Giovanni Paolo Lomazzo
Il lombardo Giovanni Paolo Lomazzo è una delle figure di spicco della cultura artistica italiana della seconda metà del Cinquecento. I suoi scritti appaiono il miglior ritratto retrospettivo della grande stagione del Rinascimento lombardo, il cui culmine aveva coinciso con la rivoluzione innescata dalla presenza di Leonardo da Vinci a Milano. Se, da una parte, Lomazzo si adopera per cristallizzare e tramandare le idee e le immagini legate a quella sottile cresta storico-culturale, i suoi scritti rivelano, tuttavia, come il clima fosse irreversibilmente mutato, e avesse dato vita al più ghiribizzoso e concettoso manierismo. Se le eccezionali esperienze di viaggio consentirono a Lomazzo di assumere, almeno per certi versi, una statura e un aggiornamento europei, la sua libertà intellettuale e il suo radicamento nel presente non gli permisero di esercitare un vero influsso al di là della Controriforma e durante l’età barocca. Ma Lomazzo non fu dimenticato: alla fine del 18° sec., all’alba della fondazione di una storia dell’arte esplicitamente italiana, Luigi Lanzi giudicava il suo Trattato dell’arte della pittura «opera degna che leggasi da’ pittori provetti» (Storia pittorica della Italia, 1795-1796, ed. 1968-1974, 2° vol., p. 317).
Le informazioni biografiche su Giovanni Paolo Lomazzo si possono desumere, oltre che dalla recente ricerca documentaria, dall’autobiografia in versi che egli pubblicò nel 1587, in appendice alle Rime (cfr. Ciardi 2005). Nacque a Milano il 26 aprile 1538 in una famiglia probabilmente non priva di contatti con le professioni artistiche, visto che non solo lui ma anche i fratelli Pomponio e Cesare si dedicarono alla pittura. Quanto a Giovanni Paolo, egli rammenterà come «Al pingere mi diei / sotto un discepolo del morto Gaudenzio Ferrari che fu già degno pittore / nomato Gian Battista Da la Cerva» (Rime, 1587, p. 529). I documenti dimostrano che l’apprendistato durò dal 1552 al 1559. Poco dopo, probabilmente nel 1561, intraprese un cruciale viaggio di formazione che lo portò sicuramente a Roma, e poi fino a Napoli e a Messina, con probabili soste a Bologna e a Firenze. Scendendo lungo la penisola, poté unire alla formazione lombarda e leonardesca una conoscenza di prima mano dei vertici della lezione di Michelangelo Buonarroti e della scuola di Raffaello Sanzio, fino agli esiti lunari di Polidoro Caldara da Caravaggio. Oltre a un possibile viaggio a Torino (che dovette avvenire tra il 1556 e il 1559), è Lomazzo stesso ad affermare di essere stato ad Anversa, dove fu anche infermo (Rime, cit., p. 107).
Le Rime sono una fonte preziosissima anche per ricostruire la sua produzione pittorica, in gran parte oggi perduta. Oltre a quella sacra, profana e decorativa («Ch’altre molt’opre che sarebbe indarno / il raccontarli di profane e sacre», Rime, cit., p. 530), l’autore descrive un numero impressionante di ritratti (circa cento), divisi per tipologie sociali, ai quali veniva annessa una straordinaria importanza, in sintonia con la lezione leonardesca, ma fuori dall’ortodossia tardocinquecentesca. Di questo corpus oggi sono riconosciuti solo i due autoritratti di Giovanni Paolo (uno all’Accademia di Brera, l’altro al Kunsthistorisches Museum di Vienna).
Al 1572 risale la terribile e fondamentale svolta della vita del pittore:
Ma questo fu il dolor ch’in quella etade / Che fiori dovea l’arte, ciò m’avvenne / Però che fu per mia infelice sorte / Negl’anni trentatré de la mia etade / Ch’allora il tempo era d’esprimer l’arte / Co’ suoi veri color, ch’in gioventute / Non seppi, bench’ardente era il desio. Ma nell’età virile il tutto harei / Fatto con ragion vere e salde e ferme: / Che harei appresso oprando spesso il stile / E percioché la cecità m’aggiunse / In cotal tempo, non potei all’opra / Che composi dell’arte di pittura / Aggiunger i disegni espressi in carta / Per chiarire i precetti, né i commenti / Far a’ miei versi, che chiamai grotteschi (Rime, cit., p. 539).
