PAISIELLO, Giovanni
Musicista, nato a Taranto nel 1740, morto a Napoli nel 1816. "Figliolo" nel Conservatorio di S. Onofrio a Napoli, fu discepolo per un anno di F. Durante (morto nel 1785), poi di C. Cotumacci e di G. Abos. Uscito nel '63 dal Conservatorio, già godendo buon nome, fu chiamato a Bologna da don Giuseppe Carafa, principe di Colubrano, impresario del Marsigli-Rossi. La sua prima opera, 12 maggio '64, Il ciarlone, piacque. Deluso dell'insuccesso dei Francesi brillanti, 24 giugno '64, lasciò Bologna. Il Carafa lo raccomandò alla corte di Modena, la quale fece rappresentare I Francesi, quattordici giorni dopo la caduta a Bologna, e li applaudì. L'impresario del teatro Rangoni scritturò P., che rimase a Modena otto mesi, componendovi Madama l'Umorista, il Demetrio e qualche pezzo per varie occasioni. Parma e Venezia gli richiesero alcune opere. Ritornato a Napoli, ottenne nel '67 un grande successo con l'Idolo cinese. Colà attese a nuove opere (fra cui il Socrate immaginario) e a rifacimenti fino al '76, allorché accolse il lusinghiero invito della corte russa. A Pietroburgo compose, fra l'altro, Il barbiere di Siviglia (1782), concerti, sonate, capricci. Graditissimo a Caterina II, incaricato di molti uffici, provò la rudezza di alcuni funzionarî, e chiese il congedo dopo otto anni di servizio. Ritornato a Napoli, si fermò a Vienna, dove, per invito di Giuseppe II, compose il Re Teodoro, su libretto del Casti. Maestro di cappella e compositore della corte partenopea, compose La bella Molinara, 1788, e Nina, la pazza per amore, 1789, che ottenne un grande e duraturo successo. Dopo il 1790 coltivò specialmente l'opera seria, su libretti di R. de' Calzabigi e Pepoli. Scoppiata la rivoluzione del 1799, gli si fece colpa di aver abbandonato la corte e simpatizzato per la repubblica. Riottenuta la grazia dal sovrano, accettò l'invito di Napoleone, nel 1802; a Parigi compose Proserpina, tiepidamente accolta. Richiamato a Napoli, riprese servizio a corte, ottenendo anche altri uffici. Non seguì il Borbone in Sicilia, e, al ritorno della corte, nel 1815, fu punito con la perdita di quasi tutte le cariche.
Al pari di altri contemporanei sentì convenzionalmente la tragedia, e neppure partecipò alle competizioni per i nuovi ideali melodrammatici. E però il suo contributo al teatro serio è secondario. Nel genere comico, invece, cominciò col brillare in commedie di mediocre gusto, ne toccò accortamente tutte le tendenze, pervenne a un'espressione che prima di lui non era mai stata altrettanto elevata, poetica, bellamente definita. E nell'opera comica ebbe agio di sperimentare le più diverse forme dei pezzi tradizionali, di progredire con i suoi tempi o d'innovare. Non si scorge pertanto una decisa scelta di alcuni mezzi e l'eliminazione di altri, sicché una tale rassegna non può essere condotta cronologicamente.
Le sinfonie in tre movimenti spesseggiano nelle opere giovanili, quelle in uno, invece, nelle posteriori. Nelle prime l'allegro iniziale è sobriamente sonatistico; il tema è povero, manca sovente il secondo. Non vi è svolgimento. Talvolta il terzo tempo si riannoda al primo. In altri casi la sinfonia è collegata con la prima scena (Idolo cinese, Credulo deluso). Nelle ultime opere la sinfonia appare notevolmente estesa, vivace nelle linee, gustosa nello strumentale (Nina). E la funzione orchestrale, sia nelle sinfonie, sia nel corso delle opere, è affidata non solo agli archi, spesso divisi e liberamente alternati alle trombe e ai corni, ma anche ai legni, fra i quali P. predilesse il clarinetto, spesso congiunto col fagotto.
Alla sinfonia segue, come usava, l'introduzione, per lo più in un solo movimento, rondò o canzone, cui partecipano tre o più personaggi, talvolta anche il coro (è il primo Insieme). Fra i pezzi solistici l'aria appare in tutti gli usati schemi, a due, a tre e quattro parti; prediletta la forma del rondò, brillantemente variato, e quella della canzone, spesso incantevole nel gusto elegantemente popolaresco. Frequente l'aria bipartita (Andante-allegro o Allegro-andante). Altri pezzi complessi: l'insieme e il finale. L'insieme paisielliano è talvolta omofonico, talaltra a imitazione; polifonia elementare e di ottima scuola. Ma l'interesse drammatico ne è sovente escluso. I personaggi, siano stati o no delineati, vengono accomunati senza alcuna considerazione della loro condizione. Il motivo principale è talvolta consono alla situazione scenica. Non mancano saggi squisiti d'una viva intuizione dell'insieme, allorché la scelta dei motivi e la disposizione delle voci avvivano il contrasto delle parti serie e delle comiche, delle persone liete e delle tristi, sì che ciascun personaggio sembra recare un accento particolare. E abbiamo così ricordato che la tradizionale distinzione delle parti serie (personaggi aristocratici, stile da melodramma) e delle comiche è presente in molte opere paisielliane. Pezzi anche più complessi, i finali appaiono o come successione di otto, dieci episodî scenici (arie, canzoni, recitativi accompagnati), collegati più dalla costante tonalità che dalla necessità dello svolgimento drammatico, o come una compatta composizione unitaria, anche in forma di rondò, nella quale gli episodî, anziché restare indipendenti, vengono improntati da uno stile solo, sì che la loro contiguità è implicitamente svolgimento e indica il travaglio non solo tecnico ma anche drammatico del compositore. Così il Paisiello seguiva, senza però avanzarlo, il Piccinni.
