DOLFIN, Giovanni Paolo
Nacque a Sebenico in Dalmazia il 4 genn. 1736 da Antonio e da Daria Laghi.
Il padre, nato il 7 giugno 1711 da Giovanni Paolo, del ramo dei Dolfin di S. Maurizio, e da Paolina Pasqualigo, aveva seguito le orme paterne percorrendo la carriera politica e militare in Dalinazia. Nel 1736 risultava comandante della rocca di S. Nicolò a Sebenico; in seguito sarà provveditore a Macarsca (1754) e provveditore generale a Spalato (1762-1764), concludendo il suo curriculum come podestà a Monselice, in Terraferma. Negli ultimi anni, rimasto vedovo, si ritirò presso il D. a Bergamo, ove morì nel 1803.
Il D., secondogenito di sette fratelli (il primogenito Alessandro era nato il 3 genn. 1735), destinato alla vita ecclesiastica fece i suoi studi a Venezia. entrando a quindici anni nella Congregazione dei canonici regolari lateranensi, che reggevano nella città lagunare il monastero della Carità. Ordinato sacerdote il 3 die. 1758 nella chiesa di S. Giovanni Decollato a Venezia, consegui la laurea in filosofia e in teologia il 13 maggio 1759 a Bologna nel monastero di S. Giovanni in Monte dei canonici lateranensi.
Fornito di una vasta cultura nelle materie umanistiche ed ecclesiastiche (ma, oltre all'ottima preparazione nelle lingue classiche e nell'ebraico, conosceva alla perfezione - cosa inconsueta per quegli anni - il francese e discretamente il tedesco e lo spagnolo), venne subito destinato all'insegnamento come lettore di teologia nel monastero di S. Giovanni in Verdarara a Padova, ove rimase per dodici anni fino al 1771. Divenne quindi abate di governo a S. Maria della Carità a Venezia e quindi abate titolare di S. Maria di Marcatello nella stessa città.
Il 27 giugno 1774 il D. venne nominato vescovo di Ceneda. In questa piccola diocesi della marca trevigiana, soggetta alla chiesa metropolitana di Udine, in cui egli fece il suo ingresso l'8 dicembre di quell'anno, rimase per poco più di due anni e mezzo. Il 28 luglio 1777, infatti, resasi improvvisamente vacante la sede di Bergamo per la morte di Marco Molin, il D. ottenne il trasferimento in quella che era una delle più grandi e importanti diocesi della Serenissima, popolata da circa 220.000 abitanti (di cui 30.000 nel capoluogo) e dotata di una ricca mensa vescovile con un reddito annuo di 6.000 scudi romani. Il solenne ingresso nella nuova sede avvenne nel maggio del 1778, preceduto da una lettera pastorale (datata 29 apr. 1778).
In essa il D. confermava la fama che si era guadagnato durante gli anni di insegnamento, quando, dicendosi seguace della scuola teologica agostiniana, aveva dato prova di una saggia equidistanza nelle polemiche che in tema di teologia morale opponevano i fautori dell'eccessivo rigore ai lassisti.
Il giansenista G. M. Puiati, monaco del convento benedettino di S. Polo a pochi chilometri da Bergamo, già prima dell'arrivo del D. nella diocesi, ne tracciava però un ritratto impietoso: "Questo Mgr. Dolfino che da Ceneda passa a Bergamo è particolare. Egli da Lettore ne' Canon. Lateranensi univa al buon tempo il preteso carattere di Agostiniano. Fatto Vesc.o di Ceneda per mezzo della Procuratessa Tron, che nasce Dolfino, parve che si desse a certa pietà caricata, a cui di nuovo si è dato adesso che per mezzo del Card. Onorati passa a Bergamo; ed è giunto a lasciarsi infinocchiare da alcuni Esgesuiti a segno, di far stendere i Casi di coscienza, che dovean servire per la Diocesi di Ceneda dell'anno passato, sulla necessità di sottoscrivere il Formolario e la Bolla Unigenitus" (lettera al Clément del 5 genn. 1778, in Margiotta Broglio, p. 97).
Si tratta di un ritratto che coglie alcune caratteristiche della biografia del D.: la debolezza dei carattere e l'incostanza nell'azione pastorale, unite alla preoccupazione di non dispiacere all'autorità, ecclesiastica o civile che fosse.
