PIANORI, Giovanni
– Nacque, nono di quindici figli, a S. Martino in Poggio, frazione del comune di Brisighella, vicino a Faenza, il 16 agosto 1823 da Giovanni Antonio e Barbara Legramanti.
Nel 1832 il padre, piccolo possidente di modeste condizioni, ottenne dal Municipio un sussidio per il sostentamento della sua numerosa prole e nel 1838 fu impiegato come guardia del dazio comunale. Il nuovo impiego di Giovanni Antonio determinò la divisione della famiglia, una parte della quale si stabilì con la madre a Faenza. Qui, i più giovani figli maschi furono avviati verso l’apprendimento di un mestiere, non potendo permettersi di studiare a differenza del cugino Francesco Pianori (1811-1884), figlio dello zio Bartolomeo, teologo e frate con il nome di Angelo, e successivamente vescovo di Faenza. Giuseppe e Alessio diventarono sarti, mentre Giovanni, insieme a Senesio, fu messo a bottega presso la calzoleria di Sante Padovani, del quale il 16 gennaio 1845 sposò la figlia Virginia. Il trasferimento in città mise Giovanni in contatto con il turbolento e violento universo della popular politics delle Legazioni pontificie, al cui interno compì il suo apprendistato nazional-patriottico di segno anticlericale e repubblicano. Combatté al seguito del conte mazziniano Raffaele Pasi nelle squadre armate di militanti liberali e radicali che negli anni Quaranta si opponevano e contendevano lo spazio politico-militare ai corpi di volontari pontifici detti ‘centurioni’.
Quelle formazioni si muovevano in un contesto di ‘guerriglia civile’ permanente, fatta di scontri aperti e tentativi insurrezionali (1843, 1845), ma anche e soprattutto di colpi di mano, imboscate, sparatorie e accoltellamenti di gruppo e individuali. In quegli anni, insieme all’amico Domenico Montanari che fungeva da guardia del corpo del capobanda repubblicano Vincenzo Caldesi, Pianori sperimentò la collaborazione interclassista fra signori e plebei tipica della politicizzazione risorgimentale, diventando uno dei più fidati compagni del conte Pasi, al quale lo legò un complesso rapporto in cui l’antica deferenza asimmetrica s’intrecciava alla nuova amicizia paritetica.
Pianori partecipò quindi alla prima guerra di indipendenza e alla difesa di Vicenza nel battaglione della guardia civica guidato da Pasi e aggregatosi al corpo di spedizione di Giovanni Durando. Dopo la sconfitta e il rientro dei volontari avvenuto il 22 giugno 1848, conobbe un processo di ulteriore radicalizzazione politica e unì la frequentazione del Circolo popolare a quella del caffè della Costituente. Intitolato alla ‘parola magica’ rilanciata da Giuseppe Montanelli al suo ritorno dalla prigionia in Austria e rapidamente trasformatasi in vessillo del momento democratico e repubblicano del lungo Quarantotto italiano, a Faenza il caffè fu luogo di ritrovo dei reduci e dei militanti che interpretarono la proclamazione della Repubblica Romana come un’occasione di revanche violenta nei confronti degli avversari sia liberali moderati che reazionari. Lo stesso Pianori fu protagonista l’8 maggio 1849 nei pressi di porta Ravegnana del ferimento a colpi di pistola del ‘papalone’ Giovanni Savorelli, che successivamente avrebbe dichiarato che il suo assalitore «tirava a tutti quelli che non erano del suo partito repubblicano» (Zama, 1979, p. 51). Dopo questo episodio, Pianori si allontanò da Faenza per recarsi a Roma a difendere la Repubblica sempre agli ordini di Pasi, eletto deputato dell’Assemblea Costituente e poi nominato comandante del 4° reggimento di linea che si segnalò nella riconquista del Casino dei Quattro Venti il 25 maggio 1849.
Rientrato a Faenza, dove aveva lasciato la moglie e una figlia, Angela, nata il 3 maggio 1847, Pianori fu arrestato il 23 agosto 1849, accusato dell’assassinio del fabbro ferraio Giovanni Monti, avvenuto a colpi di arma da fuoco l’8 maggio 1849 nei pressi di porta Ravegnana, a poche ore dal ferimento di Savorelli. Interrogato il 13 novembre 1849, Pianori dichiarò che la sera dell’uccisione di Monti era nell’osteria di Finzino dove tutti lo avevano potuto vedere, indicando fra i testimoni anche un fratello dell’ucciso che non poté che confermare. Dopo avere peregrinato per le prigioni di Faenza, Bologna e Ravenna, il 28 gennaio 1850 fu infine scagionato e liberato. Ma lo scoramento e l’indignazione di fronte alla dura repressione poliziesca seguita alla caduta della Repubblica lo spinsero a esporsi in continue manifestazioni di intemperanza pubblica verso le autorità e le forze dell’ordine, culminate la sera dell’8 maggio 1850 in uno scontro verbale con una squadra di veliti pontifici che scortavano in carcere un suo compagno di fede politica. Inseguito, fece perdere rocambolescamente le sue tracce, ma di fronte all’emanazione di un mandato di cattura nei suoi confronti, decise di prendere la via dell’esilio, recandosi nel Regno di Sardegna con l’aiuto del commerciante-patriota Luigi Bellenghi, dopo una tappa rituale a Modigliana presso don Giovanni Verità.