La perdita della vista, dunque, non solo impedì a Lomazzo di raggiungere la maturità pittorica, ma anche di completare le sue opere letterarie (cui a quel punto si dedicò, giocoforza, a tempo pieno) con immagini che le avrebbero rese insieme più perspicue e più fedeli alle sue intenzioni di artista-scrittore. Immerso da vent’anni nel buio, Lomazzo morì nella sua Milano il 27 gennaio 1592.
Per comprendere il pensiero di Lomazzo sono essenziali le settecento pagine della sua opera maggiore, il cui didascalico titolo è un fedele specchio dell’eterogeneo contenuto: Trattato dell’arte de la pittura, scoltura et architettura di Gio. Paolo Lomazzo milanese pittore, diviso in sette libri ne’ quali si discorre de la proportione, de’ moti, de’ colori, de’ lumi, de la prospettiva, de la pratica de la pittura, et finalmente delle istorie d’essa pittura (1584).
Si tratta di un testo ambiziosissimo, in cui confluiscono non solo la miglior letteratura artistica antecedente, ma anche filoni più desueti, come la cabalistica o la filosofia ermetica, e che si risolve in un tentativo di sistematizzazione teorica generale, e insieme anche in un manuale pratico diretto agli artisti (e i due momenti saranno spesso schizofrenicamente divisi: cfr. P. Barocchi, Scritti d’arte del Cinquecento, 1° vol., 1971, p. 971). Insomma, qualcosa di radicalmente diverso dal monumento storiografico delle Vite di Giorgio Vasari (1550 e poi 1568), che rappresentava il più recente, ma anche il più alto, raggiungimento della cultura artistica italiana ed europea.
In perfetta armonia con la mentalità manierista, in Lomazzo l’invenzione e la fantasia hanno preso il posto dell’imitazione della natura al vertice della scala dei valori:
Egli è ben vero che quelli ancora che hanno l’invenzione, per il più non possono avere la pazienza dell’operare come gli altri. Il che per altro non adviene che per le continue invenzioni e capricci che gl’assalgono per il che, appena averanno delineato un corpo e formato un gesto che gli nascono nella fantasia altri infiniti d’altra sorte, sì che non possono, per l’estremo diletto che sentono dell’invenzione, aver pazienza di finire alcuna opera cominciata. Ma i valenti e eccellenti pittori non tanto aiutati dalla natura quanto consummati nell’arte cercano di eleggere il miglior gesto per qualunque effetto (G.P. Lomazzo, Trattato, ed. 1585, p. 109).
Se dovessimo racchiudere in una sola frase l’identità degli artisti della maniera certo non potremmo definirli meglio che «non tanto aiutati dalla natura, quanto consummati nell’arte».
Nella complessa strumentazione di questi artisti «consumati», la sequela pressoché cultuale delle opere dei padri della maniera moderna (per Lomazzo, Leonardo su tutti) si accompagna a un bagaglio letterario ricchissimo e assai vario. E così, quando Lomazzo deve, per es., spiegare come rappresentare le passioni e i moti di animali che lottano tra loro, lungi dal raccomandare l’osservazione del naturale, rammenta
Leonardo da Vinci, il quale dipinse un drago in una zuffa con un leone con tanta arte, che mette in dubbio chiunque lo riguarda chi di loro debba restare vittorioso, tanto egli espresse in ciascuno i moti difensivi et offensivi.
Per poi subito dopo citare estesamente il «famoso Ariosto, in quel suo mai a bastanza lodato Furioso, dove mi sovviene di aver letto nel canto secondo, a proposito di due cani azzuffati insieme […]» (Trattato, cit., p. 178). Naturalmente, Lomazzo aderisce così al topos, tra i più fecondi e persistenti nella storia della cultura occidentale, dell’analogia tra arti figurative e arti della parola, codificata da Orazio (Ars poetica, vv. 361-365) nella fortunatissima formula ut pictura poesis («come la pittura, così la poesia»).