Il D. annunciò subito (16 maggio 1778) il proposito di compiere la visita pastorale della diocesi, che iniziò l'anno successivo percorrendo con grande zelo in tre anni (1779-1781) le circa duecento località della diocesi bergamasca. Prendeva intanto severi provvedimenti. Fin dal settembre 1778 aboliva tutte le solennità religiose non raccomandate dalla Chiesa, in uso arbitrariamente nella diocesi; abolizione che ribadi alcuni anni dopo, raccomandando ai parroci di vigilare "perché le funzioni nelle chiese sieno fatte con pietà e devozione, senza superfluità di spese, senza eccessivi strepiti di sbarri, musiche ed altre simili esteriorità, che non servono ordinariamente ad altro che a vanità, ad occasioni di bagordi, e di dissipamento delle rendite ed elemosine trascurando poi il debito provvedimento delle suppellettili necessarie al decoro della casa di Dio" (lettera pastorale del 3 giugno 1780, in Dentella, p. 459). Tale rigorismo è confermato dall'ordine da lui impartito nel 1779 ai confessori di chiedere ai penitenti assicurazioni sull'onestà dei contratti da loro stipulati e dal rimprovero mosso loro di assolvere con troppa facilità (Bonicelli, p. 83).
Nello stesso tempo il D. si accostò però al "partito" gesuitico che - nella Repubblica di Venezia - aveva una delle roccaforti a Bergamo. Qui risiedeva tra l'altro l'ex gesuita Luigi Mozzi, appartenente ad una famiglia comitale del luogo, dotto e prolifico scrittore antigiansenista, che esercitava una specie di egemonia sulla cultura cattolica bergamasca. Il D. subi subito l'influenza del Mozzi, guardò con grande sospetto al gruppo giansenistico operante nel monastero di S. Polo (Pujati, G. G. Calepio, C. Rotigni, ecc.) e si iscrisse al Collegio apostolico, una associazione religiosa promossa fin dal 1773 da Maria Antonia Grumelli Podrecca, badessa del monastero di S. Chiara a Bergamo, ed entrata in attività nel 1778: gli "oblati" del Collegio apostolico (oltre al D. e al Mozzi, avevano aderito all'associazione molti ragguardevoli personaggi ecclesiastici e laici) erano vincolati da voti severi e dalla segretezza, tanto da essere colpiti a più riprese dall'accusa di perseguire come "setta segreta" fini divergenti da quelli dello Stato.
Uno dei primi obiettivi dell'associazione fu la diffusione della religiosità gesuitica attraverso la pratica degli esercizi spirituali ignaziani (il D., nella relazione ad limina del 1782, affermerà apertamente di averli diffusi sia fra gli ecclesiastici sia fra i laici) e il culto al S. Cuore di Gesù. In particolare egli aveva ottenuto fin dal 1779 dalla S. Sede per la celebrazione di tale culto una speciale indulgenza che poteva essere lucrata nella prima domenica dopo l'ottava del Corpus Domini.
L'iniziativa del D. non poteva mancare di suscitare forti resistenze nel partito avverso, che non era composto soltanto dai giansenisti di S. Polo. Agli scritti del Puiati (Riflessioni sopra l'origine, la natura e il fine della divozione al Sacro Cuore di Gesù, Napoli 1780, e Lettera al nobile sig. ... di Bergamo sopra la divozione al Cuor di Gesù, Venezia 1780) si affiancava il più moderato Anton Tommaso Volpi, parroco di Osio Superiore e di sicura fede romana (Della divozione al Sacro Cuore di Gesù: sentimento..., Venezia 1781). Tra i seguaci del vescovo si assunse l'onere di ribattere alle critiche il canonico G. Rota (L'autorità della Chiesa in favore della devozione del Ss. Cuore di Gesù contrapposta ad una Lettera al nobile sig. ... di Bergamo ecc., Venezia 1781). Ma all'interno dello stesso capitolo della cattedrale due canonici, Benedetto Passi e Francesco Sonzogni, dissentirono dal vescovo stampando una Lettera di due ecclesiastici sopra la divozione al Cuor di Gesù (Bergamo 1781), che suscitò la reazione del Dolfin. Questi rispose con una lettera circolare indirizzata a tutti i monasteri femminili (31 genn. 1781), con cui si invitavano le religiose a praticare la devozione al S. Cuore secondo lo spirito della Chiesa e faceva loro divieto di "intrattenersi a qualunque titolo con qualunque cercasse distoglierle dalla detta divozione" (Bernareggi, p. 34; ma vedi la versione del Pujati, in Margiotta Broglio, p. 143). Il Passi e il Sonzogni ricorsero anche a Venezia, provocando l'intervento degli inquisitori di Stato, che imposero il silenzio ai contendenti e allo stesso Dolfin (settembre 1781).
