MELCHIORRI, Giovanni Paolo
MELCHIORRI (Melchiori), Giovanni Paolo. – Nato a Roma da Cristoforo nel 1670, si formò nella bottega del pittore Carlo Maratti «e sino alla di lui morte ha sugato di quella bondante e perffettissimo latte [...] a segno che, aggiuntovi il suo spirito ed il suo gran talento, perffezzionò così bene i fondamenti del disegno che forse niun più di lui si acostò a così degno maestro» (Pio).
Le fonti informano che il giovane M. studiò assiduamente la scultura antica e Raffaello (come conferma un gruppo di disegni conservato presso il Gabinetto nazionale delle stampe di Roma) e che venne chiamato intorno al 1688 in Spagna in qualità di maestro pittore di Maria Luisa d’Orléans, moglie di Carlo II d’Asburgo. La morte improvvisa della regina lo costrinse a fermarsi a Napoli dove rimase alcuni anni, trovando l’apprezzamento del viceré e del caposcuola della pittura napoletana della fine del Seicento, Luca Giordano. Nulla è rimasto della produzione di questo periodo. In seguito il M. si recò nuovamente a Napoli, dove dovette realizzare un affresco con la Gloria di s. Benedetto nel coro della chiesa dei Ss. Severino e Sossio, che sostituì gli affreschi di Belisario Corenzio distrutti dal terremoto del 1731; l’opera del M. fu scialbata nel corso di una ristrutturazione ottocentesca.
Nel 1693 licenziò una pala con la Natività, perduta, che donò alla chiesa romana dell’Arciconfraternita degli Agonizzanti, di cui era membro; i due affreschi delle pareti laterali del presbiterio, citati come autografi del M. (Titi; Pio), non sono giudicabili a causa del loro precario stato di conservazione.
L’opera testimonia i legami intercorsi fra il M. e Benedetto Pamphili, il potente cardinale protettore dell’Arciconfraternita, che in seguito divenne arciprete della basilica di S. Giovanni in Laterano e favorì la commissione al M. dell’ovale con il Profeta Ezechiele.
Nel 1694 il M. dipinse la prima opera pervenutaci, il Martirio di s. Marziale, per la cattedrale di Colle di Val d’Elsa.
La tela appare impostata in modo rigoroso tramite le diagonali che dispongono ordinatamente i gruppi di figure intorno al santo, mentre il nitore disegnativo si unisce alla meticolosità della stesura pittorica nel fissare i gesti e le espressioni di ogni personaggio. Ne risulta, però, un’immagine statica nonostante il tentativo di resa del movimento a causa della giustapposizione delle figure, che non appaiono fluidamente collegate fra di loro. Nel dipinto, oltre all’influsso di Maratti, si colgono echi sia di Andrea Sacchi sia di Annibale Carracci.
La pala d’altare con La Vergine appare a s. Andrea Corsini, ancora in situ nella chiesa di S. Maria in Traspontina a Roma, è databile alla fine del Seicento.
L’opera venne commissionata dai Corsini in sostituzione di una pala di Giulio Cesare Procaccini e testimonia gli stretti legami che intercorrevano fra loro e il Melchiorri. Non è un caso che molti dei disegni sopravvissuti del M. provengano dalla collezione della famiglia fiorentina. Impostata lungo la diagonale che va dalla figura in estasi del santo alla Madonna, l’immagine è chiaramente ispirata al dipinto di Maratti della Galleria Corsini di Firenze, inciso da Girolamo Frezza. Il M. semplifica la composizione del maestro, pone la neoreniana figura dell’angelo in piedi come trait d’union tra lo spettatore e la scena raffigurata, attenua il dinamismo degli angeli tra le nubi e conclude l’immagine nel dialogo di gesti e sguardi tra la Vergine e il santo. Rispetto all’opera di Colle di Val d’Elsa il M. licenzia un dipinto più rigoroso, nel rigido controllo dei vari elementi che compongono la scena, e più monumentale, nel grande risalto dato ai possenti corpi dei protagonisti, che occupano quasi per intero la superficie del quadro.
Il M. è documentato nel 1703 nel cantiere di S. Giovanni in Laterano alle strette dipendenze di Maratti, ricevendo un compenso per il modello in chiaroscuro del S. Pietro, poi scolpito da Pierre-Étienne Monnot.
Interno al cenacolo di artisti riuniti attorno alla figura del cardinale Pietro Ottoboni, nel 1704 il M. fu accolto nell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon.
Assiduo alle riunioni della congregazione, di cui il cardinale Ottoboni era protettore dal 1692, nel 1725 e nel 1731 fu scelto a ricoprire la carica di reggente. Nel 1707 fu ammesso all’Accademia di S. Luca su probabile intercessione di Maratti; e il dipinto con i Ss. Giovanni e Paolo, conservato presso l’istituzione, fu la probabile pièce de réception.