Con lo stesso entusiasmo, Lomazzo partecipa a un altro dibattito artistico che agitava il suo tempo, quello sulla questione del paragone, e cioè la discussione sul primato della pittura o della scultura che aveva attraversato tutto il secolo, e che intorno al 1550 aveva visto intervenire (grazie alla regia del letterato mediceo Benedetto Varchi) artisti come il Pontormo, Benvenuto Cellini, Vasari e lo stesso Michelangelo. Ovviamente, il pittore Lomazzo dà la palma alla propria arte, e lo fa con argomenti desunti direttamente dalle osservazioni di Leonardo:
Non si può in verun modo negare che quest’arte de la scoltura, per essere il proprio intrico di sassi, fatiche e simili incommodi e conseguentemente essendo nemica all’immaginazione e contemplazione, di eccellenza e di pregio non ceda alla pittura, la quale per contrario è arte lontana dalle fatiche, dagli strepiti e dalle materie grosse, il che appunto è proprio dell’arti e scienze liberali (Trattato, cit., p. 158).
È assai significativo che in un altro passaggio, in cui rivendica la supremazia della pittura, Lomazzo scelga di citare l’opera pittorica più controversa del massimo sostenitore della scultura:
Perché con la pura arte nel piano, dove non ci è se non larghezza e longhezza dimostra e rappresenta all’occhio la terza dimensione, che è il rilievo e la grossezza, e così fa parer corpo nel piano, dove naturalmente non si truova. Inoltre si soggiunge ne la definizione, che dimostra e rappresenta all’occhio i moti corporali. Il che è verissimo, e si vede chiaramente ne l’opere dei valentuomini in quest’arte. Percioché qual moto può fare un corpo et in che modo si può collocare, che non si veda ne la pittura de l’estremo Giudizio fatta di mano del divino Michelangelo ne la cappella del papa in Roma? (Trattato, cit., pp. 20-21).
La lunga ecfrasis che segue questo passo dimostra – come nota Paola Barocchi – che «nel citare il Giudizio a riprova dei moti e degli affetti espressi dalla pittura il Lomazzo evidentemente non condivide le censure classicistiche e controriformistiche» (Scritti d’arte del Cinquecento, 1° vol., 1971, p. 961) che si erano addensate su quell’opera capitale.
Lo statuto liberale della pittura passa anche, per Lomazzo, attraverso l’importanza dell’apparato teorico (una teoria che non è più la ‘scienza’ leonardesca, ma una sua sclerotizzazione ripartitoria e classificatrice), e nell’Idea del Tempio della pittura (1590) questa concezione sarà espressa in modo ancor più reciso:
Due sono le vie di operare nella pittura, una di pratica, l’altra di teorica. Per pratica opera colui che, senza saper il fondamento e la ragione di quello che fa, ha solamente una certa facoltà ch’egli si ha acquistato con un lungo esercitarsi, o si regge solamente dietro ad alcun essempio. Ma per teorica opera quello che sa mostrar con ragione di proporzionati effetti le perdite e i ravvolgimenti dei copri, e tutto quello che si può far col pennello, et appresso gli sa esplicare con parole et insegnarli, con ordine, con chiarezza con facilità ad altri (Idea del Tempio della pittura, cit., p. 32).
La verifica sul campo di questa impostazione, porta a un giudizio critico sul presente, spia evidente di una consapevolezza, ormai anche acutamente storica, della crisi manierista:
Tutti coloro che solamente con pratica snervata operano, sudino pure quanto vogliono e s’affannino, che già mai non potranno senza l’aiuto di questa [scilicet, la teorica] ottener la palma dell’arte, sì come l’hanno ottenuto, per non dir degli antichi, que’ moderni de’ quali in diversi luoghi si fa menzione […] quelli che, riguardando di continuo in questa, et accompagnando con la vera scienza l’ordinata pratica, hanno ridotta la pittura tanto innanzi, ch’io dubito che non solamente alcun non sia già mai per inalzarla più, ma né anco per mantenerla in quel colmo, anzi ch’ella sia per declinare e ritornar indietro qualche grado (p. 13).
