico che mantenne fino al 1547.
A Brescia si adoperò in particolare per il ripristino della disciplina del clero: nel settembre 1545 fece ristampare presso D. Turliano le Constitutiones et edicta observanda in S. Brixiensi Ecclesia et eius tota diocesi, mentre promulgò un editto che obbligava i diocesani alla denunzia degli eretici, preoccupato per la presenza saltuaria in città di personaggi come il vescovo di Capodistria P. P. Vergerio. In effetti, in una lettera indirizzata al nunzio a Venezia G. Della Casa il 17 dic. 1545, riferì di un suo colloquio con il Vergerio a Brescia e manifestò la sua preoccupazione circa il diffondersi delle idee eterodosse del vescovo di Capodistria (Conc. Trid., X, p. 346 n. 1). Intanto, sempre nel 1545, Paolo III lo spinse a dimettere il vescovato di Milo, sebbene con la riserva del titolo, con la promessa di un'adeguata ricompensa consistente in un nuovo vescovato, magari più remunerativo.
Partecipò al concilio di Trento in qualità di vescovo titolare di Milo (nonostante che, dal 6 nov. 1545, fosse stato eletto suo successore G. Castagnola). Vi si recò dapprima nel giugno 1546 e si trattenne solo pochi giorni, costretto a rientrare a Brescia per il Corpus Domini e per ricevere il vescovo titolare A. Corner. Ritornò a Trento solo il 4 ottobre successivo. Il F., come altri prelati non particolarmente facoltosi, percepiva uno "stipendio" mensile di 25 scudi per sostenere le spese di permanenza. Prese parte alle sessioni conciliari V, VI, VII, VIII, e nel 1547 entrò a far parte della commissione incaricata di rivedere il decreto sulla residenza e di quella sugli abusi dei sacramenti.
Nel marzo 1547 era a Bologna, dove, ufficialmente, a causa di una epidemia scoppiata a Trento ma in realtà per i dissidi scoppiati tra Carlo V e Paolo III, era stato traslato il concilio. Vi rimase fino a tutto il 1549, pur manifestando inizialmente scetticismo circa la scelta della nuova sede.
Durante questo periodo ebbe stretti rapporti epistolari con il cardinale M. Cervini, legato apostolico al concilio e futuro papa Marcello II, con il quale condivideva anche l'amore per le lettere classiche e per gli studi dottrinali. Riuscì a guadagnarsi la sua intercessione e quella dell'altro legato e presidente del concilio, il cardinale G. M. Del Monte (il futuro Giulio III), presso il cardinale A. Farnese per ottenere quella nuova sede episcopale che Paolo III gli aveva promesso già qualche anno prima. Ma evidentemente il partito cui il F. si appoggiò non era in grado di imporre a papa Farnese il rispetto del suo impegno. Così, alla morte di A. Steuchi, vescovo di Chissamo a Creta, il F. non esitò a farsi raccomandare presso il cardinale nepote dai legati Del Monte e Cervini per ottenerne la successione. Ma il tentativo non andò a segno, poiché il Farnese rispose (22 marzo 1548) che il papa aveva già provveduto ad assegnare il vescovato a P. Santa Croce.
Fu solamente nel 1550, con il nuovo pontefice Giulio III, che il F. riuscì ad essere investito di una nuova diocesi: il 5 marzo divenne infatti vescovo di Lavello (ora in provincia di Potenza). Tuttavia, forse a causa della scomodità della sede e dell'età avanzata, dopo qualche tempo chiese, senza successo, di essere trasferito a Sorrento o ad Ajaccio. Nell'aprile 1554 rinunziò al vescovato e si ritirò a Ravenna, dove trascorse gli ultimi anni dedicandosi ai suoi studi.
Morì il 6 maggio 1557 e fu sepolto nella basilica ravennate di S. Giovanni Evangelista. Nel 1589 il nipote E. Ferretti vi pose una lapide in sua memoria.
Fonti e Bibl.: Bibl. apost. Vaticana, Vat. lat. 5835, cc. 53rv, 58rv; Concilium Tridentinum, ed. Soc. Goerresiana, Diaria, I, Epistulae, I-II,Friburgi Br. 1901-1927, ad Indices; S. Pasolini, Lustri ravennati, Bologna 1681, XII, pp. 99 ss.; P. P.Ginanni, Mem. storico-critiche degli scrittori ravennati, Faenza 1769, I, pp.228-240; F. Bocchi, Della sede episcopale di Adria Veneta, Adria 1858, pp. 28 ss.; G. Pasolini, L'opera sull'Esarcato di G. P. F., vescovo di Lavellol e le sue vicende, in Atti e mem. della R. Deputaz. di storia patria per le provv. di Romagna, s. 4, XII (1921-22), pp. 101-118; M. Mazzotti, Ferrettiana. Note di storia e di archeologia ravennate, in Felix Ravenna, s. 3, XVIII (1955), pp. 36-48; G. Alberigo, I vescovi ital. al Concilio di Trento, Firenze 1959, ad Indicem; G. van Guklik - K. Eubel, Hyerarchia catholica, III, Monasterii 1923, pp. 221, 243; G. Mazzatinti, Gli inventari dei manoscritti delle Bibl. d'Italia, X, p. 145.