Portata a termine la visita della diocesi alla fine del 1781, il D. progettò di tenere un sinodo: nel marzo 1782 indisse le congregazioni preparatorie, nel giugno formulò le proposte di tesi e nel settembre successivo inviò una pastorale al clero in cui lo invitava a prepararsi per l'imminente celebrazione di esso. Il sinodo però - di rinvio in rinvio (ancora nel 1790 egli sperava di darvi inizio) - non venne più tenuto, forse perché il D. riteneva rischioso aprire discussioni di natura disciplinare e teologico-morale, dal momento che nella diocesi esisteva un piccolo ma battagliero gruppo di contestatori (del resto dalla metà degli anni Ottanta anche da parte di Roma - specialmente dopo l'esperienza di Pistoia - si sconsigliò in generale l'organizzazione di altri sinodi al di fuori dello Stato della Chiesa).
Che il D. fosse di stretta osservanza "romana" è fuori discussione, e non solo perché nel 1782 si affrettò a recarsi a Venezia (fu una delle rare assenze dalla sua residenza vescovile) per rendere omaggio a Pio VI di ritorno dal viaggio a Vienna e per inforinarlo sull'attività del Collegio apostolico di Bergamo. Lo dimostra ampiamente la condotta tenuta in occasione della ridefinizione dei confini della diocesi bergamasca e di quelle soggette allo Stato di Milano, quando - in ottemperanza alle disposizioni emanate da Giuseppe II - tra la Serenissima e il governo milanese venne concluso un accordo per far coincidere i confini delle ripartizioni amministrative con quelle religiose (ottobre 1784), in conseguenza dei quale quarantatré parrocchie dovevano passare dalla soggezione all'arcivescovo di Milano a quello di Bergamo e quella di Fara Gera d'Adda dalla diocesi di Bergamo a quella di Milano. Per le insistenze particolari del D. la questione fu formalmente rimessa nelle mani della S. Sede, che dette il placet inviando ai due vescovi una bolla di autorizzazione a formulare i nuovi confini (6 sett. 1786). Ma l'atto ufficiale, redatto nel febbraio 1787 dal D. e dall'arcivescovo F. Visconti, non faceva menzione della bolla pontificia, che rimaneva segreta (tra l'altro, le parrocchie già appartenenti a Milano mantennero il rito ambrosiano).
Negli anni seguenti, e soprattutto dopo il 1790, il D. diminui notevolmente il suo attivismo, impartendo sempre più sporadiche disposizioni disciplinari e limitandosi alle comunicazioni di ordinaria amministrazione.
Alla fine di dicembre del 1796 le truppe francesi dell'armata d'Italia entrarono a Bergamo. Il D., che si era sempre mostrato zelante avversario delle idee rivoluzionarie, in accordo con le posizioni oltranziste del Mozzi, mostrò subito un atteggiamento conciliante con una lettera pastorale (31 dic. 1796) in cui invitava la popolazione a collaborare con i Francesi (Dentella, pp. 462 s.; Belotti, St. di Bergamo, IV, p. 452).
Scoppiata a Bergamo una rivoluzione antiaristocratica e istituito un governo provvisorio sostenuto dai Francesi, il D. si affrettò a prestare il giuramento di fedeltà e quindi, il 15 marzo 1797, in un appello ai parroci della diocesi, partendo dall'assunto che "ogni potestà viene da Dio", li invitò a istruire i fedeli in modo da indurli a "obbedire con sentimento cordiale alle giuste sociali Leggi di questo Popolo Bergamasco, rappresentato dalla sua legittima Municipalità, e difeso dalla sincera, e valida protezione della Repubblica Francese; e tutto ciò perché promettono, ed assicurano di mantenere dappertutto pura, ed intatta la Divina Cattolica Religione, che professiamo, di conservare le rispettive proprietà, e di. adoperare li mezzi agevoli, ed efficaci al felice conseguimento della comune pubblica tranquillità" (il manifesto è riprodotto da Belotti, ibid., V, p. 248). Convinto che la via migliore da seguire fosse quella della condiscendenza, nei giorni e mesi seguenti il D. continuò a secondare le direttive del governo rivoluzionario, biasimando le insorgenze controrivoluzionarie delle campagne e giungendo a prescrivere al clero la rinuncia all'abito ecclesiastico e a secondare l'ordine del governo di limitare l'esercizio pubblico del culto.