Di qua sgorga un interessante e amareggiato affondo ‘sociale’:
Cosa che non però aviene perché a’ nostri tempi non vi siano ingegni così felici come in altri tempi, e nature così tolleranti della fatica e dello studio che è necessario in ogni disciplina, ma per la mala condizione della presente età, quale ha da sé così sbandita ogni virtù, che i buoni ingegni, vedendo la poca stima in che s’hanno gli uomini virtuosi, e la piccola mercede delle fatiche ch’è loro proposta, s’intepidiscono (p. 14).
Entrando nel merito delle prescrizioni estetiche di Lomazzo, l’idea a cui tutta la sua fortuna successiva sarà legata (anche in modo troppo riduttivo e, per così dire, formulare) è certo quella celeberrima della cosiddetta figura serpentinata:
Michelangelo diede una volta questo avvertimento a Marco [Pino] da Siena, suo discepolo, che dovesse sempre fare la figura piramidale, serpentinata e moltiplicata per uno, doi e tre. Et in questo precetto parmi che consista tutto il precetto de la pittura, imperoché la maggior grazia e leggiadria che possa avere una figura, è che mostri di moversi, il che chiamano i pittori furia de la figura. E per rappresentare questo moto non vi è forma più accomodata che quella della fiamma del foco, la quale secondo che dicono Aristotele e tutti i filosofi è elemento più attivo di tutti e la forma della sua fiamma è più atta al moto di tutte, perché ha il cono e la punta […] sì che quando la figura averà questa forma sarà bellissima […] ha il pittore d’accompagnare questa forma piramidale con la forma serpentinata che rappresenta la tortuosità d’una serpe viva quando camina, che è la propria forma de la fiamma del foco che ondeggia. Il che vuol dire che la figura ha di rappresentare la forma della lettera S […] Oltre che è sempre stato usato dagl’antichi e da’ migliori moderni […] il corpo non riuscirà mai grazioso se non averà questa forma serpentinata, come soleva chiamarla Michel Angelo (Trattato, cit., 1585, pp. 22-23).
In questa figura, che trova la sua prima applicazione riconoscibile nella Vittoria scolpita da Michelangelo per la tomba di Giulio II, è un’esasperazione del ‘contrapposto’ rinascimentale. L’affermazione di Lomazzo circa una preistoria classica dell’idea della figura serpentinata può trovare riscontro in un celebre passo (Inst. Orat., II, 14) in cui Quintiliano lodava la ricercata innovativa contorsione del Discobolo di Mirone, legittimando «l’apprezzamento del movimento del corpo umano in termini estetici piuttosto che realisticamente espressivi» (per tutto questo, v. Shearman 1967; trad. it. 1983, pp. 62-63, da cui è tratta l’ultima citazione).
Nella tipica e rigida classificazione seguita da Lomazzo, accanto al primato dell’invenzione e della composizione (che trovano appunto il loro vertice nella suprema astrazione della ‘figura serpentinata’) possono e devono avere un ruolo le altre parti della pittura, e soprattutto la luce e il colore. Sulla prima ci si sofferma con toni e vocaboli, ancora una volta, leonardeschi:
sono di tanta forza i lumi nella pittura, ch’io giudico ch’in quelli consista tutta la grazia, essendo ben intesi, e per il contrario la disgrazia, quando non sono bene intesi […] Nella qual forza e virtù sta e consiste principalmente la suprema eccellenza del pittore: per essere quella parte sua propria di fare le figure finte tanto rilevate per le percussioni dei lumi quanto sono rilevate quelle dello scultore per cagione della materia (Trattato, cit., p. 211).