La piccola tela, che si ispira allaVisione di s. Giovanni Evangelista a Patmos di Maratti, conservata nel Rijksmuseum di Amsterdam, è una delle opere meglio riuscite del Melchiorri. La composizione è giocata sulla diagonale che dagli apostoli arriva alla Vergine dell’Apocalisse e sul contrasto tra la figura seduta di s. Giovanni Evangelista e la slanciata figura in piedi di s. Paolo, la cui mano affusolata sospesa nel vuoto e il roteare della testa verso destra introducono l’osservatore alla marina idillica del fondo e all’apparizione mariana. Il M. raggiunge un equilibrio compositivo inserendo la natura morta in basso a destra e i frondosi tronchi d’albero sulla sinistra; questi ultimi si accordano con il disporsi in diagonale del s. Giovanni, richiamano la verticale del corpo di s. Paolo e divergono dall’estatica figura della Vergine, che viene in tal modo posta efficacemente in risalto. L’eleganza delle figure, la composizione armoniosa, la cromia chiara e la luminosità diffusa pongono l’opera come rappresentativa della scuola marattesca.
Il 10 apr. 1709 morì il padre Cristoforo e il M. ne ereditò il patrimonio. Nel 1713 il M. è segnalato nella mostra del Pio Sodalizio dei Piceni in S. Salvatore in Lauro con una tela raffigurante S. Giacomo Maggiore, facente parte di una serie con i dodici apostoli commissionata dal cardinale Ottoboni (Pio).
L’opera, riapparsa sul mercato antiquario, ispirata al S. Giacomo Maggiore di Camillo Rusconi in S. Giovanni in Laterano, è vicina al dipinto dell’Accademia di S. Luca: nella figura aggraziata che in leggera torsione volge pateticamente lo sguardo verso l’alto, nella composizione impostata per diagonali, nella scelta cromatica. Le mani che saggiano lo spazio, il panneggio che accompagna la rotazione della figura, i capelli fluenti che ne seguono l’andamento, s’accordano al formato della tela, conferendo armonia ed equilibrio all’immagine.
Nel 1718 il M. terminava l’ovale con il Profeta Ezechiele commissionato da papa Clemente XI, elemento del gruppo di dipinti destinati a decorare le pareti della navata centrale della basilica di S. Giovanni in Laterano.
Oltre al legame con Maratti, influì sulla commissione il cardinale Pamphili, arciprete della basilica già in contatto con il M. sin dagli interventi nella chiesa degli Agonizzanti. Esistono due modelli, entrambi in collezione privata, che testimoniano la genesi dell’opera: nel primo mutano rispetto alla versione definitiva la posa del putto sulla destra, l’attributo del putto in basso a sinistra, che brandisce una spada infuocata, e lo svolgersi del ricco panneggio del protagonista; nel secondo non ci sono mutamenti sostanziali. L’ovale lateranense appare l’opera più barocca dipinta dal Melchiorri. La corpulenta figura di Ezechiele occupa quasi per intero lo spazio della tela ed è colta nel momento della visione, mentre in tralice si rivolge ai simboli degli evangelisti. Il piede in scorcio e la mano che si libra nell’aria misurano lo spazio tra il piano in cui è racchiusa l’immagine e lo spazio reale della navata, mentre il putto in alto a destra chiude la composizione avvitandosi in direzione contraria del profeta. Molte sono le analogie compositive con la piccola tela dell’Accademia di S. Luca; ma il risultato al Laterano appare quello di un’immagine più monumentale, nella quale il richiamo alla pittura di Giovanni Lanfranco e di Pietro Berrettini da Cortona viene mitigato dall’insegnamento di Maratti, che stempera il dinamismo e l’enfasi dei modelli di partenza.
Sicuramente di mano del M. è il S. Liborio che supplica la Vergine, in collezione Pallavicini a Roma, che si ispira nella composizione sia a Maratti sia a Sacchi e ripete in controparte il disporsi delle figure della pala d’altare di S. Maria in Traspontina.
Rispetto a questa, le figure appaiono meno monumentali ed eleganti e non vengono a occupare in modo perentorio l’intero spazio della tela. Il fascio di luce, che partendo da un punto imprecisato alle spalle della Vergine illumina i protagonisti dell’episodio raffigurato, e la sequenza fra l’angelo di quinta, la scena principale e la prospettiva in diagonale che si apre verso l’esterno sono un Leitmotiv della scuola marattesca, riproposto con varianti nelle opere di A. Masucci, Pietro Antonio de’ Pietri e G. Chiari.
Nel 1725 il M. risulta negli Stati delle anime della parrocchia di S. Maria del Popolo abitare nella strada «da Babuino a Monte» insieme con la moglie Angela «Retrù» (forse, Retroux), le figlie Maria Cristina, Anna Cristina, Maria Serafina e il figlio Giovanni Battista (Marchionne Gunter).
Il corpus grafico del M., rintracciato da S. Valenti Prosperi Rodinò, è in larga parte diviso tra il Gabinetto nazionale delle stampe di Roma e il Kunstmuseum di Düsseldorf. Il suo nome è associato anche all’attività di disegnatore per incisioni tratte dalle opere di Maratti. Per esempio, portano la sua firma sia la Sacra Famiglia con s. Giovanni Battista sia l’Apollo e Dafne incisi da Frezza; mentre è databile al 1729 l’invenzione per l’incisione con il Beato Celestino.
Dopo questa data non si hanno più notizie sull’attività del M., che continuò a frequentare con assiduità le riunioni dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon fino alla sua morte.
Il M. morì a Roma il 29 genn. 1745 e fu sepolto, come il padre, nella chiesa di S. Salvatore in Lauro.
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A. Agresti