Il comportamento del D. nel biennio 1797-99, anche se caratterizzato da qualche eccessiva manifestazione di servilismo, non fu però nella sostanza molto diverso da quello di numerosi altri vescovi che giudicarono la collaborazione con i governi rivoluzionari dettata da uno stato di necessità. Ma ciò che gli nocque fu la presenza nella diocesi di un agguerrito gruppo di intransigenti, tra cui il canonico G. B. Locatelli Zuccala, che si adoperarono per denunciare la debolezza del vescovo.
Dopo l'arrivo degli Austro-Russi (24 apr. 1799) e il passaggio dei territori veneti all'Impero, il D. fu pronto ad aderire al nuovo governo e a impartire severe disposizioni per il ripristino della disciplina ecclesiastica. A tale scopo istitui nel maggio 1799 una congregazione di otto sacerdoti, tra cui il suo vicario generale M. C. Passi e altri tra i più intransigenti, per processare i membri del clero che avevano dato occasione di scandalo (tra gli altri fu inquisito e trattenuto per alcuni mesi in carcere il monaco F. Facchinei, già noto per i suoi scritti controversi). Lo stesso D., secondo alcune fonti, sarebbe stato censurato dalla congregazione e di fatto esautorato, finché - concluso il conclave che elesse Pio VII - il vescovo, recatosi a Venezia, fece una solenne ritrattazione degli errori commessi nelle mani del nuovo pontefice (per la grande pubblicità data alla ritrattazione, vedi Giornale ecclesiastico universale [Milano], 29 nov. 1799, pp. 161 s.).
Rioccupata Bergamo dai Francesi (2 giugno 1800) e ricostituita la Repubblica Cisalpina, il D. mostrò nuovamente un atteggiamento conciliante con il regime napoleonico. Nel 1802 rappresentò Bergamo ai Comizi nazionali di Lione per la costituzione della Repubblica Italiana: in quella sede chiese la restituzione dei beni ecclesiastici e fu eletto membro del Collegio dei dotti.
Se da un lato egli mostrava il massimo rispetto per le disposizioni del governo, dall'altro - e proprio per i buoni rapporti che aveva instaurato con esso - egli poteva ottenere più di molti altri vescovi intransigenti la salvaguardia degli interessi della religione. Non solo egli riusci a curare in modo particolare la preparazione culturale dei chierici (una delibera del 9 giugno 1802 stabiliva che prima del suddiaconato fosse necessaria la frequenza di tre anni di scienze filosofiche e teologiche), fondando nel 1807 l'Accademia Dolfina, ma poté procedere a un numero elevato di ordinazioni sacerdotali anche a favore di molti chierici extradiocesani: la punta massima, superiore a quella degli anni prerivoluzionari, si ebbe nel 1806 con 75 ordinazioni (39 per preti diocesani e 56 per extradiocesani). Soltanto in seguito all'energico intervento del ministro dei Culti, G. Bovara (6 febbr. 1810), il D. mostrò negli anni 1810-1811 una maggior cautela.
Grazie ai suoi buoni rapporti con il governo egli poté valersi dell'attiva collaborazione di due vescovi intransigenti confinati nella sua diocesi, quello di Ascoli Piceno G. F. Cappelletti e quello di Cagli G. Cingari, ai quali affidò l'amministrazione delle cresime e le funzioni nelle valli bergamasche.
In cambio diede numerose prove di obbedienza al governo, manifestata anche con l'allontanamento del vicario generale Passi (1804), non in sintonia con le autorità civili; accettò le disposizioni in materia matrimoniale e ordinò al clero di adottare il "catechismo imperiale" in sostituzione di quello romano del Bellarmino (1807). Nel 1811 fu tra quella quarantina di vescovi italiani presenti al concilio nazionale di Parigi, promosso da Napoleone. Nel 1812, nonostante le non floride condizioni economiche, sottoscrisse una cospicua offerta per il finanziamento della spedizione in Russia.Dal maggio 1814, passata Bergamo sotto la dominazione austriaca, il D. richiamò come vicario generale il Passi, ristabilendo con severità la disciplina del clero secolare e regolare. L'atto più importante degli ultimi anni fu il riordinamento delle vicarie foranee, che furono ridotte di numero.
Il D. morì a Bergamo il 19 maggio 1819.
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