Quanto al colore, Lomazzo individua nella bizzarria gratuita e antinaturalistica dei colori cangianti e delle loro affettate trasparenze un tratto tipico del manierismo internazionale maturo:
Perché ci sono alcuni colori trasparenti come è la lacca, il verderame e il verdetto che sono colori più privi di corpo che si possano adoperare quivi si richiede che del modo d’adoperargli si ragioni. Ora lavorando ad oglio usansi questi colori per rappresentar, come se veri fossero, tutti i corpi trasparenti chiari, come sono i carbonchi, i rubini e simili […] E questo nel lavorar a fresco non si può fare, benché si dia il lume e ombra della trasparenza per forza di disegno. […] I medesimi colori si usano per dare il lustro e la vivacità al raso et all’ormesino alterati dei loro colori naturali sopra le abbozzature. La quale usanza è passata tanto innanzi che senza risguardo alcuno dei precetti dell’arte, attendendo solamente alla vaghezza, si usa non solamente nei drappi menzionati di sopra, ma ancora nei paldi di falde contrarie, che non richiedono quella trasparenza o vivacità di seta. E non si può oggimai rappresentar panno alcuno di pura meschia, simile alla lana o alla tela, che non si voglia velare di colori trasparenti per dargli il lucido (Trattato, cit., p. 197).
Nello stesso contesto emerge poi una delle vere peculiarità dell’esperienza concreta di Lomazzo, a cui il viaggio nelle Fiandre (bagaglio davvero raro per un artista italiano della prima età moderna) dischiude una prospettiva assai concreta, e originale, in cui è percepibile lo iato tra la condanna teorica dello scrittore e il complice apprezzamento tecnico del pittore (e, chissà, forse anche la nostalgia per l’ormai drammaticamente negata gioia della visione):
Onde si può dire che l’arte della pittura quanto al colorare sia corrotta, massime perché questa vaghezza nelle figure è stimata tanto che non si può veder pittura, per buona che sia, che senza quella piaccia. E però è grandemente osservata da molti, sì come padri della vaghezza dei colori […] non senza onore in questo dei Fiamenghi, dei quali ho veduto certi quadri ad oglio fatti di nuovo in casa del nobile antiquario Giulio Calistano, in cui si vede quanto fuggano queste vaghezze di trasparenze; non vedendosi in tutte quelle figure altro che pure mischie che rappresentano il vero. Et in vero che sono mirabili a vedere e non mertano poca lode que’ pittori che gli hanno fatti: Gill Mostard, Pier Brugli, Giacomo Grimaldo, Francesco Flor e Martin Henscherch (Trattato, cit., pp. 197-98).
La freschezza di un brano come questo si lascia agevolmente mettere a contrasto con la paludata e astratta retorica che informa invece la maggior parte delle pagine lomazziane, segnandone indelebilmente l’immagine intellettuale. Si legga, a questo proposito, il famoso passaggio dell’Idea del Tempio della pittura nel quale egli cerca di caratterizzare in termini astrologici i differenti tipi di proporzione adottati dai massimi artisti contemporanei:
Il Buonaroto, il quale è il primo governatore, ha dato alle sue figure la proporzione di Saturno, facendo la testa e i piedi piccoli e le mani lunghe, componendo le membra con grandissima ragione e formandole con larghezza e rilievi mirabili, secondo la profondità dei muscoli grandissimi, serbando l’ordine del disegno e della notomia […] Il Ferari, che è il secondo governatore, ha seguitato la proporzione di Giove, dando ai suoi corpi grazia e dignità e formandogli con muscoli delicati, convenienti alla natura di Giove. Polidoro, terzo governatore, ha tenuto la proporzione di Marte, terribile e fiera, molto simile alle figure antiche principali che si veggono per tutta Roma e fuori […] Il quarto, che è Leonardo, ha servato la porporzione del Sole, e così perfettamente la possedeva che ne ha scritto diversi libri, ove ha disegnato tutti li arti di un corpo. Oltraché ha disegnato la notomia, la proporzione de’ cavalli e lo scorticamento de’ membri umani con tanta diligenza e rilievo che io tengo certo niun’altro poterlo agguagliare fuor che il grande Apolline, dio e governatore delle scienze. Rafaelo, quinto governatore, ha seguito la proporzion di Venere come più ragionevole e conveniente dell’altre proporzioni […] Ora Rafaelo in questa proporzion venerea è arrivato a tal segno che si può dir maraviglioso, spezialmente per averla con singolar giudizio e discrezione data alle sue figure secondo ogni qualità e grado. Il sesto, che è Andrea Mantegna, ha avuto la proporzione sottile mercuriale et è stato in sua maniera leggiadro, svelto e recondito. In Tiziano, ultimo governatore, è stata la proporzion lunare diversa secondo i vari soggetti naturali che gli venivano alle mani per rappresentare (pp. 44-45).