In quanto alle facoltà espressive, agli accenti caratteristici, Paisiello ebbe ricca la vena dell'ironia e quella del patetico. E l'una era capace di compiaciuta corrosività popolaresca, mirante specialmente allo spasso, e anche di arguzia sottilmente aristocratica; l'altra di interpretazioni squisite e toccanti, e sempre nobili, mirante alla commozione. Si può insistere su tali caratteri antitetici del popolaresco e dell'aristocratico, sia perché la commedia rifletteva il distacco delle classi sociali, e la consuetudine teatrale classificava comiche anche le persone tristi, se di nascita plebea, sia perché l'accento napoletano e meridionale dell'ironia è particolarmente caricaturale, agile, fantasioso, immaginoso, e punge, scotta, frusta, contento dell'improvvisazione che colga nel segno e precisi il rilievo dell'osservazione. Paisiello riuscì eccellentemente in tutti i casi, dall'imitazione quasi realistica dell'oggetto comico, col mezzo di strumenti popolareschi, di ritmi e di assonanze popolaresche, e dalla rappresentazione allegorica nella parodia, col rifacimento di motti musicali divenuti celebri, di effetti ritmici e coloristici d'un presunto esotismo, alla liricità del patetico, dalla serena tenerezza all'affanno. Ma il popolaresco, in quanto stile, non è poi limitato alle rappresentazioni popolaresche e gaie; anche le più flebili e nobili melodie sono paesane. Si potrebbe dirle dialettali, o pensate in dialetto e tradotte in italiano. Per ciò P. fu realmente uno stilista, rimasto incontaminato, si può aggiungere, da contatti stranieri e da studiose ricerche d'altri stili. E come tale, e come fecondo inventore di espressioni e di formule incisive, fu più volte esemplato da Mozart, come H. Abert ha documentato. Infine le sue molte facoltà e il dominio dei mezzi determinavano, laddove il libretto lo consentiva, la nitida caratterizzazione e quindi la vita drammatica. Nel Socrate immaginario (ironia, parodia, buffoneria attorno a don Tammaro, che s'illude d'esser filosofo della più alta levatura e viene beffato dai familiari esasperati, tenerezza e compatimento per le donne in casa), nella Bella molinara (dove il carattere rusticano è squisitamente ingentilito e la psicologia appare già attivamente perspicace), nella Nina (idillio, elegia, che nella delicata, poetica serenità di alcuni primordiali accenti reca il contrasto con i dolori, le angoscie, onde la psicologia della protagonista è ricca), la caratterizzazione sentimentale di parecchi personaggi appare incisiva. Tale caratterizzazione è il segno di un dinamismo interiore. Gli elementi psicologici, nel senso romantico, benché realizzati nella espressione più che nel congegno della compoosizione, nell'aria più che negli insieme, sono dunque già percepibili nelle più poetiche pagine di P.
P. coltivò, come i suoi contemporanei, e abbondantemente anche, la musica per chiesa e da camera. Per questa compose sonate e altri pezzi né geniali nell'invenzione, né nuovi nella forma. Per quella usò lo stile a cappella e quello concertante. Le maniere palestriniane, note ai maestri napoletani forti nel contrappunto, ma ormai prive del loro intimo ideale drammatico, venivano da essi in parte continuate scolasticamente, in parte ritemprate nella nuova sensibilità e con i nuovi mezzi tecnici. Ne risultarono composizioni ibride, alternanti antichità e modernità, ora nel corso dell'opera, ora, anche, in seno ai singoli pezzi. P. riuscì a una certa compenetrazione delle due maniere. Sembra che il testo lo abbia talvolta preoccupato, inducendolo a espressioni drammatiche, affidate non solo alle melodie, ma anche all'armonia, all'orchestra. Quando il rifacimento dell'antico non frenava la sua personale vena, la vigoria della rappresentazione riusciva notevole. Ciò si riscontra nella Missa pro defunctis, in do maggiore, per 8 voci e orchestra, nel confronto con la Messa per doppio coro in fa maggiore. Ammise gli elementi tecnici del "bel canto" e spesso li tramutò di decorativi in espressivi.
Bibl.: F. Barberio, Disavventure di P., in Rivista musicale italiana, XXIII, p. 534; id., I primi dieci anni di vita artistica di P., ibid., XXIX, p. 264; H. Albert, P.s Buffokunst, in Archiv für Musikwiss., 1918-19, p. 402; A. Della Corte, P., Torino 1922; id., P., in L'opera com. it. nel '700, II, Bari 1923; S. Panareo, P. in Russia: dalle sue lettere al Galiani, in Rassegna pugliese, XXV (1910); A. Cametti, P. e la corte di Vienna, Roma 1929; K. G. Fellerer, Der Palestrinastil, ecc., Augusta 1929, p. 169; N. Cortese, Un'autobiografia inedita di G. P., in La rassegna musicale, marzo 1930; G. C. Speziale, Musiche nuziali di P., in Scritti storici, Napoli 1931.