All’inizio, Pianori non disdegnò di sfidare il governo pontificio rientrando a Faenza clandestinamente per brevi periodi, come fra febbraio e marzo e poi a metà maggio 1851. In seguito, stabilitosi a Genova, dove poteva contare sull’aiuto di una vasta rete di patrioti radicali fra i quali, in particolare, Domenico Pozzi, emigrato all’indomani della rivolta di Rimini del settembre 1845, egli decise di assecondare il desiderio della moglie di raggiungerlo con i figli (l’8 gennaio 1852 era nato Edoardo). Nel dicembre 1852, dopo un breve soggiorno a Firenze presso i fratelli Olinto, cuoco presso la corte granducale, e Pompeo, orefice smaltatore, che da tempo risiedevano in Toscana, Pianori e la sua famiglia si imbarcarono da Livorno per Bastia, dove egli non abbandonò la militanza politica, ma aprì una bottega di calzolaio frequentata da molti esuli, fra i quali Nicola Fabrizi e Francesco Maria degli Azzi Vitelleschi. A conferma del suo attivismo politico, al momento dell’imbarco, Pianori cominciò a utilizzare una finta identità spacciandosi per Antonio Liverani, patriota faentino giustiziato a Foligno dagli Austriaci nella notte fra il 13 e il 14 luglio 1849, del cui passaporto era in possesso. Proprio per timore che un controllo incrociato sui documenti della moglie lo facesse scoprire e per avere una maggiore libertà di azione, nel settembre 1853 convinse Virginia a ritornare a Faenza con i figli presso il suocero Sante Padovani.
Dalla primavera del 1854 Pianori viaggiò attraverso il centro-sud della Francia (Marsiglia, Lione, Chalon-sur-Sâone), approdando in agosto a Parigi, dove entrò in contatto con esponenti dell’esulato che condividevano il progetto di un attentato contro Napoleone III, giudicato doppiamente traditore sia per avere rinnegato gli ideali liberali di gioventù praticati nella penisola durante i moti del 1831, sia per avere ‘pugnalato’ prima la Repubblica Romana e poi la Seconda Repubblica francese, secondo un’immagine ossessiva che pervadeva la pubblicistica e l’iconografia democratico-patriottica del tempo.
Pianori aderì senza incertezze al revival teorico (e pratico) del tirannicidio che caratterizzava l’azione dell’universo repubblicano e radicale europeo negli anni Cinquanta dell’Ottocento, trovando in prima fila nella sua legittimazione lo stesso Giuseppe Mazzini, il quale immaginò di approfittare della guerra di Crimea per rilanciare l’azione rivoluzionaria sul continente attraverso un duplice colpo che nella primavera del 1855 avrebbe visto coincidere l’eliminazione di Napoleone III e lo scoppio di un’insurrezione a Genova.
Pianori divenne uno dei protagonisti di questo piano e nel dicembre 1854, mentre la moglie da mesi non aveva sue notizie e cercava invano di comunicargli la notizia della nascita l’8 aprile del loro terzo figlio Gaspare Creonte, lasciò all’improvviso Parigi per recarsi a Londra. Qui, probabilmente tramite gli antichi compagni faentini Vincenzo e Leonida Caldesi, incontrò Mazzini ed esercitò insieme a lui in un poligono di Wimbledon la sua abilità con le armi da fuoco appresa (e sperimentata) negli anni Quaranta. Rientrato a Parigi nel marzo 1855, con l’aiuto di diversi esuli artigiani faentini, fra i quali l’ebanista Domenico Lama che avrebbe narrato più tardi di avere fuso e colate in stampi di legno da lui stesso confezionati le palle di piombo destinate all’imperatore, Pianori si preparò alla sua missione, che mise in atto nel tardo pomeriggio del 28 aprile 1855, approfittando della passeggiata a cavallo che Napoleone III era solito concedersi quotidianamente dagli Champs Élysées al Bois de Boulogne, accompagnato da due soli ufficiali di scorta. Avvicinatosi indisturbato al suo obiettivo, Pianori sparò due colpi che, anche grazie all’improvviso movimento del cavallo scosso, andarono a vuoto, prima di essere immobilizzato e preso in consegna da diversi agenti accorsi sul luogo. Aveva con sé il passaporto di Antonio Liverani, oltre ad altre due pistole, un pugnale e un rasoio.