Trattato dell’arte de la pittura, scoltura et architettura, Milano 1584.
Rime, Milano 1587.
Rabisch dra academiglia dor compa Zavardgna nabad dra Vall d’Bregn (Arabeschi dell’accademia, del compare Zavargna, abate della Val di Blenio), Milano 1589; poi a cura di D. Isella, Torino 1993.
Idea del tempio della pittura, Milano 1590; poi a cura di R. Klein, Firenze 1974.
Della forma delle muse, Milano 1591; poi a cura di A. Ruffino, Trento 2002.
L’Idea, il Trattato, il Della forma delle muse sono stati pubblicati e commentati, insieme al Libro de sogni (giuntoci manoscritto), a cura di R. Ciardi, in G.P. Lomazzo, Scritti sulle arti, 2 voll., Firenze 1973-1975.
J. Schlosser, Die Kunstliteratur, Wien 1924 (trad. it. Firenze 1964, 3a ed. aggiornata da O. Kurz).
J. Shearman, Mannerism, Harmondsworth 1967 (trad. it. a cura di M. Collareta, Firenze 1983).
C. Ossola, Rassegna di testi e studi tra manierismo e barocco, «Lettere italiane», 1975, 4, pp. 437-72.
P.C. Marani, Giovan Paolo Lomazzo artista e teorico milanese, «La Martinella», 1978, 3-4, pp. 64-72.
L. Magnani, Composizione e funzione dell’immagine secondo il Trattato di Giovanni Paolo Lomazzo, in Argomenti di storia dell’arte. Quaderno della Scuola di perfezionamento in archeologia e storia dell’arte della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Genova 1971-1979, Genova 1980, pp. 111-18.
M. Rosci, Leonardo ‘filosofo’, Lomazzo e Borghini 1584: due linee di tradizione dei pensieri e precetti di Leonardo sull’arte, in Fra Rinascimento, manierismo e realtà: scritti di storia dell’arte in memoria di Anna Maria Brizio, a cura di P.C. Marani, Firenze 1984, pp. 53-77.
M.Z. Cassimatis, Zur Kunsttheorie des Malers G.P. Lomazzo (1538-1600), Frankfurt a.M. 1985.
R. Keil, Bemerkungen zum Verhältnis von Lomazzo zu Dürers kunsttheoretischen Schriften, «Römische historische Mitteilungen», 1985, 27, pp. 413-23.
M. Kemp, ‘Equal excellences’: Lomazzo and the explanation of individual style in the visual arts, «Renaissance studies», 1987, 1, pp. 1-26.
G. Bora, Da Leonardo all’Accademia della Val di Bregno: Giovan Paolo Lomazzo, Aurelio Luini e i disegni degli accademici, «Raccolta Vinciana», 1989, 23, pp. 73-101.
C. Martinelli, La teoria delle grottesche nel “Trattato” di Giovan Paolo Lomazzo, «Eidos», 1992, 10, pp. 40-46.
M.V. Cardi, Intorno all’autoritratto in veste di Bacco di Giovan Paolo Lomazzo, «Storia dell’arte», 1994, 81, pp. 182-93.
M.V. Cardi, Gian Paolo Lomazzo: la Cena quadragesimale, «Bollettino storico piacentino», 1996, 1, pp. 77-89.
Le tavole del Lomazzo, a cura di B. Agosti, G. Agosti, Brescia 1997.
Rabisch, il grottesco nell’arte del Cinquecento. L’Accademia della Val di Blenio, Lomazzo e l’ambiente milanese, a cura di G. Bora, M. Kahn-Rossi, F. Porzio, Milano 1998.
E. Pommier, Il volto di Lomazzo, in Il volto e gli affetti: fisiognomica ed espressione nelle arti del Rinascimento, Atti del Convegno di studi, Torino (28-29 novembre 2001), a cura di A. Pontremoli, Firenze 2003, pp. 61-81.
R. Ciardi, Lomazzo Giovanni Paolo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 65° vol., Roma 2005, ad vocem.
Le opere del Lomazzo ebbero una notevole risonanza ben al di là dei confini della cultura lombarda, in cui erano tanto radicate, divenendo assai familiari alla letteratura artistica anche dell’Europa settentrionale. Ed esse rimasero ben presenti (magari attraverso la chiave d’accesso dei loro ricchi indici: cfr. Le tavole del Lomazzo, 1997) alla coscienza culturale italiana ed europea anche dopo l’esaurimento del periodo manierista: è, per es., significativo che ne dipenda per certi versi strettamente la Pittura trionfante (1615) di Giulio Cesare Gigli (1570 ca.-1640 ca.).
Il Trattato (uscito quattro volte tra il 1584 e il 1585) fu ristampato nel 1844, ed è importante segnalarne la precocissima traduzione inglese (1598) e quella francese (limitata al I libro, e merito di Hilaire Pader), del 1649.
Nel 1753 The analysis of beauty di William Hogarth rimetteva il vecchio nome del Lomazzo al centro del dibattito estetico europeo (e l’Idea del Tempio della pittura fu ristampata a Roma nel 1785). Nel clima esplicitamente ‘neomanierista’ che caratterizzava il rococò al suo apice, il mito della figura serpentinata diventava così un topos-chiave, di cui tracciare la seguente fortuna internazionale:
Molti scrittori, da Lomazzo in poi, hanno coll’istesse parole raccomandato l’osservanza di questa regola ancora, senza comprenderne il significato. Imperciocché, seppure non si sapeva sistematicamente tutta l’importanza della grazia, non era intelligibile (W. Hogarth, The analysis of beauty, 1753; trad. it. 1761, p. 8).
Dal punto di vista, retrospettivo, di Hogarth è possibile ricostruire la diffusione della «linea della bellezza» codificata da Lomazzo. Se Peter Paul Rubens indugia in «troppo arditi e gonfi serpeggiamenti», Pietro da Cortona, invece, «formò di questa linea un bellissimo gusto ne’ suoi panneggiamenti». Ma l’apice della linea serpentina va cercato ancora al culmine del Rinascimento: «Non veggiamo meglio inteso questo principio che in alcune pitture del Correggio».
Mezzo secolo dopo, il rifondatore della storia dell’arte italiana Luigi Lanzi (Montecchio 1732-Firenze 1810) non leggeva più il Lomazzo come trattato di estetica, ma come preziosa (ancorché farraginosa) fonte storica direttamente collegata al Rinascimento maturo in Lombardia:
I suoi trattati […] ridondano non pur di notizie istoriche interessanti, ma inoltre di ottime teorie udite da que’ che conobbero Leonardo e Gaudenzio, di giuste osservazioni su la pratica de’ migliori maestri, di molte erudizioni circa la mitologia e la storia e gli antichi costumi. Preziose specialmente sono le sue regole di prospettiva compilate da’ manoscritti del Foppa, dello Zenale, del Mantegna, del Vinci, oltre le quali ci ha conservato pure dei frammenti di Bramantino che fu in quest’arte spertissimo. Per tali cose, e per certa andatura di scrivere, se non piacevole come quella del Vasari, non geroglifica almeno come quella dello Zuccaro, né volgare come quella del Boschini, è il trattato del Lomazzo (Storia pittorica della Italia, 1795-1796, ed. 1962-1974, 2° vol., p. 317).