Il processo presso la corte d’assise della Senna si aprì poco dopo, il 7 maggio 1855, per concludersi il giorno stesso con una condanna a morte per ‘parricidio’, eseguita per mezzo della ghigliottina in place de la Roquette a Parigi il 14 maggio 1855.
Nonostante la censura imposta dal governo francese sull’accaduto per non oscurare l’inaugurazione dell’Esposizione universale di Parigi prevista per il 15 maggio 1855, l’attentato suscitò grande eco mediatica in tutto il mondo, trasformando la figura di Pianori nell’archetipo, da un lato, dell’assassino politico, dall’altro del vendicatore repubblicano. La vicenda, inserendosi in una lunga sequenza di colpi riusciti, mancati o immaginati contro i nemici interni ed esterni del Risorgimento nazionale, contribuì altresì ad avviare nella costellazione democratica italiana un’aspra discussione che durante la primavera del 1856 culminò nello scontro, ampiamente veicolato dai circuiti comunicativi europei, intorno alla «teoria del pugnale» fra Daniele Manin e Mazzini.
Secondo uno schema di ‘antico regime penale’, le responsabilità di Giovanni Pianori furono estese a diversi membri della sua famiglia di origine, nota per il suo radicalismo politico. Diversi suoi fratelli furono perseguiti e colpiti da punizioni esemplari. Pompeo e Olinto persero il lavoro e furono allontanati dal Granducato di Toscana, mentre Alessio fu consegnato dal governo pontificio a quello transalpino e Senesio fu arrestato al confine francese e identificato grazie a un dagherrotipo. Entrambi furono deportati, senza processo, all’Île du Diable alla Cayenne, dove l’uno rimase per quattordici anni prima di usufruire di un’amnistia nel 1869 e l’altro, la cui identità nel bagno penale era stata cancellata attraverso la registrazione sotto il nome di Angelo Zenone, morì durante un tentativo di evasione nell’agosto 1856.
Fonti e Bibl.: Cospirazioni di Romagna e Bologna nelle memorie di Federico Comandini e di altri patrioti del tempo (1831-1857), per cura di A. Comandini, Bologna 1899, pp. 323-345; P. Zama, Giovanni Pianori contro Napoleone III, Modena 1933; Id., Giovanni Pianori giudice e giustiziere. Un ribelle romagnolo sulla ribalta europea - Parigi 1855, Bologna 1979; E. Strada, «Osare e morire» per l’Italia e per Mazzini. Giovanni Pianori detto il Brisighellino, Faenza 2012. Mentre Piero Zama, oltre che attingere ampiamente ad Alfredo Comandini e alle fonti orali, aveva utilizzato esclusivamente fondi italiani (in particolare l’Archivio criminale dell’Archivio di Stato di Ravenna, sez. di Faenza), a Enzio Strada, il più recente e appassionato biografo di Pianori, si deve l’individuazione di una copiosa mole di nuovi documenti e materiali iconografici in archivi nazionali e stranieri, fra i quali: Parigi, Archives nationales; Nantes, Archives diplomatiques; Aix-en-Provence, Archives nationales d’outre-mer; Londra, Public Record Office; Roma, Archivio segreto vaticano; Ibid., Archivio di Stato, Direzione generale di Polizia; Ibid., Istituto per la storia del Risorgimento italiano. Inoltre, si vedano: Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, LIII, Imola 1929, p. 299; LIV, ibid. 1930, pp. 91, 131, 260, 266 s.; LV, ibid. 1929, p. 55; LVI, ibid. 1930, p. 12; LIX, ibid. 1931, pp. 285, 295; LXI, ibid. 1932, pp. 53; R. Sarti, Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile, Roma-Bari 2000, p. 208; G. Belardelli, Mazzini, Bologna 2010, pp. 181 s.; G.L. Fruci, La bonne et la mauvaise République. Regards croisés entre Paris, Rome et Venise en 1849, in Constitutions, Républiques, Mémoires. 1849 entre Rome et la France, a cura di L. Reverso, Paris 2011, pp. 299-303, 308-310; A. Arisi Rota, Geografia della cospirazione. Reti patriottiche fra dissenso e sovversione nella Romagna tardo-pontificia, in La Romagna nel Risorgimento. Politica, società e cultura al tempo dell’Unità, a cura di R. Balzani - A. Varni, Roma-Bari 2012, pp. 84-89.